di Antonio Scurati
Ci sono date che, sebbene rimangano in principio ignorate, segnano una controstoria segreta dell’umanità. Il 5 giugno ’81 è una di quelle. Quel giorno il centro per la prevenzione delle malattie degli Usa identificò un’epidemia di pneumocistosi polmonare in 5 pazienti gay di Los Angeles. Era l’inizio dell’epidemia dell’AIDS. Ma era anche l’inizio degli anni ’80, il più lungo e intenso periodo di finta allegria dissipatrice che la storia dell’Occidente contemporaneo ricordi. Un decennio lungo trent’anni e durato fino a oggi. Anzi, fino a ieri. Trent’anni di fasulla e perfino lugubre joie de vivre sottilmente venati da un corrosivo presentimento luttuoso. Quel primo campanello d’allarme rimase a lungo inascoltato. Soltanto nel 1984 ci si renderà conto che un agente infettivo è il responsabile del diffondersi di una nuova terribile malattia, soltanto nel 1986 sarà pubblicato il primo report statunitense sull’AIDS che dichiarerà la necessità di dare informazioni sul sesso, soltanto nel 1987 l’Assemblea mondiale della Sanità approverà una prima strategia globale per fronteggiare l’epidemia. Nel frattempo, mentre l’epidemia dilaga, derubricata nell’agenda mediatica come flagello circoscritto alla comunità gay (non dimentichiamo che in un primo tempo venne definita «immunodeficienza gay-correlata»), là fuori, nella società occidentale che si autorappresenta come ricca, sana, festosa, libera e gaudente, il party sfrenato continua fino alle prime luci dell’alba. Buttati dietro le spalle gli anni ’70 degli ultimi conflitti sociali manifesti e delle ultime dure lotte politiche, si predica ovunque euforicamente il nuovo verbo della società dei consumi, il cui hard core culturale e commerciale sta proprio, non a caso, nello scatenamento dei consumi sessuali. Ogni merce, anche la meno eccitante, viene sapientemente investita da un flusso di pulsioni libidinali ad opera di una legione di pubblicitari. La «liberazione sessuale», massima conquista dei movimenti di contestazione dei decenni precedenti, viene pervertita e irradiata sull’intero spettro delle merci. L’imperativo è uno solo: consumare, spandere, godere. Tre verbi che stanno chiaramente su di un continuum temporale e semantico con l’atto ed il concetto di «scopare».
Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei ’60 e il principio dei ’70, l’AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell’ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni ’80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all’età biologica del godimento sessuale proprio quando l’agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni ’80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). Raggiunti i sedici anni, quando, carichi di ormoni e di fantasie sessuali alimentate dalla dilagante nudità dei corpi, ci sentimmo pronti a buttarci nell’orgia scatenata dai nostri fratelli maggiori che erano passati dalle ammucchiate fricchettone alle agenzie pubblicitarie, ci dissero che l’orgia era un brodo di cultura d’infezione. Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato. Per noi occidentali, l’AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. Era una piaga tipica della società dei consumi, strettamente correlata agli «stili di vita», recentemente elevati a suprema ideologia libertaria (l’AIDS fu la prima malattia infettiva scoperta come tale con solo metodo matematico statistico, cioè indagandone l’incidenza in gruppi sociali connotati dalle medesime abitudini), alla gioia vacanziera (il turismo sessuale ad Haiti), propensa a falcidiare gli idoli dello star system cinematografico (Rock Hudson), musicale (Freddie Mercury) e intellettuale (Michel Foucault). Se ne ebbe l’apice simbolico quando, pochi mesi prima di morire, Rock Hudson, ospite del serial Falcon Crest - emblema di quel culto fatuo della nuova, facile ricchezza - baciò sulla bocca Linda Evans per ragioni di copione, gettando così nel panico la troupe e l’intera produzione. Il linguaggio, come sempre, veicolò il contagio nell’immaginario.
Da quel momento in avanti l’amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l’atto sessuale, sottoposto all’ ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l’espressione di un’esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l’invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio. Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l’ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l’Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni ’80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l’amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni ’80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l’orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell’altro e, soprattutto, di noi stessi.
Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei ’60 e il principio dei ’70, l’AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell’ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni ’80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all’età biologica del godimento sessuale proprio quando l’agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni ’80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). Raggiunti i sedici anni, quando, carichi di ormoni e di fantasie sessuali alimentate dalla dilagante nudità dei corpi, ci sentimmo pronti a buttarci nell’orgia scatenata dai nostri fratelli maggiori che erano passati dalle ammucchiate fricchettone alle agenzie pubblicitarie, ci dissero che l’orgia era un brodo di cultura d’infezione. Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato. Per noi occidentali, l’AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. Era una piaga tipica della società dei consumi, strettamente correlata agli «stili di vita», recentemente elevati a suprema ideologia libertaria (l’AIDS fu la prima malattia infettiva scoperta come tale con solo metodo matematico statistico, cioè indagandone l’incidenza in gruppi sociali connotati dalle medesime abitudini), alla gioia vacanziera (il turismo sessuale ad Haiti), propensa a falcidiare gli idoli dello star system cinematografico (Rock Hudson), musicale (Freddie Mercury) e intellettuale (Michel Foucault). Se ne ebbe l’apice simbolico quando, pochi mesi prima di morire, Rock Hudson, ospite del serial Falcon Crest - emblema di quel culto fatuo della nuova, facile ricchezza - baciò sulla bocca Linda Evans per ragioni di copione, gettando così nel panico la troupe e l’intera produzione. Il linguaggio, come sempre, veicolò il contagio nell’immaginario.
Da quel momento in avanti l’amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l’atto sessuale, sottoposto all’ ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l’espressione di un’esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l’invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio. Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l’ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l’Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni ’80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l’amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni ’80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l’orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell’altro e, soprattutto, di noi stessi.
«La Stampa» del 4 giugno 2011
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