Bilancio degli esami di stato
di Michele Salvati
di Michele Salvati
Come sono valutati gli esami che concludono la scuola media superiore, gli esami di Stato, quelli che una volta si chiamavano esami di maturità? Le commissioni d'esame sono composte da un presidente, che proviene da una scuola diversa da quella in cui si svolge l'esame, e da sei membri, tre professori dell'ultimo anno della scuola e tre provenienti da altre scuole. Un controllo «esterno», sia pur parziale, dunque esiste. Le valutazioni di queste commissioni hanno lo stesso valore legale: un 80 o un 100 ottenuto nell'istituto X della città A hanno lo stesso «valore» di un 80 o un 100 nell'istituto Y della città B.
Ma tutti sanno che ciò non corrisponde alla realtà. Presidente e professori esterni normalmente provengono da scuole vicine a quella in cui si svolge l'esame, e dunque da contesti socio- culturali analoghi. E quand'anche un esterno avesse standard rigorosi e volesse adottarli in una scuola dove si sono stabilizzati da tempo standard più bassi, normalmente non riuscirebbe a far prevalere la sua opinione, in presenza di docenti interni che «difendono» i loro studenti e di un presidente che cerca di sedare i conflitti e raggiungere rapidamente un risultato. Insomma, in alcune realtà didattiche locali, la scuola è una cosa seria, seri i commissari interni e esterni, seri i risultati degli esami di Stato. In altre realtà le cose non stanno così: gli 80 e i 100 ottenuti nelle due realtà corrispondono a livelli di competenze e conoscenze profondamente diversi. Due anni fa, commentando su questo giornale il dibattito che si svolge a metà agosto in Gran Bretagna, quando vengono pubblicati gli esiti degli esami che concludono la scuola media superiore e danno accesso all'Università (A level), avevo suggerito di introdurre anche in Italia il sistema di correzione centralizzata adottato in quel Paese.
Più esplicitamente è recentemente intervenuto in materia Andrea Ichino sul Sole 24 Ore e sono d'accordo con la sua analisi e le sue conclusioni. Prima domanda e risposta: serve un esame di Stato come quello italiano? No, non serve. Serve poco per promuovere uno sforzo addizionale di docenti e studenti, allo scopo di raggiungere risultati migliori: in molte situazioni l'esperienza insegna che si può intascare il certificato d'esame, e con buoni voti, anche con prove scadenti. Se così stanno le cose, non serve a chi voglia basarsi su quel certificato per valutare chi ha superato l'esame al fine di attribuire un lavoro, una borsa di studio, l'ammissione a un corso universitario con numero chiuso: gli stessi voti corrispondono a capacità e conoscenze molto, troppo, diverse. E non serve allo Stato, che è il responsabile del sistema dell'istruzione pubblica e dunque deve curarne la qualità: per farlo deve sapere quali sono le scuole buone o mediocri, e con il sistema di valutazione oggi in vigore non può certo scoprirlo.
Seconda domanda e risposta: è migliorabile l'impianto attuale di tantissime commissioni indipendenti distribuite sul territorio? Miglioramenti o peggioramenti sono sempre possibili: il regolamento odierno è probabilmente migliore di quello introdotto dalla ministra Moratti, che aveva abolito i commissari esterni. Le considerazioni che abbiamo svolto ci fanno però optare per una risposta negativa. Se entrambe le risposte sono convincenti, ne discende che le alternative sono due. Si aboliscano del tutto gli esami di Stato e si evitino sprechi e inutili fatiche: valgono, per quel che valgono, i voti dell'ultimo anno, e chi deve valutare gli studenti per ulteriori passaggi nella loro carriera (le università, i datori di lavoro, chi concede borse di studio...) stabilirà sistemi di accertamento e di valutazione propri. Oppure si proceda verso prove d'esame tutte scritte e valutate centralmente, com'è il caso del Regno Unito e di alcuni altri Paesi. È una soluzione che presenta problemi organizzativi non facili (ma risolvibili, visto che altri Paesi li hanno risolti), che non dà risultati perfetti e va tarato in continuazione.
Ma è una soluzione che riduce drasticamente le discrepanze oggi esistenti nel significato dei medesimi voti. E soprattutto farebbe emergere un grande problema della nostra scuola, una varietà regionale dei risultati didattici inaccettabile in un Paese che si pretende unito. Un esame di stato corretto centralmente non è che un gigantesco programma di valutazione, simile a quello che svolge l'Ocse (il famoso «Pisa», Programme for International Student Assessment) e che ci vede drammaticamente indietro rispetto a gran parte degli altri Paesi, soprattutto a seguito dei risultati infimi di alcune regioni. La valutazione sarebbe fatta a 18 anni invece che a 15; si svolgerebbe solo in Italia, dove però non sarebbe attuata su un campione ma sull'intera popolazione. Temo che i risultati sarebbero simili a quelli del «Pisa», ma l'impatto sull'opinione pubblica e sulle forze politiche sarebbe ben superiore e forse indurrebbe queste ultime a intervenire. O almeno così è lecito sperare.
Ma tutti sanno che ciò non corrisponde alla realtà. Presidente e professori esterni normalmente provengono da scuole vicine a quella in cui si svolge l'esame, e dunque da contesti socio- culturali analoghi. E quand'anche un esterno avesse standard rigorosi e volesse adottarli in una scuola dove si sono stabilizzati da tempo standard più bassi, normalmente non riuscirebbe a far prevalere la sua opinione, in presenza di docenti interni che «difendono» i loro studenti e di un presidente che cerca di sedare i conflitti e raggiungere rapidamente un risultato. Insomma, in alcune realtà didattiche locali, la scuola è una cosa seria, seri i commissari interni e esterni, seri i risultati degli esami di Stato. In altre realtà le cose non stanno così: gli 80 e i 100 ottenuti nelle due realtà corrispondono a livelli di competenze e conoscenze profondamente diversi. Due anni fa, commentando su questo giornale il dibattito che si svolge a metà agosto in Gran Bretagna, quando vengono pubblicati gli esiti degli esami che concludono la scuola media superiore e danno accesso all'Università (A level), avevo suggerito di introdurre anche in Italia il sistema di correzione centralizzata adottato in quel Paese.
Più esplicitamente è recentemente intervenuto in materia Andrea Ichino sul Sole 24 Ore e sono d'accordo con la sua analisi e le sue conclusioni. Prima domanda e risposta: serve un esame di Stato come quello italiano? No, non serve. Serve poco per promuovere uno sforzo addizionale di docenti e studenti, allo scopo di raggiungere risultati migliori: in molte situazioni l'esperienza insegna che si può intascare il certificato d'esame, e con buoni voti, anche con prove scadenti. Se così stanno le cose, non serve a chi voglia basarsi su quel certificato per valutare chi ha superato l'esame al fine di attribuire un lavoro, una borsa di studio, l'ammissione a un corso universitario con numero chiuso: gli stessi voti corrispondono a capacità e conoscenze molto, troppo, diverse. E non serve allo Stato, che è il responsabile del sistema dell'istruzione pubblica e dunque deve curarne la qualità: per farlo deve sapere quali sono le scuole buone o mediocri, e con il sistema di valutazione oggi in vigore non può certo scoprirlo.
Seconda domanda e risposta: è migliorabile l'impianto attuale di tantissime commissioni indipendenti distribuite sul territorio? Miglioramenti o peggioramenti sono sempre possibili: il regolamento odierno è probabilmente migliore di quello introdotto dalla ministra Moratti, che aveva abolito i commissari esterni. Le considerazioni che abbiamo svolto ci fanno però optare per una risposta negativa. Se entrambe le risposte sono convincenti, ne discende che le alternative sono due. Si aboliscano del tutto gli esami di Stato e si evitino sprechi e inutili fatiche: valgono, per quel che valgono, i voti dell'ultimo anno, e chi deve valutare gli studenti per ulteriori passaggi nella loro carriera (le università, i datori di lavoro, chi concede borse di studio...) stabilirà sistemi di accertamento e di valutazione propri. Oppure si proceda verso prove d'esame tutte scritte e valutate centralmente, com'è il caso del Regno Unito e di alcuni altri Paesi. È una soluzione che presenta problemi organizzativi non facili (ma risolvibili, visto che altri Paesi li hanno risolti), che non dà risultati perfetti e va tarato in continuazione.
Ma è una soluzione che riduce drasticamente le discrepanze oggi esistenti nel significato dei medesimi voti. E soprattutto farebbe emergere un grande problema della nostra scuola, una varietà regionale dei risultati didattici inaccettabile in un Paese che si pretende unito. Un esame di stato corretto centralmente non è che un gigantesco programma di valutazione, simile a quello che svolge l'Ocse (il famoso «Pisa», Programme for International Student Assessment) e che ci vede drammaticamente indietro rispetto a gran parte degli altri Paesi, soprattutto a seguito dei risultati infimi di alcune regioni. La valutazione sarebbe fatta a 18 anni invece che a 15; si svolgerebbe solo in Italia, dove però non sarebbe attuata su un campione ma sull'intera popolazione. Temo che i risultati sarebbero simili a quelli del «Pisa», ma l'impatto sull'opinione pubblica e sulle forze politiche sarebbe ben superiore e forse indurrebbe queste ultime a intervenire. O almeno così è lecito sperare.
“Corriere della sera” del 2 agosto 2008
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