Nei suoi capolavori la denuncia degli orrori dell’ideologia e un’alta riflessione sul male
Domenica, alle 22.45, è morto per infarto nella sua casa di Mosca Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn, grande scrittore e pensatore, figura di enorme rilievo della dissidenza sovietica e dell’opposizione culturale al regime marxista-leninista. Era nato nel 1918. Unanime il cordoglio in Russia, unica voce fuori dal coro quella del comunista Ghennadij Ziuganov secondo il quale lo scrittore, per la nuova Russia, «si è rivelato inutile». Forte la commozione anche all’estero: molti leader, fra cui il presidente francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel («un grande scrittore e un cittadino impegnato») e quello Usa George W. Bush, hanno inviato messaggi. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Javier Solana, l’ha definito «un autore che ha contribuito a cambiare il corso della storia», mentre il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha annunciato l’accensione delle luci del Colosseo per ricordare lo scrittore. A Mosca per tutta la giornata di oggi sarà aperta al pubblico la camera ardente nella sede dell’Accademia delle Scienze. Durante la guerra Solzhenitsyn fu arrestato per aver criticato il regime di Stalin e trascorse otto anni nei lager.
Nel 1962, con l’approvazione di Nikita Khrushchev, uscì la sua prima opera dedicata a questa esperienza: il racconto «Una giornata di Ivan Denisovich». Nel 1970 lo scrittore fu insignito del Premio Nobel e nel 1974 fu pubblicata in Francia la sua opera più nota, «Arcipelago Gulag», vietata nell’Urss.
Solzhenitsyn fu nuovamente arrestato, privato della cittadinanza e costretto all’esilio, prima in Svizzera e poi negli Usa. Tornò in patria solo con l’inizio della perestrojka del presidente Mikhail Gorbaciov. (G.Ben.)
Nel 1962, con l’approvazione di Nikita Khrushchev, uscì la sua prima opera dedicata a questa esperienza: il racconto «Una giornata di Ivan Denisovich». Nel 1970 lo scrittore fu insignito del Premio Nobel e nel 1974 fu pubblicata in Francia la sua opera più nota, «Arcipelago Gulag», vietata nell’Urss.
Solzhenitsyn fu nuovamente arrestato, privato della cittadinanza e costretto all’esilio, prima in Svizzera e poi negli Usa. Tornò in patria solo con l’inizio della perestrojka del presidente Mikhail Gorbaciov. (G.Ben.)
Di Fulvio Panzeri
Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn è l’ultimo 'gigante' di quella grande tradizione che è la narrativa russa, una grandezza la sua che si fonda sulla lezione di Dostoevskij, su quella sua lacerante capacità di cercare la verità, là dove tutto sembra volgere all’ombra e il male contrastare la forza della realtà. Eppure l’Italia sembra non riconoscere appieno questa grandezza, visto che la sua opera letteraria, uscita negli anni, non sembra incontrare l’interesse della nostra editoria. Nelle librerie troviamo solo alcune delle sue opere, ma non tutto il corpus significativo, che uno scrittore della sua statura merita. È questa una precisazione e una premessa doverosa. Ad esempio, un romanzo fondamentale come Il primo cerchio da anni non è più ristampato. Pubblicato, nel 1968, con il titolo che rimanda ad una citazione dantesca, racconta tre giorni della vita degli ospiti della sharashka di Marfino, una località in Siberia. Si tratta di un 'campo di prigionia leggera' in cui venivano detenuti e lavoravano scienziati e tecnici sovietici che erano stati arrestati sulla base dell’articolo 58 del Codice penale sovietico durante il periodo staliniano, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Le condizioni di vita nel campo erano buone, perché agli internati era richiesto un atteggiamento di ' collaborazionismo' per progetti tecnici. Molti però scelgono di non stare più al gioco del potere, come il protagonista Gleb Nerzhin, e smettono di cooperare anche se questa scelta comporta l’essere espulsi dalla sharashka ed essere inviati in campi di concentramento dove la realtà è ben più dura e opprimente.
Aveva detto Solzenicyn: «Fino al 1961 non solo ero convinto che non avrei mai dovuto vedere una sola mia linea stampata nella mia vita, ma, anche, a stento osai permettere ad alcune delle mie più vicine conoscenze di leggere quello che scrissi perché temevo che si venisse a sapere». A quarantadue anni però, grazie all’intervento del poeta e capo redattore del Novyj Mir Aleksandr Tvardovskij Una giornata di Ivan Denisovich viene pubblicato, l’unico suo libro a vedere le stampe in Russia fino al 1990. L’uscita di un libro che metteva in luce la realtà dei gulag, che era opera di uno scrittore che aveva vissuto direttamente quell’esperienza, fu possibile grazie all’esplicita approvazione di Khrushchev. Il successo del romanzo breve fu enorme, dal punto di vista critico (ci fu chi lo paragonò alla Casa dei morti di Dostoevskji) e da quello del pubblico. Il numero della rivista dove fu pubblicato andò subito a ruba e la gente aveva paura di non riuscire a trovarlo, tanto che Sergej Averincev, uno dei più grandi intellettuali russi del XX secolo ricorda: «Non dimenticherò mai un uomo un po’ strampalato, che non riusciva a dire il nome del Novyj Mir e chiedeva alla giornalaia: 'Ma sì, ma sì, quello dove c’è scritta tutta la verità!'. E lei capiva di che cosa stesse parlando il suo interlocutore ». In Italia, pubblicato da Einaudi, insieme a La casa di Matrjona, resta ancora oggi il testo più conosciuto del grande scrittore russo. Un’apertura questa che dura pochi anni. La caduta di Khrushchev chiude anche la breve parentesi: Solzhenitsyn tenta di far pubblicare Padiglione Cancro, altro suo grande romanzo, ambientato nel reparto oncologico dell’ospedale di una città dell’Asia centrale dove si incontrano, senza riuscire a entrare in comunicazione, donne e uomini che hanno alle spalle esistenze diverse. L’incombere della malattia e della morte li costringe a fare il bilancio della propria vita, ma anche a confrontarsi con la spada di Damocle del destino. Il valore dei singoli si misurerà sulla base della loro capacità di far tesoro dell’esperienza della vita e della sofferenza e di riuscire a trasferire nel mondo esterno le riflessioni avviate nella corsia dell’ospedale.
Quest’opera però rappresenterà la frattura tra lo scrittore e le autorità sovietiche. Negata la possibilità di pubblicazione per il libro in quanto non corretto e libero dal sospetto di insinuazioni e affermazioni antisovietiche, nel 1965, il Kgb sequestra molti dei suoi manoscritti, compreso quello del Primo cerchio.
Nel frattempo Solzhenitsyn continua segretamente il febbrile lavoro a quella che diventerà la sua 'opera mondo', il monumentale Arcipelago Gulag (disponibile nell’edizione in due volumi dei 'Meridiani' Mondadori'), che vedrà la luce solo dopo che lo scrittore, nel 1974, viene deportato dall’Unione Sovietica alla Germania Ovest e privato della cittadinanza russa. È la summa di tutta l’opera di Solzhenitsyn, un romanzo-saggio che si costruisce intorno a un’imponente raccolta di dati sulle deportazioni e i campi di reclusione dell’epoca staliniana: una vera storia, geografica ed etnologica, della realtà dei lager. Per realizzare il suo capolavoro lo scrittore si era avvalso dei racconti e delle deposizioni di più di duecento ex deportati. La sua pubblicazione mette in crisi anche l’intellighenzia europea, tanto che Raymond Aron, nel 1975, deve intervenire a suo favore: «Se Solzhenitsyn crea imbarazzo, se indigna, è perché colpisce gli intellettuali d’Occidente nel punto più sensibile, quello della menzogna: se accettate i Gulag più grandi – li interpella – perché una sì virtuosa indignazione alla vista dei piccoli? I campi restano campi, siano essi bruni o rossi. Da più di cinquant’anni gli intellettuali occidentali di rifiutano di ascoltare questa domanda».
Il valore di questo libro è cresciuto nel tempo, ponendolo come una pietra miliare di tutta la letteratura del Novecento, per quella lucida riflessione sulla natura del male che documenta e interpreta al contempo. Del resto nel libro troviamo: «Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni... L’ideologia! È lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio... Grazie all’ideologia è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni. La malvagità è inconfutabile, non può essere passata sotto silenzio né scansata: come oseremmo insistere che i malvagi non esistono? Chi annientava quei milioni? Senza malvagi non sarebbe esistito l’Arcipelago».
“Avvenire” del 5 agosto 2008
Aveva detto Solzenicyn: «Fino al 1961 non solo ero convinto che non avrei mai dovuto vedere una sola mia linea stampata nella mia vita, ma, anche, a stento osai permettere ad alcune delle mie più vicine conoscenze di leggere quello che scrissi perché temevo che si venisse a sapere». A quarantadue anni però, grazie all’intervento del poeta e capo redattore del Novyj Mir Aleksandr Tvardovskij Una giornata di Ivan Denisovich viene pubblicato, l’unico suo libro a vedere le stampe in Russia fino al 1990. L’uscita di un libro che metteva in luce la realtà dei gulag, che era opera di uno scrittore che aveva vissuto direttamente quell’esperienza, fu possibile grazie all’esplicita approvazione di Khrushchev. Il successo del romanzo breve fu enorme, dal punto di vista critico (ci fu chi lo paragonò alla Casa dei morti di Dostoevskji) e da quello del pubblico. Il numero della rivista dove fu pubblicato andò subito a ruba e la gente aveva paura di non riuscire a trovarlo, tanto che Sergej Averincev, uno dei più grandi intellettuali russi del XX secolo ricorda: «Non dimenticherò mai un uomo un po’ strampalato, che non riusciva a dire il nome del Novyj Mir e chiedeva alla giornalaia: 'Ma sì, ma sì, quello dove c’è scritta tutta la verità!'. E lei capiva di che cosa stesse parlando il suo interlocutore ». In Italia, pubblicato da Einaudi, insieme a La casa di Matrjona, resta ancora oggi il testo più conosciuto del grande scrittore russo. Un’apertura questa che dura pochi anni. La caduta di Khrushchev chiude anche la breve parentesi: Solzhenitsyn tenta di far pubblicare Padiglione Cancro, altro suo grande romanzo, ambientato nel reparto oncologico dell’ospedale di una città dell’Asia centrale dove si incontrano, senza riuscire a entrare in comunicazione, donne e uomini che hanno alle spalle esistenze diverse. L’incombere della malattia e della morte li costringe a fare il bilancio della propria vita, ma anche a confrontarsi con la spada di Damocle del destino. Il valore dei singoli si misurerà sulla base della loro capacità di far tesoro dell’esperienza della vita e della sofferenza e di riuscire a trasferire nel mondo esterno le riflessioni avviate nella corsia dell’ospedale.
Quest’opera però rappresenterà la frattura tra lo scrittore e le autorità sovietiche. Negata la possibilità di pubblicazione per il libro in quanto non corretto e libero dal sospetto di insinuazioni e affermazioni antisovietiche, nel 1965, il Kgb sequestra molti dei suoi manoscritti, compreso quello del Primo cerchio.
Nel frattempo Solzhenitsyn continua segretamente il febbrile lavoro a quella che diventerà la sua 'opera mondo', il monumentale Arcipelago Gulag (disponibile nell’edizione in due volumi dei 'Meridiani' Mondadori'), che vedrà la luce solo dopo che lo scrittore, nel 1974, viene deportato dall’Unione Sovietica alla Germania Ovest e privato della cittadinanza russa. È la summa di tutta l’opera di Solzhenitsyn, un romanzo-saggio che si costruisce intorno a un’imponente raccolta di dati sulle deportazioni e i campi di reclusione dell’epoca staliniana: una vera storia, geografica ed etnologica, della realtà dei lager. Per realizzare il suo capolavoro lo scrittore si era avvalso dei racconti e delle deposizioni di più di duecento ex deportati. La sua pubblicazione mette in crisi anche l’intellighenzia europea, tanto che Raymond Aron, nel 1975, deve intervenire a suo favore: «Se Solzhenitsyn crea imbarazzo, se indigna, è perché colpisce gli intellettuali d’Occidente nel punto più sensibile, quello della menzogna: se accettate i Gulag più grandi – li interpella – perché una sì virtuosa indignazione alla vista dei piccoli? I campi restano campi, siano essi bruni o rossi. Da più di cinquant’anni gli intellettuali occidentali di rifiutano di ascoltare questa domanda».
Il valore di questo libro è cresciuto nel tempo, ponendolo come una pietra miliare di tutta la letteratura del Novecento, per quella lucida riflessione sulla natura del male che documenta e interpreta al contempo. Del resto nel libro troviamo: «Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni... L’ideologia! È lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio... Grazie all’ideologia è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni. La malvagità è inconfutabile, non può essere passata sotto silenzio né scansata: come oseremmo insistere che i malvagi non esistono? Chi annientava quei milioni? Senza malvagi non sarebbe esistito l’Arcipelago».
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