Relativismo e verità
Di Giovanni Martino (27/08/06)
Che cos’è questo “relativismo” di cui tanto si parla? La panacea per una società più libera e tollerante? O un pericoloso virus che mina le basi della convivenza democratica?
La dottrina del cosiddetto relativismo è molto seducente: non esistono verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo. Dal che deriverebbe automaticamente il rispetto assoluto per le idee degli altri, la rinuncia ad ogni tentazione di imporre le proprie con la forza: dialogo e concordia assicurati. Tutto facile, no? La mentalità “relativista” emerge anche nelle discussioni quotidiane: può capitare che chi sostiene con convinzione una tesi, chi parla di “verità”, si senta etichettare pregiudizialmente come "dogmatico" (termine che invece, più propriamente, dovrebbe indicare chi rifiuta di discutere le proprie tesi); o come "intollerante" (termine che dovrebbe, piuttosto, indicare chi pretende di imporre la propria visione, anziché proporla al dibattito comune). Emerge allora una certa carica aggressiva del relativismo, che vuole coprire la sua banalità e superficialità.
Il fatto è che il relativismo è una costruzione astratta, che non dà risposta ai problemi concreti della convivenza. Gli ideali, le verità di cui si discute (e che il relativismo mette in discussione), infatti, sono quelli della sfera sociale e civile, e non di quella personale. Non si tratta di decidere se preferiamo andare a vedere un film comico o drammatico, se è più piacevole la vacanza al mare o quella in montagna. Non si tratta di questioni destinate a rimanere confinate tra le poltrone di un qualsiasi circolo culturale. Materia del contendere, piuttosto, è la misura in cui ideali sociali, civili e politici possano diventare fondamento comune della convivenza.
Possiamo fare a meno di valori comuni?
La prima domanda che ci poniamo: è davvero possibile, in una qualsiasi società, una convivenza serena priva di princìpî (ovvero ideali, o - con una connotazione positiva - valori) comuni, reciprocamente riconosciuti, posti alla base delle convenzioni e delle norme? E' praticabile il cosiddetto relativismo? Un sano realismo ci dimostra di no.
In tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza. Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico.
Ad esempio, una scuola, i cui insegnanti - anche i più eruditi e preparati metodologicamente - non avessero valori su cui fondare l’insegnamento, non sarebbe in grado di insegnare nulla. Avere valori, contenuti di riferimento, non significa indottrinare o plagiare. Trasmettere ai discenti il senso critico, fornire chiavi di interpretazione, distinguere la qualità di ciò che è fondamentale apprendere (perché prima Dante e poi – che so… - Gonzales?), orientarsi nel pluralismo: sono tutte operazioni che, pur non essendo dottrinarie o ideologiche, partono da un certo sistema di valori.
Ancora: una comunità di lavoratori, un'impresa, in cui gli addetti abbiano grande perizia tecnica, ma in cui non ci siano la stessa cultura del lavoro, lo stesso senso dell'impegno e del dovere, lo stesso spirito di collaborazione, fiducia reciproca, voglia di perseguire un obiettivo comune, è condannata al fallimento. Non è ipotesi astratta: nessuna azienda internazionale riesce a far collaborare lavoratori di nazionalità diversa, se non dopo che questi siano stati selezionati sulla base di determinati parametri e abbiano seguito lunghi corsi di formazione sulla mission e lo stile di lavoro aziendali; altrimenti, un tedesco e un giamaicano si manderebbero a quel paese dopo cinque minuti...
E così in tutte le realtà umane: nello sport, nella ricerca scientifica, sino al più vasto ambito della comunità culturale e sociale, dove l’etica sociale e civile fonda il senso di appartenenza ad una collettività.
Sia detto per inciso: alcuni sono convinti che le parole "etica", "morale", siano riservate alla sfera intima e privatissima dell'individuo. Per cui parlare di "etica (o di morale) sociale e civile" significherebbe sovrapporre il piano personale con quello sociale o, peggio, politico, ai confini dello Stato Etico.
Ora (a prescindere dal fatto che anche la moralità personale ha una dimensione oggettiva), ci rendiamo tutti ben conto, ogni giorno, che i nostri comportamenti sono vincolati dal rispetto di una serie di valori, iscritti in norme non giuridiche ma morali: la sincerità, la fedeltà, la correttezza (come, ad esempio, non “fare le scarpe” al collega di lavoro), la disponibilità, il rispetto della parola data, la gratitudine, ecc. Regole che sentiamo intimamente giuste, regole il cui rispetto gli altri si attendono da noi e, soprattutto, noi pretendiamo da loro. Tali norme richiedono certo, innanzitutto, un consenso spontaneo; ma hanno anche diversi gradi di "necessità" (se non le si rispetta, le cose vanno male) e di "obbligatorietà" (c'è una pressione sociale a rispettarle). La morale, dunque, non è solo una scala di valori personale e interiore, ma anche un codice sociale, anche perché la sua stessa percezione varia con il variare delle culture (Hegel, a dire il vero, utilizzò il termine "etica" per definire il codice sociale, preferendo riservare quello di morale alle propensioni individuali; ma questa è una sottigliezza filosofica). L’etimologia stessa di “morale” (dal latino mores = usi, costumi), così come quella di “etica” (dal greco êthos, che parimenti indica usi e costumi), ci rammentano ciò.
In tutti i contesti sociali e culturali troveremo sempre, inevitabilmente, norme morali da rispettare: chi ha vissuto negli anni ’60/’70 l’esperienza delle “comuni”, improntate teoricamente alla massima promiscuità sessuale, racconta di furibonde scenate di gelosia (!), che hanno infine portato alla dissoluzione di quelle esperienze. Chi pensasse di attenersi alle sole norme giuridiche, infischiandosene allegramente di quelle morali, danneggerebbe probabilmente il proprio equilibrio interiore, incontrerebbe certamente l’ostilità delle persone che lo circondano, non troverebbe la chiave di mediazione e di soluzione dei conflitti comunitari e sociali.
La rilevanza sociale dei valori, insomma, appartiene al grande campo delle idee umane, che guidano lo sviluppo della civiltà. E' il campo della cultura: nessuno può negare che la cultura sia un fenomeno sociale! Questa rilevanza sociale, poi, è anche un’esigenza pratica della convivenza.
Alcuni valori che hanno particolare rilevanza sul piano morale, sociale, culturale, possono trasporla anche sul piano politico-giuridico, possono fondare norme giuridiche, dotate del massimo grado di "coattività": un patto può divenire un contratto, tutelato dall'ordinamento statale. Il furto non è più solo un'offesa privata, ma un reato pubblico.
Anche le scelte politiche esprimono un criterio "valutativo": un'ideologia, una scala di princìpî o valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
E ancora: un tribunale che non applicasse la legge (basata sui valori della Costituzione) non sarebbe in grado di giudicare secondo giustizia; esprimerebbe, al massimo, l'estro del giudice.
La natura dei "valori"
La dimensione sociale dei valori non è solo un'esigenza della pura convivenza, ma anche della crescita sociale.
Tutte le realtà naturali (scuola, lavoro, politica, scienza, arte, ecc.) hanno leggi e valori propri. "Leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma anche "valori" (termine cui diamo una connotazione positiva, ancor più che "principio" o "ideale"), i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio. Così ogni professione deve avere il suo codice deontologico, lo sport ha senso proprio in quanto rispecchi correttezza e 'sportività', l'economia non può ridursi ad abili speculazioni finanziarie, ecc.
I valori delle realtà naturali e sociali sono composti da alcuni elementi costanti, universali (naturali, appunto: ne parliamo più a fondo nell'articolo sul diritto naturale). Tali elementi, universali, ci consentono di parlare di una 'verità' morale, componenete oggettiva del valore sociale, non "contrattabile" (benché destinata nel tempo ad essere compresa con sempre maggiore nitidezza).
L'utilizzo del concetto di 'verità', 'oggettività', come accennavamo all'inizio, fa temere molti che sia sottratto spazio alla libertà umana, che ci si affidi ad un cieco dogmatismo, che qualcuno voglia imporre con la forza la propria ideologia. In realtà, vedremo più avanti che questa è un'interpretazione distorta del concetto di verità. Non bisogna pensare che la ricerca della verità debba essere sottratta al dialogo, o che il consenso sia necessariamente irrilevante.
Ad ogni buon conto, ancor prima di approfondire il concetto di verità, bisogna evitare che confuse preoccupazioni al riguardo ci facciano perdere di vista i dati dell'esperienza e le evidenze della ragione: di fronte alla necessità di compiere scelte, il criterio valutativo di selezione dei principî che viene utilizzato, se non ha una dimensione oggettiva, potrebbe essere casuale, arbitrario, un mero compromesso, o addirittura il frutto di una prevaricazione; così si condannerebbe la realtà in cui si opera all'impoverimento o al fallimento. Se invece c'è la capacità di identificare il "valore" proprio di quella realtà, se ne favorisce la piena espressione.
Agli elementi costanti (nei valori delle realtà naturali e sociali) si aggiungono elementi mutevoli, a seconda del contesto (storico, geografico, sociale, culturale). Questi elementi - in cui l'aspetto del consenso è prevalente - si raccordano in una tradizione, che esprime la cultura e l'identità collettiva di una comunità. L’esperienza esistenziale di ogni generazione continuamente verifica (o falsifica) quelle acquisizioni, le anima e le fa rivivere.
Certamente, non è facile rispettare alcune esigenze nella ricerca dei valori comuni: questi non devono essere imposizione arbitraria di una parte, di una cultura; devono essere oggetto di un dibattito trasparente, che garantisca il massimo del consenso possibile; non devono comprimere libertà fondamentali; devono essere capaci di dare risposte efficaci alle esigenze delle realtà sociali nelle quali sono calati (risposte adeguate secondo i contesti storici e sociali, senza pericolose rigidità). Si tratta di preoccupazioni di metodo legittime. Ma il relativismo fa esplodere queste preoccupazioni, arrivando a negare in radice l'esistenza e la conoscibilità dei valori e di ogni verità. E, quindi, arrampicandosi un po' sugli specchi, è costretto a negare - contro ogni realismo - la loro necessità nelle realtà sociali.
Alle preoccupazioni di metodo si aggiungono sovente preoccupazioni derivanti da esperienze storiche negative, nelle quali si sono imposti il fanatismo o l'ideologismo violento. Ma, anche qui, il relativismo si rivela incapace di analizzare correttamente e comprendere le radici di questi fenomeni, pensando, per evitare il pericolo che qualcuno strumentalizzi l'idea di verità a proprio vantaggio, se ne debba trarre la conseguenza che questa idea sia pericolosa o inesistente (come chi pensasse di abolire il linguaggio per evitare gli insulti, o vietare il sesso per evitare gli stupri).
Il relativismo inquina il dialogo logico-razionale (come l'abbiamo conosciuto dai tempi di Aristotele), negando che dal confronto di tesi diverse si possa arrivare ad una tesi comune. Il suo approdo è il nichilismo, il non credere in niente.
Ad esempio, si fa un bel parlare di "multiculturalismo", definendolo prospettiva "inevitabile" delle nostre società. Quasi che il termine "inevitabile" elimini di per sé i problemi. Ma come immaginiamo la convivenza di culture opposte?
Ci si affida spesso alla soluzione della "tolleranza", talismano piuttosto semplicistico che non può conciliare posizioni destinate allo scontro. Dal principio della tolleranza, ad esempio, sembrerebbe derivare senza problemi la necessità di rispettare i diritti fondamentali dell'altro; sennonché la "tolleranza" non si premura di individuare concretamente quali sono questi diritti, lasciando alla legge positiva lo spazio per la loro manipolazione e negazione (nell’articolo sul diritto naturale ricordiamo i più eclatanti casi storici di violazione dei diritti umani che hanno avuto la copertura formale della legge).
Bisogna 'tollerare' che un medico dia la morte ad un malato, ritenendolo senza speranza? E i diritti del malato?
Bisogna 'tollerare' la poligamia? Che fine fanno i diritti della donna?
C'è, piuttosto, il problema dell'integrazione di culture diverse in una stessa società; e questo problema è risolvibile solo se - come vedremo -, pur in un ambito di pluralismo, vengono individuati i valori comuni e condivisi.
La questione dell'individuazione di valori comuni si lega alla questione se esista una verità (e non ci riferiamo principalmente alla Verità di Fede), e se questa sia conoscibile: sono quelli che i filosofi chiamerebbero "problema ontologico" e "problema gnoseologico". La conclusione negativa cui perviene il relativismo - che confonde i due piani - non è altro che l'esito finale di una lenta deriva di una parte significativa del pensiero moderno. Un percorso che ha condotto dapprima a negare l'esistenza delle verità filosofiche e morali, togliendo dignità alla metafisica (la disciplina che si occupa appunto dell'Essere e dell'uomo nella sua complessità); e poi, in alcuni casi, addirittura a negare la possibilità di qualsiasi conoscenza, anche scientifica...
Vale la pena tratteggiare le linee di questa evoluzione, anche perché alcune continuano ad avere influssi attuali.
Il percorso del pensiero moderno verso il relativismo.
Il relativismo non costituisce certo una novità: relativisti erano i sofisti (combattuti da Socrate), gli scettici ...
In età moderna, Bacone prima, Berkeley (seppure con successivi ripensamenti) poi, avevano decretato il primato della conoscenza materialista, misurabile, riducendo la razionalità a fisica e tecnica, ed indebolendo quindi la capacità della ragione di conoscere le realtà umane. Nell’empirismo inglese trova linfa il liberalismo utilitarista: esso individua nella soddisfazione delle preferenze personali l’unico criterio oggettivo per guidare i comportamenti umani, e nel "libero" accordo tra i consociati la maniera per realizzarlo. Più di recente il post-strutturalismo francese, il criticismo decostruzionista, il convenzionalismo, lo storicismo di Spengler, hanno affermato il primato sulla ragione di una libertà in termini assoluti, arrivando perfino a negare la possibilità di un discorso razionale (la ragione si ridurrebbe al linguaggio). Queste tendenze sconfinano in un libertinismo disinteressato alla costruzione della convivenza, nel radicalismo, nell'irrazionalismo, nell'anarchismo: la propria libertà si scontra con la realtà dell' "altro da sé", producendo conflitti sociali continui ed esasperati, o componendosi in "liberi accordi" in cui - senza la mediazione di un valore oggettivo - chi si impone è il più forte (il più ricco, il più potente, il più preparato). La ricerca di una libertà che non si riesce a realizzare pienamente, a causa dell'instabilità cronica del relativismo, ha portato paradossalmente molti liberalisti anche ad invocare uno Stato forte, capace di garantire la soddisfazione di piaceri quotidiani, in cambio della rinuncia a determinare gli indirizzi politici ed economici.
La capacità della ragione di conoscere le realtà umane - e rinvenire i valori della convivenza - veniva contemporaneamente indebolita anche da chi apparentemente la esaltava.
La cosiddetta “legge di Hume” separava l’essere (inteso limitativamente come aspetto esteriore delle cose, come insieme dei fenomeni scientificamente analizzabili) dal dover essere (fini, giudizî di valore, per i quali - non essendo possibile attingere alla "sostanza" dell'essere - non sarebbe possibile un’analisi razionale). La ragione veniva ridotta a scientismo e fisicismo, ritenuta utilizzabile solo nel campo delle scienze fisico-matematiche. Emergeva il criterio dell’avalutatività: gli atti non sono più giudicabili come buoni o cattivi, la scelta dei valori diviene indifferente (Weber, Kelsen), in definitiva affidata solo al decisionismo e all’arbitrio dei singoli o dei gruppi di potere. Le drammatiche conseguenze sociali di questo postulato (che poi le stesse scienze hanno dimostrato arbitrario) le abbiamo ben conosciute...
Molti tra coloro che volevano espressamente utilizzare la ragione anche per indagare le scienze umane, hanno finito ugualmente con l'indebolirla. Cartesio aveva considerato il pensiero individuale fondamento della realtà ("Cogito ergo sum"). Con Kant, il compito della ragione soggettiva diveniva quello di dare ordine ad una realtà incoerente. Non vi è più un dato "naturale" oggettivo, evidente in sé.
L'illuminismo segna un passaggio fondamentale nella diffusione di una visione soggettiva della ragione. Nel rigettare tutte le religioni rivelate, l'illuminismo le rimpiazza con una nuova religione mondiale della ragione. Il dogma fondamentale è che l’uomo deve andare oltre i pregiudizî ereditati dalla tradizione; deve avere il coraggio di liberarsi da ogni autorità al fine di pensare autonomamente, usando null’altro che la ragione per attingere alla verità. Ma l’idea dell’onnipotenza della ragione si scontra inesorabilmente con i dati di un sano realismo.
L’illuminismo razionalista, sviluppatosi nell’Europa continentale, ha realizzato alcune importanti conquiste nel campo dei diritti civili partendo da una legittima critica alle ingiustizie sociali di un’epoca, soprattutto all'insufficiente realizzazione del principio di uguaglianza. Ma il suo apporto è stato mitizzato: invero, non ha saputo individuare correttamente le cause di quelle ingiustizie, traendo conclusioni storiche e filosofiche arbitrarie. Infatti, se in precedenza diritti e valori naturali erano stati spesso deformati da incrostazioni culturali e privilegi di ceto, era giusto invocare un uso più attento – anche, ma non solo - della ragione, per individuarli in maniera più nitida. Ma è stato falso sostenere che le epoche precedenti (soprattutto il "Medioevo") fossero "oscure", e che in esse la ragione fosse stata negletta; è stato superficiale vedere nella religione una "superstizione" nemica della ragione e fonte di arretratezza; ed è stato pericoloso sostenere il venir meno di un riferimento comune a valori assoluti. Cosicché le ideologie “razionaliste” hanno poi prodotto degenerazioni peggiori di quelle denunciate; il vento del cambiamento ha spazzato ma non costruito.
L’illuminismo inizia col sacrificare la libertà alla ragione: in nome di una libertà "più ampia", vuole eliminare i presidî di libertà conosciuti, garantiti dai corpi sociali (come la famiglia): solo un rapporto diretto ed esclusivo dell'individuo con lo Stato garantirebbe i diritti dell'individuo stesso (o almeno quelli che lo Stato ritiene meritevoli di tutela...). Una volta individuati i nemici della ragione, le forze “oscurantiste”, si ritiene possibile sacrificare la libertà di questi soggetti per difendere la propria, ovvero per affermare una sorta di più grande libertà “collettiva”. Alla fine, l'unica libertà residua è nell’adeguarsi alla logica della storia.
Le contraddizioni dei lumi emergono anche se guardiamo con un po' di attenzione il profilo di uno dei suoi esponenti più celebrati, Voltaire: parlava molto bene di tolleranza e progresso, ma era ferocemente antisemita, fortemente razzista (equiparava i neri a scimmie), investiva nel commercio degli schiavi...
Gli ulteriori sviluppi del razionalismo illuminista conducono a ritenere che l’idea del bene e della realtà in sé è posta fuori dalla comprensione umana. L’unico punto di riferimento per ogni persona è ciò che può comprendere personalmente come buono o vero; ognuno produce la sua verità. Conseguentemente, la libertà non è più vista positivamente come una lotta per il bene che la ragione raggiunge con l’aiuto della comunità, della tradizione, della fede, ma è piuttosto definita come un’emancipazione dalle condizioni che impediscono ad ognuno di seguire la propria ragione. L’illuminismo, dunque, arriva ben presto a negare il potere della ragione di conoscere la verità oggettiva.
La ragione autoreferenziale, soggettiva, diviene ben presto strumentale agli interessi, si confonde col volontarismo, si traduce nel suo opposto, l'irrazionalismo, come preannunciò Nietzche, che gridò in maniera più dirompente: "niente più metafisica!". Questo soggettivismo invade anche il campo della scienza, di quelle conoscenze che sembravano restare le uniche certe: secondo il costruttivismo e lo strumentalismo lo scienziato non conosce la natura fisica, ma formula ipotesi deformate dal suo punto di vista, crea semplici strumenti utili per applicazioni. Questo percorso di trasformazione della ragione illuminista nella sua negazione è esemplarmente descritto da due celebri filosofi di scuola marxista, Adorno e Horckeimer, nel fondamentale Dialettica dell'illuminismo.
Quando il volontarismo della ragione soggettiva si manifesta come collettivo, e la ragione diviene "costruttivista", utopista, vuole plasmare il mondo a sua misura, distruggere tutto ciò che considera irrazionale, creare un “uomo nuovo”, allora abbiamo le pulsioni verso una società oppressiva ed uno Stato assolutistico. Un assolutismo che ha in sé anche una componente "relativista" (il relativismo non si sposa in alcun modo con la libertà), in quanto il volontarismo costruttivista non vuole imporre quell'idea di bene o di verità cui ha aderito intellettualmente; piuttosto, crea una mutevole verità dipendente da desideri e interessi.
Per averne conferma, basta leggere queste poche righe: “Noi che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per eccellenza”. L'autore? Benito Mussolini! (da "Nel solco delle grandi filosofie: relativismo e fascismo”, articolo pubblicato su Il Popolo d’Italia del 22 novembre 1921).
Il volontarismo può essere espressione anche di una ragione di tipo individualista, chiusa in sé stessa (la versione tornata oggi "di moda" in reazione ai totalitarismi), sposandosi col liberalismo utilitarista che abbiamo in precedenza descritto. Anche qui, l'ideologia di fondo è unica, sebbene sia utilizzato con maggiore frequenza - per definirla - il termine "relativismo". Non assistiamo, infatti, all'incontro di ideologie diverse, ma allo scontro di interessi diversi, all'interno di un sistema di composizione - l'utilitarismo, sovente accompagnato dallo scientismo - che ha una (sia pur dissimulata) pretesa di "verità", offre una gerarchia e ne regola l'esito; un sistema che si impone in chiave economicistica e pragmatistica, prima ancora che di assolutismo politico.
Il rifiuto dei valori nasce non solo da un'incapacità della ragione soggettiva di coglierli, ma anche da un più generale rifiuto di sé di una parte della moderna civiltà occidentale.
Ciò è in parte conseguenza del percorso che abbiamo appena descritto.
Per altra parte è dovuto al fallimento delle grandi utopie-illusioni (in particolare quella social-comunista), col carico di delusioni che ciò ha comportato.
Il fallimento dell'idea socialista non ha annullato completamente gli effetti e le scorie dell'imponente lavoro svolto nel secolo scorso dalla propaganda comunista, la quale aveva raccolto il testimone dell'illuminismo costruttivista. Essa per decenni è stata molto attiva (più di qualunque altra tendenza culturale), anche perché ben sovvenzionata, nella denigrazione della società occidentale (che doveva essere sostituita dall'utopia socialista di matrice sovietica).
Inoltre, uno degli input lanciati in quel periodo (e ancora ripresi dall'illuminismo, Rousseau in particolare), e penetrati più a fondo nella mentalità corrente, è che il bene (e il male) della persona non dipendono dalla sua responsabilità personale, bensì dal "sistema", dalle strutture sociali. Per cui l'individuo (naturalmente incline a non accontentarsi) si è assuefatto a proiettare le proprie frustrazioni sulla società e sui valori tradizionali: abbatterli avrebbe significato "liberarsi" (e invece significa far crollare l'edificio che consente la ricerca della felicità); non riuscire a "realizzarsi" comporta un rifiuto del "sistema".
Il rifiuto dei valori, alla fine, si associa all’odio per l’idea di qualità. La società occidentale (ma è una legge universale dello sviluppo) è cresciuta – nell’arte, nella scienza, nelle conquiste sociali – facendo leva sullo spirito d’iniziativa e la creatività della persona, o di gruppi di persone, e riconoscendone i meriti. Al premio del più meritevole (colui che – evangelicamente – ha meglio investito i proprî talenti) ha sempre fatto da contrappeso l’idea – ugualmente cristiana - di uguale dignità delle persone e di sostegno al più debole.
Nel tempo, lo sviluppo economico ha consentito di immaginare la possibilità di offrire garanzie sociali prima impensabili. Sennonché le garanzie offerte come opportunità, cui i singoli sono chiamati a rispondere con la loro iniziativa, sono state recepite come pretese, diritti assoluti. L'uguaglianza dei punti di partenza pretende di diventare uguaglianza dei punti di arrivo. Nessuna competizione o comparazione può esservi tra individui, perché ciò causa frustrazione in chi non riesce a raggiungere i risultati agognati; o in chi pretende di raggiungerli senza impegno (l’odio per la qualità è figlio dell’odio del sacrificio necessario a raggiungere una meta). Nessun valore può esser proposto all'osservanza dei cittadini. Valore esclusivo diventa l’ “autostima” dell’individuo, che dev’essere protetta da un sistema di garanzie sui risultati (e non solo sulle opportunità): debbo garantirti titolo di studio, lavoro, denaro, riconoscimento sociale, a prescindere dalle tue capacità e dal tuo impegno.
È una versione di volontarismo individualista, che però accampa diritti senza riconoscere doveri, richiede dallo Stato garanzie alla cui costruzione non si è disposti ad offrire alcun contributo.
Realismo, verità, libertà.
Abbiamo visto i guasti prodotti dalla linea di pensiero che, al problema dell'esistenza e conoscibilità della verità, dà una risposta negativa. È possibile dare una risposta positiva, risolvere i dubbi e le preoccupazioni posti dal relativismo senza giungere ad esiti distruttivi?
Alla ragione soggettiva dell'illuminismo si è storicamente contrapposta la visione di una ragione realista, ovvero della "sana ragione" (recta ratio), del lógos quale principio interpretativo dell'universo (visione su cui si sono incontrati civiltà greco-romana e civiltà cristiana, come ricordato da Papa Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona).
Si tratta di una ragione ancorata al principio di realtà, che non nega ciò che non riesce a misurare o spiegare, che non è chiusa alla dimensione spirituale dell'uomo: "l'ultimo passo della ragione è riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano" (Pascal). Una ragione non "costruttivista", ma "cognitivista" (non vuole creare la realtà, ma conoscerla).
La ragione realista riconosce che esistono valori, verità oggettive. Il concetto di "verità" identifica non un'idea astratta, ma proprio la corrispondenza tra conoscenza ed essere, realtà (adaequatio intellectus rei). La difficoltà a definire la verità evidenzia un limite della nostra capacità di conoscenza, ma non può condurre a negarne la stessa esistenza (altrimenti si confonde, come ricordavamo in precedenza, il piano ontologico con quello gnoseologico).
Nemmeno si può negare in radice la possibilità di attingere alla verità, di conoscerla, perché ciò comporta una contraddizione insanabile. Infatti, chi pretende che le cose non sono conoscibili per come sono, ma soltanto per come appaiono, per accorgersi della differenza tra le cose come sono e le cose come appaiono dovrebbe conoscere le cose come sono realmente, e non soltanto come gli appaiono...
Anche senza inoltrarci nel percorso logico-filosofico (che dovrebbe essere già abbastanza chiaro), possiamo constatare che l'esistenza della verità - nei diversi campi - emerge dalla nostra esperienza comune e dall'evidenza della ragione.
Ciò vale innanzitutto nel campo della verità dei fatti, degli eventi. Può essere difficile ricostruirli esattamente; ma la menzogna, la calunnia, sono sempre strumento per sottomettere, non per conoscere e liberare.
Abbiamo visto, inoltre, che la furia iconoclasta del relativismo è arrivata persino (mediante le teorie costruttiviste e strumentaliste) a mettere in dubbio l'esistenza di realtà oggettive nel campo delle scienze fisiche e naturali.
Ebbene, Popper, padre dell'epistemologia moderna, spiega che la scienza - nonostante abbia scoperto di non poter affermare certezze definitive - progredisce verso le verità della natura per approssimazioni sempre maggiori. Se non ho gli strumenti per definire esattamente forma e natura di una stella, non posso dedurne che... non esiste! Altrimenti si cade nel paradosso di un Don Ferrante ‑ il personaggio dei Promessi Sposi - che, non riuscendo a individuare la natura della peste, ne dedusse l’inesistenza, non prese precauzioni e, ovviamente, morì di pestilenza.
Per fare un esempio attinente alla nostra vita quotidiana: quando ci rechiamo da un medico, ci aspettiamo da lui una diagnosi "vera" (pur consapevoli dei limiti e dei continui progressi della scienza medica). Sappiamo che ci sono medici più bravi di altri. E se un medico sbaglia clamorosamente diagnosi, ci arrabbiamo molto, e non lo giustifichiamo pensando che "ha espresso un suo punto di vista condizionato dai suoi riferimenti culturali"...
Riconoscere la possibilità di una conoscenza "vera" o "oggettiva", perché aderente con una certa approssimazione alla realtà, non significa affermare l'esistenza di una conoscenza "completa" e "perfetta".
Una simile capacità di attingere alla verità dell'uomo con metodi razionali la ritroviamo nella metafisica e nelle scienze umane (anche se bisogna prestare attenzione ad indebite sovrapposizioni con le scienze naturali), in cui individuiamo le verità morali, che sono la componente costante, universale, naturale, dei valori. La "legge di Hume", ovvero la pretesa fisicista che esista un unico pensiero razionale - quello scientifico - capace di raggiungere conoscenze oggettive, è stata smentita dalla crisi del pensiero scientifico tradizionale, che ha condotto la scienza ad aprirsi - pur sempre con rigore: riproducibilità, falsificabilità, ecc. - ad una pluralità di metodi (fuzzy logic, teorie dei giochi e delle catastrofi, stocastica, ecc.), nonché a ricercare una sempre maggiore interdisciplinarietà. Senza entrare in dettagli, non possibili in questo contesto, ci limitiamo a ricordare che gli stessi epistemologi, come Lakatos, hanno chiesto di superare ogni preclusione contro la metafisica; che la sintonia tra conoscenza scientifica e altre forme di conoscenza è auspicata dagli stessi scienziati di tutto il mondo che il 7 marzo 1986 hanno redatto la celebre "Dichiarazione di Venezia".
Anche nell'ambito delle scienze umane, la difficoltà a definire una verità, l'elemento oggettivo di un valore, non significa negarla. L'individuazione di una verità, inoltre, non è principalmente determinata dal consenso, non può divenire puramente convenzionale, come accade per la regolamentazione degli interessi. Infatti, se gli interessi sono disponibili, così non è per le verità, che sono oggetto di conoscenza, non di contrattazione. Se ho difficoltà a definire i contorni dei diritti umani, non posso per questo calpestarli, o 'aggiustarli' secondo il mio comodo!
L’idea di verità, però, non esclude il dubbio, anzi lo richiede, quale strumento necessario per cercarla e riconoscerla, senza fermarsi a verità apparenti. Ma diverso dal dubbio è il rifiuto aprioristico.
Inoltre, l’idea di verità non preclude la libertà, anzi la rende possibile, perché nessuna scelta può essere davvero libera se non è consapevole: “la Verità vi farà liberi”.
L'uomo, posto di fronte ai suoi limiti, si trova continuamente di fronte all'esigenza di scegliere, dunque di rinunciare a qualcosa. Bisogna difendere la libertà umana di scegliere (sperabilmente per il meglio); ma è un inganno la libertà di non scegliere, cioè di veder soddisfatta ogni pretesa.
La moralità degli atti, inoltre, è definita dal rapporto tra libertà dell'uomo e il suo bene autentico. La libertà più profonda, infatti, non risiede semplicemente nello "scegliere tra questo e quello" in maniera superficiale. La libertà più profonda è nel determinare se stessi, la propria vita; ma perché ciò sia possibile, bisogna conoscere la verità della propria vita. La 'scelta' tra drogarmi e non drogarmi, ad esempio, si potrebbe definire una scelta di libertà solo se avessi ben chiare le cause (sociali, psicologiche) della mia azione, le sue conseguenze sulla mia vita futura, la possibilità reale di tornare indietro, ecc.
Il relativismo, negando alla ragione la capacità di conoscere la verità dell'uomo, ne annulla la libertà. “La distinzione tra sì e no, vero e falso, buono e cattivo ‑ ha scritto Walter Kasper ‑ non può essere accantonata a meno che l’uomo non voglia accantonare l’essere uomo”.
Un attacco alla libertà, piuttosto, viene dalla negazione della possibilità di evocare la verità, addirittura di attribuirle un nome, come pretenderebbe la nuova dittatura del linguaggio della "correttezza politica" ("political correctness"), che assegna natura "discriminatoria" ad ogni giudizio di valore (la società totalitaria predetta da Orwell, nel suo romanzo 1984, si caratterizzava innanzitutto per l’imposizione della “neolingua”: le idee divenute innominabili sono anche inconoscibili).
Verità e pluralismo sociale.
L’esistenza di valori comuni naturali, ordinati secondo una propria gerarchia, da scoprire pazientemente, è il dato che fonda la convivenza umana, è il punto di riferimento del dialogo tra idee diverse, la condizione stessa del pluralismo. Che cosa sono le idee, se non la personale visione della verità? I padri del pensiero liberale (John Stuart Mill) difendevano la libertà di pensiero e il confronto di opinioni proprio quali strumenti più efficaci per raggiungere la verità.
Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato il 5 ottobre 1995 di fronte all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ricordò che, anche nel dialogo tra popoli diversi, “dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro. Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana”.
La necessità di un punto di riferimento comune è ovviamente maggiore se, dal dialogo tra popoli diversi, passiamo a quello necessario a definire le regole della convivenza all'interno della stessa comunità.
È dunque falso sostenere che chi propugna l'idea di verità non sia aperto al pluralismo. Il pluralismo non deriva dall’inesistenza di valori universali, ma dal ruolo ineliminabile che riveste la libertà nella ricerca e nel riconoscimento di tali valori. Anche una società pluralistica si fonda su un patrimonio di linguaggio, di simboli, di valori comuni. E' proprio questo patrimonio che rende il pluralismo arricchente e includente, non conflittuale.
È altrettanto falso sostenere che chi crede in una verità sia 'inevitabilmente' portato ad imporla, minando le basi della democrazia (come propugnano i sostenitori del cosiddetto “pensiero debole”). Questo può accadere se si tratta di una 'verità' astratta, prodotta dalla ragione soggettiva (magari mascherata da relativismo), lontana dalla realtà della natura umana. La ragione realista, invece, non può imporre nessuna verità, ma solo proporla, perché è consapevole dei propri limiti, perché sa che parte ineliminabile della natura umana è la libera adesione ai principî ritenuti veri. (Sia detto per inciso: si può considerare "prevaricatore" il cristiano che propone come verità quella della croce, cioè del sacrificio e del perdono?)
Esiste, in questo senso, un "relativismo" positivo, quello che, pur riconoscendo e avendo come riferimento verità oggettive, ne conosce la mutevole realizzazione e percezione in una realtà imperfetta. Questo atteggiamento realista - e non ideologico - è necessario nell'ambito della politica, e fonda i sistemi liberal-democratici (contro l'ideologia dello Stato assoluto portatore di una verità totalitaria); un realismo che rifiuta di assolutizzare i problemi politici e di imporre soluzioni, perché sa che sono "relativi" al contesto storico e sociale.
Tale è soprattutto il pensiero autenticamente cristiano, allorché - contro ogni integralismo - si rifiuta di assolutizzare le realtà terrene, rammenta che il valore e l'autonomia della politica sono "relativi" - al fine intermedio di questa, il bene comune - e non assoluti: non possono pretendere di escludere (la tentazione dell'assolutismo politico) il fine ultimo, la salvezza.
La politica, dunque, vive la tensione tra la verità dei diritti naturali che deve riconoscere (e non imporre) e la "verità" delle scelte contingenti che deve perseguire in un dibattito libero, pluralista e mai definitivo.
Il relativismo che nega la verità (o ne fa un prodotto del volontarismo), al contrario, nel momento in cui ammette al dibattito civile e politico solo alcune visioni (quelle "politicamente corrette"), è il vero nemico del pluralismo sociale e culturale (così come, nella sua forma giuridica – il positivismo -, lo è del pluralismo politico e della democrazia). Il pluralismo sostiene che "tutte le idee sono libere, ma non tutte sono uguali", nel senso che tutte le idee possono essere liberamente espresse, anche quelle che ritengono di avere un fondamento migliore di altre (senza per questo volerle reprimere). Per il relativismo, invece, "tutte le idee sono uguali, ma non tutte sono libere" ovvero debbono essere represse quelle che negano l'equivalenza di ogni posizione. Ovviamente è una trappola logica, perché ogni idea ha implicitamente in sé la pretesa di essere migliore di un'altra; per cui si tratta solo di un pretesto con il quale alcune lobbies si arrogano il diritto di dare o negare il bollino di "democraticità", dissimulando i proprî interessi o le proprie ideologie con pretesa di verità (utilitarismo, scientismo). È in questo senso che l'allora cardinal Ratzinger, poco prima dell'elezione a Pontefice, poté parlare di "dittatura del relativismo".
In un'ottica pluralista, ad esempio, è possibile sostenere che i genitori hanno il diritto di scegliere l'educazione sessuale dei proprî figli - che nella generalità dei casi rispetterà un'inclinazione di tipo eterosessuale - e che le istituzioni non debbano ostacolare quel diritto. In un'ottica relativista si pretende che non è possibile sostenere l'inclinazione eterosessuale come preferibile a quella omosessuale (!), che un 'clima' di preferenza per l'eterosessualità lederebbe i diritti degli omosessuali (?), e che - in sostanza - si deve imporre a tutti un'educazione che presenti le due (o più...) tendenze come opzioni equivalenti (??), reprimendo le impostazioni educative differenti !
Il relativismo usa argomenti parzialmente diversi quando si pone il problema della convivenza tra culture diverse (ad esempio a causa dei flussi migratori) o del confronto tra civiltà, che vengono sempre più in contatto in un pianeta dove gli scambi culturali ed economici si fanno sempre più fitti, accrescendo le dimensioni dei problemi da risolvere (inquinamento, energia, povertà, guerre). In questi casi, spesso viene riconosciuta l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo); non ci si pone, però, il problema di comunità diverse che possono venire in contatto. Questo succede perché il relativismo confonde il pluralismo includente (in cui diverse culture convivono, si confrontano in un dialogo interculturale capace di individuare valori comuni, e continuano a svilupparli anche in direzioni nuove) col separatismo escludente, definito eufemisticamente "multiculturalismo": si lascia che si creino mondi e comunità limitrofe e non comunicanti, in una sorta di apartheid di fatto, che evoca a parole il "dialogo" e la "tolleranza" come soluzione ai problemi della convivenza, ma si ritrova in concreto incapace a risolverli.
Dall’incapacità - sin qui descritta - di trovare gli strumenti per individuare valori universali, deriva inevitabilmente l’incapacità di effettuare qualsiasi comparazione tra valori: essi vengono riconosciuti solo nominalmente, come elemento folkloristico, come placebo sociale, come compromesso utilitaristico.
Mettere a fuoco il rapporto tra valori e civiltà che li esprimono può avere però un'utilità nel comprendere - e rimuovere - alcune cause del relativismo.
Il rifiuto di sé della società occidentale, che abbiamo in precedenza descritto, ha prodotto un rifiuto indiscriminato di valori, e magari indotto a cercare altrove "sistemi" di valori più seducenti, magari perché meno responsabilizzanti (vedi le mode orientaleggianti), esaltandone esageratamente i pregi e sminuendone superficialmente i difetti. E alla fine ci si accorge che forse quelle culture sono meno capaci di offrire risposte alla complessità delle esigenze dell'uomo moderno. L’indifferentismo, il rifiuto della comparazione tra valori, il separatismo, nascono anche dal rifiuto dell’idea di qualità in precedenza descritto. La tentazione di eludere la ricerca della qualità, con l’impegno e la responsabilità che comporta; la ricerca di garanzie dei risultati (e non solo delle opportunità): sono eredità del fallimento del socialismo, che possono in parte trovare sfogo e rifugio in un gruppo di appartenenza. Un gruppo che costituisca una minoranza (etnica, religiosa, linguistica, culturale, sessuale) ben organizzata, può rivendicare garanzie e privilegi, rifiutare responsabilità verso il bene comune, lamentando come “discriminazione”, intolleranza verso i proprî valori, ogni tentativo di cercare il dialogo sui valori comuni.
È un meccanismo di autoaffermazione che nasce all'interno della nostra cultura (un gruppo di giovani può pretendere di “sfogare la propria creatività” col vandalismo, una coppia gay può richiedere l'adozione di figli come se fosse una famiglia, ecc.), ma che può essere ripreso e ingigantito da comunità che hanno un'identità ben più forte e "tradizioni" ben più contrastanti con la nostra: una comunità islamica può pretendere di mutilare le donne, una comunità cinese di tener segregati come schiavi-lavoratori i bambini, ecc.
Sui valori che esprimono il sentimento comune, non organizzati in gruppi di pressione, si impongono gli interessi particolari e disgreganti promossi da lobbies culturali attive e militanti. Interessi i cui costi sociali ed economici sono scaricati sulla collettività, almeno finché il tessuto sociale (che proprio queste lobbies cercano di disgregare) lo consente.
Insomma, la parola d’ordine del separatismo e dell'indifferentismo resta quella del “pluralismo”. Ma nasconde un’azione contraria al pluralismo includente che abbiamo descritto in precedenza, il quale ha piuttosto bisogno di valori universali, fondati anche sul diritto di natura, capaci di riconoscere e apprezzare la qualità. E per sostenere questa ipocrisia, questa contraddizione tra appello al pluralismo e suo rifiuto sostanziale, si rende quanto mai necessaria la dittatura del linguaggio e dei comportamenti imposta dalla “correttezza politica” (nata, non a caso, negli Stati Uniti, dove la convivenza tra etnie e culture è un tratto caratteristico).
A sigillo del discorso possiamo accogliere - almeno per questo - una massima di Bertrand Russell: "Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore".
Come individuare i valori comuni.
Assunto che è possibile attingere alla verità dei valori, che questa non danneggia - ma anzi garantisce - libertà e pluralismo, come procedere concretamente per individuare i valori comuni? Non è sempre facile, anche perché non esiste un catalogo di valori immutabile.
Serve innanzitutto un metodo.
Sul piano socio-culturale - quello che stiamo prendendo in particolare considerazione in questa esposizione - il metodo più invocato è il dialogo razionale. Ma è sufficiente? La realtà ci offre tanti esempi di dialoghi "tra sordi"... Allora può capitare che si arrivi a conclusioni affrettate ("il dialogo non trova i valori comuni perché questi non esistono, non servono, basta la tolleranza"), e si cerchino scorciatoie per far convivere pacificamente idee diverse od opposte, magari invocando il principio di maggioranza. Ma abbiamo ricordato innanzi che la verità preesiste alla nostra conoscenza, non si determina mettendola ai voti. E, inoltre, applicare il principio di maggioranza significa effettuare un indebito spostamento della mediazione dal piano culturale a quello politico-giuridico. Questo spostamento di piano in molti casi è normale che avvenga; ma senza saltare il fondamentale passaggio intermedio, l'individuazione del valore su cui fondare la norma, valore che ne garantisce l'efficacia ed il consenso più largo possibile. Altrimenti, siamo sicuri che sia facile accettare decisioni che - sia pure fornite di sanzione legale - si sentono come profondamente ingiuste?
Allora, oltre che un metodo, per individuare i valori serve trovare agli stessi un fondamento, qualcosa che attinga alla componente naturale dei valori, e che ci faccia sentire la comune appartenenza alla società in cui viviamo.
Il primo tra i valori, che è fondamento costante di tutti gli altri (come spieghiamo nell'articolo Quali valori?), è l’eminente dignità dell’individuo. Tale dignità esige il rispetto e la promozione di tutto l’uomo ‑ nelle sue componenti materiale, morale, spirituale ‑ e di tutti gli uomini. Solo su queste basi comuni - perché comune è la natura umana - può esservi un dialogo costruttivo.
Il riconoscimento di un fondamento, dunque, muta anche la natura del dialogo, che rinuncia ad essere solo mera comunicazione dei proprî istinti e desiderî. Piuttosto, diviene strumento di ricerca, esercizio concreto (e non verboso) della razionalità, sforzo sincero di elaborare - o rinvenire nella natura e in una tradizione - valori comuni più precisi, razionalmente condivisibili, adeguati ai diversi contesti sociali e storici, ordinati secondo una gerarchia armonica ed equilibrata. Un fondamento solido rende il dialogo capace di perseguire - nella libertà - la verità propria di ogni realtà umana. Il consenso non "produce" il valore, ma sa anche "riconoscerlo". Ricercare la verità, sul piano socio-culturale, significa anche saper ricercare la qualità, il bello: come le opere classiche, che sanno divenire punto di riferimento (e di dibattito) universale per le culture.
Come abbiamo ricordato in precedenza, anche la realtà politica, il piano politico-giuridico, ha le sue leggi di funzionamento e i suoi valori. Ha un metodo per individuarli e un fondamento formale, il diritto naturale. Di questi aspetti ci occupiamo nell’articolo sull'attualità del diritto naturale, in cui approfondiamo altresì il concetto di natura umana, i diritti fondamentali della persona, le gravi conseguenze che si corrono quando il relativismo trasferisce le sue istanze dal piano culturale e sociale a quello civile-politico, col positivismo giuridico.
Nel nostro articolo Quali "valori"?, inoltre, cercando di applicare il metodo e il fondamento qui proposti, abbiamo tratteggiato una cultura dei valori (in particolare sociali e politici), in grado di offrire le risposte migliori ai bisogni della società di oggi. Abbiamo cercato di capire quali siano - concretamente - i "valori" da più parti invocati.
Valori comuni e fede.
Abbiamo sin qui cercato il fondamento dei valori comuni in un metodo - la ragione - e in un fondamento - la natura umana - che sono patrimonio di tutti gli uomini. I valori comuni, pertanto, che non si identificano con la Verità di Fede, possono emergere non solo come oggettivamente validi, ma anche come condivisibili da tutti, credenti e non credenti.
Ciò non significa che la fede religiosa non possa avere un ruolo nel dibattito pubblico e nella scoperta dei valori. Una corretta visione della laicità ci insegna che l'apertura al piano soprannaturale fonda la dignità della persona, sostiene la ragione nell'individuazione dei valori, impedisce che la società politica trovi in se stessa l'unico fondamento (esponendosi al rischio del totalitarismo).
Non sempre la ragione ha trovato in sé le risorse per guardare al bene dell’uomo. I limiti dell'illuminismo (enfasi sulla ragione soggettiva) sono dovuti principalmente, pensiamo, al suo essersi posto come "secolarismo", cioè come tentativo di estromissione del sacro dall'orizzonte dell'uomo moderno.
Sul tema specifico del rapporto tra conoscenza e verità, e dei rischi del relativismo, un insostituibile contributo è stato fornito da un'enciclica come la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Queste constatazioni devono indurre ad un nuovo dialogo, tra credenti e non credenti, che sia razionale ma non escluda l’orizzonte religioso; un dialogo, come ha detto Papa Benedetto XVI (capovolgendo la formula di Grozio), “veluti si Deus daretur”: “come se Dio esistesse”.
(Il nucleo di quest’articolo - ora completamente riveduto ed ampliato - è stato parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 27-29 giugno 1997)
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/308/45/ (prelevato il 17 dicembre 2008)