Il diritto naturale fondamento dei valori che rendono la democrazia salda e rispettosa di tutti
di Giovanni Martino
di Giovanni Martino
Nell’articolo sul pluralismo e valori comuni evidenziamo che è impossibile immaginare una società priva di valori condivisi (intendendo per valori i criterî di scelta, l'espressione del ‘dover essere’ di una realtà naturale: scuola, lavoro, scienza, arte, ecc.) La necessità di valori comuni vale sia nel piano socio-culturale (come esponiamo sempre in quell'articolo), sia nel piano politico-giuridico, su cui focalizziamo qui la nostra attenzione.
Nelle scelte politiche, nelle norme giuridiche, non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”; ogni scelta esprime anche un criterio "valutativo": un princìpio, una convinzione politica o una scala di valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei "valori" comuni è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico.
Non è certo facile individuare i valori di riferimento per il piano politico-giuridico. Va considerato che spesso il piano politico recepisce questi valori da quello sociale, dal dibattito culturale che in esso si sviluppa. Bisogna però aggiungere che il piano politico ha caratteristiche proprie (è il piano delle regole giuridiche, dotate della particolare forza coattiva che ad esse assegna l'ordinamento), ed ha dunque metodo e fondamento proprî, su cui è opportuno indagare.
Per individuare i valori da porre alla base delle norme giuridiche, il metodo che si è affermato è quello democratico, basato sul principio di maggioranza. Questo metodo è ritenuto più che sufficiente, per valutare le leggi, dalla dottrina del positivismo giuridico. Essa si fonda, per l’appunto, sul diritto "positivo", cioè quello legittimamente posto dall’autorità statale: la legge sarebbe valida e giusta semplicemente perché emanata nel rispetto delle procedure formali. In democrazia, secondo le regole volute dalla maggioranza. Il contenuto, i valori espressi, sarebbero irrilevanti; così come il consenso verso la norma, il senso di appartenenza civile: conta solo l'obbedienza. A ben vedere, dunque, nell'ottica positivista una legge formalmente corretta è sempre "valida e giusta", quand'anche emanata in un regime non democratico...
La storia si è incaricata di smentire tragicamente la convinzione che il rispetto delle forme o della maggioranza sia sufficiente ad assicurare il rispetto dell'uomo.
Allora, oltre che un metodo, serve un fondamento.
La ricerca di un tale fondamento ai valori e alle leggi conduce inevitabilmente a guardare sia alla legge naturale (intesa come insieme di princìpî e valori oggettivi) sia – soprattutto - al diritto naturale (inteso come insieme di norme giuridiche vincolanti che regolano la vita sociale, nonché come sistema per la produzione delle norme stesse). Il diritto naturale è indipendente - e preesistente - rispetto alle leggi di ciascuno Stato, perché conforme alla natura umana e comune a tutta l'umanità. E' un diritto che, ovviamente, non si sostituisce al consenso democratico; però legittima la democrazia, e le dà anche un'anima per evitarne le degenerazioni.
Vedremo che la tradizione del diritto naturale non si limita a fornire un fondamento all'ordinamento giuridico, ma offre un metodo complementare a quello democratico, contro l’assolutizzazione che ne fa la dottrina del positivismo giuridico.
Il diritto naturale ancoraggio per i diritti umani fondamentali.
La necessità di riconoscere una verità dei rapporti sociali e giuridici, e di ancorarla in particolare al diritto naturale, emerge in maniera più evidente nel momento in cui si tratta di trovare una legittimazione per i diritti umani fondamentali, affinché siano sottratti all’arbìtrio o alla prevaricazione, anche quando questi siano rivestiti delle forme della legalità o siano espressione della volontà di una maggioranza.
Poiché spesso ricorda alle maggioranze popolari ed ai politici in carica che il loro potere è limitato, la teoria del diritto naturale è controversa e spesso malaccetta.
Il Professor Anton-Herman Chroust, della Notre Dame Law School, era solito dire agli studenti: “Gli accademici ripetono sovente che la legge naturale va eliminata, ma ogni 25 anni circa rientra dalla porta di servizio quando alcune crisi mostrano il fallimento del positivismo utilitaristico”.
Alcuni clamorosi revivals del diritto naturale si sono avuti nel secolo appena trascorso: 1) in reazione agli orrori nazisti; 2) in reazione alla segregazione razziale negli Stati Uniti; 3) in reazione ai crimini dei regimi comunisti; 4) in reazione ai crimini etnici nell'ex Jugoslavia e in Rwanda.
1) Durante il periodo del nazionalsocialismo in Germania tutti i ricorsi ad una resistenza attiva e passiva contro il regime erano necessariamente fondati sul diritto naturale, poiché il positivismo giuridico come tale non offriva alcun sostegno: le leggi erano emanate secondo il rispetto delle regole istituzionali, senza contare che il nazismo aveva raggiunto il potere democraticamente.
Dopo la guerra, il processo di Norimberga elaborò il concetto di "crimini contro l'umanità", ovvero contro il diritto naturale. Tale concetto è tutt'ora utilizzato dall'ordinamento dell'ONU. Anche le corti della Repubblica Federale Tedesca chiamate a giudicare i crimini nazisti rifiutarono di appiattirsi sulla giurisprudenza positivista. Riconobbero “la necessità per il legislatore di standards universali più alti, di principî validi oggettivamente” e si appoggiarono al diritto naturale per punire azioni che erano legali sotto il regime nazista. “L’atto legislativo positivistico ‑ dichiarò una corte ‑ è limitato intrinsecamente. Perde ogni potere di obbligatorietà se viola i principî generalmente riconosciuti di diritto internazionale e di diritto naturale, o se la contraddizione tra la legge positiva e la giustizia raggiunge un grado così intollerabile che la legge deve cedere il passo alla giustizia”. Nel rigettare la difesa dei medici accusati di aver ucciso prigionieri in esperimenti scientifici autorizzati dalla legge del Terzo Reich, un’altra corte concludeva che “la legge deve essere definita come un’ordinanza o un precetto indirizzato al servizio della giustizia. Quando il conflitto fra una legge promulgata e la giustizia vera raggiunge proporzioni non tollerabili, la legge promulgata deve cedere alla giustizia, e va considerata una ‘legge illegale’. L’accusato non può giustificare la sua condotta appellandosi ad una legge esistente se questa legge si scontra con certi princìpî evidenti per sé di diritto naturale.”
2) Il caso di Rosa Parks – la donna di colore che si rifiutò di cedere il posto sull’autobus nella città di Montgomery, in Alabama (Stati Uniti), il 1 dicembre 1955 – segnò simbolicamente l’inizio della lotta per i diritti civili dei neri americani. Eppure una legge allora vigente nell’Alabama faceva obbligo alle persone di colore di cedere il posto sui mezzi pubblici. Solo una lettura appropriata del diritto naturale era di supporto alle rimostranze di Rosa Parks.
3) La caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo ha consentito, sul finire del XX secolo, di giudicare alcuni dei crimini commessi al loro interno. Ingo Heinrich ed Andreas Kuhnpast sono due guardie di confine della ex Germania dell’Est, che furono condannate per omicidio da un tribunale tedesco nel 1992 per aver ucciso un profugo nell’atto di attraversare il Muro di Berlino. Il tribunale rifiutò la difesa che alle guardie era stato ordinato di “sparare per uccidere” i profughi. “Non tutto ciò che è legale è giusto”, dichiarò il giudice Theodor Seidel; “alla fine del XX secolo, nessuno ha il diritto di ‘spegnere’ la propria coscienza quando si tratta di uccidere su ordine delle autorità”.
4) Gli anni '90 sono stati straziati da due grandi conflitti tra etnie interne allo stesso Stato: serbi-ortodossi e musulmani in Bosnia (repubblica dell'ex Jugoslavia), tutsi e hutu in Rwanda. In quei conflitti è tornato di attualità il crimine di genocidio, dal quale l'umanità pensava di essersi 'vaccinata'. Sono apparse nuove assurde forme di violazione dei diritti umani, come lo "stupro etnico". Anche in conseguenza di questi crimini è stato finalmente sottoscritto, nel 1999, lo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale, diventata operativa nel 2002. La Corte giudica dei "crimini contro l'umanità" (che abbiamo ricordato poc'anzi) commessi anche all'interno degli Stati da organi sovrani degli Stati stessi: per cui il diritto della Corte prevale sul diritto positivo degli Stati nazionali. L'art.21 dello Statuto dichiara che "l'applicazione e l'interpretazione del diritto (...) devono essere compatibili con i diritti dell'uomo internazionalmente riconosciuti".
L'istituzione della Corte cerca di rilanciare i valori espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, approvata nel secondo dopoguerra dalle Nazioni Unite. La quale, però, ha sempre avuto una duplice debolezza: nel valore formale (mera raccomandazione, ratificata sin'ora con valore vincolante solo da una cinquantina di Stati); e nel contenuto, debolezza dovuta all'ambiguità di non aver utilizzato l'espressione "diritti naturali" (ambiguità conservata dallo Statuto della Corte Penale Internazionale). Ciò lascia uno spiraglio alla tentazione di sostituire ai diritti positivi nazionali un nuovo diritto positivo sovranazionale, capace di modificare i diritti umani).
Nonostante questi drammatici - e recenti - esempi storici, il tentativo di disancorare i diritti umani dal diritto naturale è sempre latente.
"Se non c'è più un diritto naturale inalienabile che garantisca l'eguaglianza degli esseri umani (per esempio per quanto riguarda il diritto alla vita e alla libertà personale), tutto diventa contrattabile e relativo. Rafael Salas, ex direttore dell'UNFPA (il Fondo dell'ONU per la Popolazione), ha sostenuto che le spaventose violazioni dei diritti umani attuate in Cina durante gli anni della politica del figlio unico non erano tali per i cinesi. Aborti forzati, abbandono e uccisione dei neonati, secondo Salas, erano metodi che 'per le loro norme culturali non erano affatto coercitivi'. Questo è relativismo etico: ma è chiaro che si tratta di una concezione che porta alla distruzione dell'idea stessa dei diritti umani" (Eugenia Roccella, Lucetta Scaraffia, Contro il cristianesimo. L'ONU e l'Unione Europea come nuova ideologia).
Ma la legge naturale non esprime solo i diritti fondamentali e inalienabili della persona, sempre validi e immediatamente "azionabili", dei quali ci è più evidente l'importanza. La legge naturale esprime anche i valori che consentono la civile convivenza, che fondano il sentimento di giustizia e che devono tradursi nelle leggi concrete. Il diritto naturale è anche quel ius condendum (il diritto “che deve essere costruito”) cui deve tendere il ius conditum (il diritto vigente); un cammino difficile, rifiutato dal positivismo giuridico.
L’illuminismo e la ragione soggettiva
La strada che porta al positivismo giuridico è stata aperta da una certa linea di tendenza del pensiero filosofico moderno, quella che abbiamo sommariamente tratteggiato proprio nell’articolo sul relativismo. È la linea che vede l’affermarsi della ragione soggettiva, la quale deve dare ordine ad una realtà incoerente, non riconoscendo più un dato "naturale" oggettivo, evidente in sé. Un contributo fondamentale venne dal razionalismo illuminista, il quale, proteso nella furia iconoclasta di distruggere tutto ciò che apparisse retaggio della tradizione, finì con l’assegnare alla “libera” ragione il compito di produrre la propria verità: l’illuminismo arriva ben presto a negare il potere della ragione di conoscere una verità oggettiva.
All'abbandono della legge naturale (intesa come insieme di princìpî e valori oggettivi) è seguito ovviamente l'abbandono del diritto naturale (inteso come sistema di norme), che è stato privato della connotazione di giuridicità: vero diritto sarebbe solo quello positivo.
L'illuminismo, in verità, non rigettò da subito l'idea del diritto naturale. Nel Settecento, anzi, si limitò a sancire il passaggio dal giusnaturalismo scolastico (quello che affondava le sue radici in Aristotele, Cicerone, San Tommaso d’Aquino) al giusnaturalismo razionalista, che già andava diffondendosi, secondo il quale la ragione doveva disvelare la razionalità intrinseca della natura.
Il giusnaturalismo scolastico riteneva che la ragione dovesse scoprire le regole calate nella natura dal suo Creatore, e ad esse attenersi. Uno dei padri del pensiero liberale moderno, Locke, sviluppando le tradizionali tesi giusnaturalistiche, sosteneva che anche il patto sociale tra gli uomini incontra vincoli da rispettare; vincoli che la ragione può autonomamente scoprire, ma che meglio sono illuminati dalla legge divina.
Nel giusnaturalismo razionalista, invece, Grozio sosteneva necessario fondare un diritto che resti valido "etsi Deus non daretur", "quand'anche Dio non esistesse". Hobbes riteneva che l'unica legge di natura sia la necessità di stipulare un patto sociale ed attenersi ad esso. Queste tesi saranno riprese e consolidate dagli illuministi, i quali rinchiudono il diritto naturale nella positivizzazione che ne può compiere lo Stato: abbiamo così un giusnaturalismo statualistico, che mitizza le codificazioni. Il concetto di diritto naturale serve ormai solo per legittimare le invocate trasformazioni sociali, legate a visioni ideologiche, utopiche e antistoriche (lo "stato di natura" di Rousseau).
I princìpî naturali, insomma, non sono scoperti dalla ragione oggettiva, ma prodotti dalla ragione soggettiva, disancorata da un principio di realtà. Tale ragione finisce per abbandonare il giusnaturalismo e approdare al positivismo giuridico statualista, che costituisce dunque la vera eredità dell'illuminismo (anche a causa dell'enfasi sullo Stato etico posta dall'idealismo hegeliano).
Positivismo giuridico o giusnaturalismo?
Mentre Aristotele o San Tommaso d’Aquino affermavano che l’uomo è sociale per natura, il razionalismo postula un mitico “stato di natura” popolato da individui autonomi, non sociali ma sociabili. Questi individui decidono liberamente di costruire lo Stato attraverso un contratto sociale. Lo scopo, secondo Hobbes, era quello di conseguire una maggiore sicurezza; per Rousseau è la realizzazione della “volontà generale”. L’origine della comunità politica non è quindi riposta nella natura stessa, ma nel contratto sociale, e ‑ ciò che più conta - i diritti non provengono dalla natura, ma dalla maggioranza degli uomini, attraverso lo Stato (che diviene l’unica forma riconosciuta di comunità politica).
“La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo alla fine del XVIII secolo ‑ scrive Hannah Arendt - rappresenta un punto di svolta nella storia. Significa, né più né meno, che da allora la fonte della legge e dei diritti è la volontà dell’uomo e non la natura, né la tradizione.”
Nella tradizione di diritto naturale si prende atto del conflitto spesso esistente tra leggi statali e princìpî di giustizia: sono i dilemmi posti da Socrate nell'Eutifrone; è il dramma umano, religioso, culturale e sociale dell'Antigone di Sofocle; è il delicato rapporto tra legge di Cesare e legge di Dio regolato da Cristo.
Il positivismo, invece, nega ogni distinzione, affermando il primato del diritto positivo.
Per il giusnaturalismo la legge necessita della volontà del legislatore, che la ordina e la promulga; ma l’essenza della legge è la ragione, la ratio.
Nel giuspositivismo di derivazione illuministica, invece, la ragione ‑ apparentemente esaltata - ha un ruolo meramente strumentale: il primato della ragione soggettiva fa sì che la legge sia essenzialmente un esercizio della volontà, alla fine asservita agli interessi personali o alle ideologie.
Positivismo giuridico come volontarismo
Il positivismo giuridico statualista è espressione di un volontarismo che oscilla come un pendolo.
Se il volontarismo della ragione soggettiva è individualista, le regole imposte dallo Stato sono ridotte al minimo. Possiamo parlare di positivismo "statualista", perché il concetto di "giustizia" è confinato nelle residue norme statuali. Non è più garantita la libertà di tutti, ma solo dei più forti: sono distrutte le fondamenta stesse della libertà. Se la società appare meramente come un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, il contratto che li unisce sarà necessariamente da ritenersi come un accordo fra coloro i quali, avendo un maggiore ‘potere contrattuale’ (soldi, appartenenza ad una lobby ben organizzata), hanno il potere di imporre la loro volontà sugli altri. Si afferma un relativismo individualista e utilitarista.
Per evitare tale degenerazione (ma anche per rispondere alle esigenze del volontarismo costruttivista, utopista), i teorici del contratto sociale elaborarono il “dispotismo illuminato”, che divenne ben presto uno Stato tirannico (e, nel ventesimo secolo, totalitario: nazismo e comunismo), il quale estende indefinitivamente la propria sfera d'azione e impone con le leggi valori proprî (elaborati dalla burocrazia dominante). È uno Stato che dispone della vita dei nemici politici o dei suoi membri più deboli, da un bambino non nato ad un anziano, in nome del pubblico interesse (che in realtà è solo l’interesse di pochi). Questo accade anche quando tale interesse sia determinato da una maggioranza, cui è riconosciuto un potere prevaricatorio (la “dittatura della maggioranza” prevista da Tocqueville). Un'ideologia che è volontarista, perché esprime e impone una presunta "volontà generale"; un'ideologia che è relativista, nella misura in cui non si ispira a un bene oggettivo, ma a un interesse di parte, mutevole nel tempo, che vuole imporre come interesse generale.
La reazione agli eccessi del costruttivismo intollerante spinge il pendolo di nuovo verso l'individualismo, in un'oscillazione incapace di trovare un suo equilibrio, ma sempre interna al positivismo statualista e la volontarismo.
Una prospettiva più equilibrata è stata quella dell’empirismo di matrice anglosassone, che ha saputo evitare le tentazioni totalitarie cui ha ceduto l'Europa continentale. L'empirismo, a dire il vero, privilegiava al diritto naturale la consuetudine, e non aveva grande fiducia nelle capacità della ragione di attingere alla verità. Però aveva conservato un equilibrio maggiore rispetto al percorso filosofico continentale, almeno finché è restato attento alla complessità della natura umana e al legame con usi e costumi consolidati.
Oggi quel legame si indebolisce, col diffondersi delle istanze utilitariste e per l'azione di un'élite politico-giudiziaria che impone come nuove consuetudini le proprie visioni ideologiche (anche con lo strumento dei precedenti giudiziarî che, nel sistema del common law, hanno forza vincolante); per cui emergono il libertinismo, il relativismo, il positivismo che abbiamo incontrato nel volontarismo individualista.
Il primato della ragione soggettiva, e quindi della volontà, introduce nel diritto - tramite il positivismo - una prospettiva utilitaristica, espressione dell'utilitarsimo sociale ed economico.
La deriva del positivismo giuridico
Per il diritto naturale tutti gli esseri umani, in quanto tali, sono titolari dei diritti personali. Nella nostra Carta costituzionale, ad esempio, i diritti non promanano dallo Stato; al contrario, "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo": "riconosce" ciò che è preesistente.
Nella giurisprudenza positivistica, questa corrispondenza naturale e necessaria fra umanità e personalità è rigettata. Gli esseri umani che, per esempio, sono di colore, o non nati, o malati, possono essere privati dei diritti a seconda della volontà del legislatore, che può definirli non-persone (la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Dred Scott vs. Sanford del 1856, aveva stabilito che la proclamazione del principio di uguaglianza contenuta nella Dichiarazione di indipendenza non si poteva applicare ai neri, i quali erano considerati come una mera proprietà).
In un celebre e più recente (1990) caso, Cruzan vs. Director, il giudice John Paul Stevens argomentò che “per pazienti come Nancy Cruzan (una ragazza del Missouri insensibile ad ogni impulso esterno, cui fu infine rimosso il tubo di alimentazione, ndr), che non hanno la minima coscienza e alcuna possibilità di guarigione, vi è da domandarsi seriamente se la mera persistenza dei proprî corpi è ‘vita’ secondo l’accezione comune, secondo l’accezione data dalla Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza”. Parole tragicamente tornate d'attualità con Terri Schindler Schiavo, che pure dava qualche risposta agli stimoli esterni, avendo peraltro genitori disposti ad accudirla: anche a lei è stata imposta dai giudici - questa volta in Florida - la morte per fame.
Il positivismo giuridico di derivazione illuministica non dà spazio ai corpi intermedî, come la famiglia ed i gruppi sociali, posti tra l’individuo e lo Stato; oscilla tra i due estremi, individualismo liberista o collettivismo totalitario, in ogni caso fedeli al dogma dell’esclusiva statualità del diritto, per cui il positivismo è stato anche definito dottrina dell'assolutismo giuridico. La teoria che ne costituisce la massima espressione è il razionalismo ‘normativista’ (o "teoria pura" del diritto: Hans Kelsen ne è stato il maggiore teorico). In questa prospettiva, anche la democrazia non è la dimensione necessaria della statualità del diritto, ma solo una delle forme in cui questa si può manifestare.
In difesa del positivismo giuridico è stato sottolineato che ha dato un importante contributo all'elaborazione scientifica del diritto, cercando di separare il diritto come scienza dal dibattito politico e ideologico; per cui il positivismo non potrebbe essere accusato di aver sostenuto norme 'ingiuste', perché si tratta di giudizi di valore estranei alla sua prospettiva.
Non vogliamo disconoscere i contributi scientifici del positivismo giuridico, anche se oggetto della nostra analisi non è la definizione della migliore teoria generale del diritto, bensì l'individuazione dei valori che costituiscono il contenuto delle norme e che quindi regolano la vita sociale; e va anche ricordato che gli apporti ad una definizione 'scientifica' del diritto non sono solo quelli del positivismo giuridico, ma anche di altre dottrine che hanno evidenziato l'inevitabile legame del diritto con i fenomeni sociali.
In ogni caso, la distinzione tra un positivismo "scientifico" ('buono') e un positivismo "ideologico" ('cattivo', basato sul primato assoluto dello Stato) ci sembra una distinzione debole. Il positivismo giuridico ha influenzato fortemente proprio il dibattito politico-culturale degli ultimi due secoli, venendo invocato per sostenere scelte di valore. Il positivismo "scientifico", quando ad esempio ha cercato di sminuire il dibattito sulla giustizia - riducendolo a quello sulla 'scientificità' della norma -, ha finito col confondersi con quello "ideologico". Del resto, i concetti di "norma fondamentale" o di "statualità" della norma non sono altro che postulati ideologici ammantati di scientificità. Non a caso Kelsen, riesaminando il processo a Cristo riportato nei Vangeli, pensava che il comportamento di Ponzio Pilato fosse stato rispettoso delle procedure, e quindi inappuntabile (anche se aveva consentito che venisse messa morte una persona che lui stesso reputava innocente)! Il positivismo "scientifico" non può 'lavarsi le mani' dicendo che spetta alla politica determinare i contenuti della norma. Se la norma viola i diritti fondamentali dell'uomo o di una minoranza, servono garanzie di tipo giuridico, fondate sul diritto naturale.
In difesa del positivismo giuridico è stato anche ricordato che - storicamente - è nato per promuovere la certezza del diritto contro arbìtrî e privilegi; ma si è trattato, per l'appunto, di aspetti dettati dalla contingenza storica. La natura profonda del positivismo (la statualità) si è adattata, in altre contingenze storiche, a giustificare altri arbìtrî e altre ingiustizie.
Del resto, non è stato il giuspositivismo a creare le basi dello Stato liberale e di diritto, ma proprio il giusnaturalismo. Lasciamo la parola ad uno studioso "insospettabile" (proprio perché di scuola giuspositivista) come Norberto Bobbio:
“Il presupposto filosofico dello Stato liberale, inteso come Stato limitato in contrapposizione allo Stato assoluto, è la dottrina dei diritti dell'uomo elaborata dalla scuola del diritto naturale (o giusnaturalismo): la dottrina secondo cui l'uomo, tutti gli uomini indiscriminatamente, hanno per natura, e quindi indipendentemente dalla loro stessa volontà, tanto più dalla volontà di pochi o di uno solo, alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, alla felicità, che lo Stato, o più concretamente coloro che in un determinato momento storico detengono il potere legittimo di esercitare la forza per ottenere l'ubbidienza ai loro comandi, debbono rispettare - non invadendoli - e garantire nei riguardi di ogni possibile invasione da parte degli altri”.
La tradizione del diritto naturale - a differenza del giuspositivsmo - include il principio di sussidiarietà, che sottolinea il ruolo dei gruppi intermedî e conduce al principio della pluralità degli ordinamenti (ogni comunità naturale produce diritto). A questo stesso principio, per altra via ‑ quella di un’attenta analisi storica e sociologica ‑, giungono le correnti giurisprudenziali più avvedute, che si rifanno alle teorie c.d. ‘istituzionali’ (elaborate da Gierke, Hauriou, Ehrlich, Romano), e che conoscono sempre maggiore diffusione.
Come si definisce la legge naturale? E come incide nella sfera pubblica?
I critici del diritto naturale hanno evidenziato: 1) la difficoltà a trarne un catalogo di diritti o di principî puntuale; 2) hanno sottolineato come non sia stata sempre univoca la definizione delle leggi di natura; 3) hanno denunciato il rischio che ogni determinazione precisa risulti rigida, bloccando il progresso storico; 4) hanno segnalato il pericolo di un insanabile contrasto tra diritto naturale e diritto positivo (contrasto delicato soprattutto quando il diritto positivo sia espressione della volontà democratica).
Tali obiezioni non sono irragionevoli, ma deve essere valutata attentamente la loro portata.
1) Nell’articolo sul relativismo abbiamo evidenziato che la difficoltà a definire la verità sull’uomo, e quindi anche la legge naturale, sta negli ineliminabili limiti razionali e morali degli uomini. Ciò nonostante, il riconoscimento che esiste una natura umana essenziale, che questa fonda la dignità dell’uomo e che è conoscibile da tutti, è il frutto di una ragione aperta e realista.
La legge naturale è la storia di come le cose funzionano. È semplice da comprendere quando parliamo della natura fisica; ma è anche una prerogativa della persona umana, della sua sfera morale, intellettuale, spirituale, relazionale, sebbene la natura umana abbia un carattere duale (anima-corpo, finito-infinito) che la rende più complessa e mutevole. La natura dell’uomo - ovvero il suo statuto ontologico - è data da quelle caratteristiche fisiche, morali, razionali, spirituali che lo contraddistinguono al di là di razze, lingue, religioni, idee politiche, differenziandolo da ogni altro essere vivente e fondandone l’eminente dignità di persona (e i suoi diritti).
Negano l'esistenza di una natura umana le teorie del "determinismo sociologico" (di derivazione marxista), per cui l'uomo è esclusivamente il prodotto degli influssi che subisce e dei rapporti (sociali, economici, culturali) che instaura.
Così come le teorie "autopoietiche", per cui l'uomo sarebbe creazione di se stesso; e persino l'identità sessuale (maschio, femmina) dovrebbe essere sostituita da un'identità di genere ("gender") autodeterminata.
Ora, queste teorie, negando la natura umana, sviliscono la dignità dell'uomo, la quale diverrebbe condizionata e demandata ad una valutazione esterna, capace di stabilire se l'individuo abbia raggiunto lo stato che lo costituisce pienamente come persona.
Beninteso, anche lo sviluppo di differenti identità culturali (dovuto sia alle relazioni sia all'autodeterminazione) è un’esigenza della natura umana. Per invocare il rispetto della dignità della persona non è necessario soffocare le originalità, ma semplicemente individuare gli elementi naturali che le precedono.
Altre teorie non negano in toto la natura umana, ma ne danno una visione parziale, ne sminuiscono la complessità: e in definitiva la amputano. Sono le teorie "riduzionistiche", che cioè riducono l'uomo ad una sola dimensione (economica, politica, sessuale, materiale, razionale), e lo rispettano solo nelle manifestazioni di quella dimensione.
La dignità dell'uomo, dunque, derivando dalla sua natura, appartiene all'individuo umano in quanto tale, in qualsiasi condizione si trovi: non dipende dal riconoscimento di altri, dalle condizioni di salute, dalle caratteristiche fisiche o morali.
Se col termine di "persona" abbiamo indicato la grande ricchezza della natura umana, dobbiamo precisare che - in ogni caso - a nessun individuo può essere negata la dignità di persona, perché l'espressione di quella ricchezza può essere piena o parziale, attuale o potenziale. Per chiarire ancor meglio: il deficit intellettuale di un minorato mentale (ma anche di un'individuo che dorme!) non lo rende meno "persona", non ne intacca la dignità; così per il malato terminale, per il bambino non nato, per il criminale incallito, per l'emarginato.
La crisi del diritto naturale coincide con la crisi dell'idea di natura umana, e reca con sé gli inevitabili soprusi che ne conseguono.
La riflessione sulla natura della persona umana conduce ad evidenziare che la legge naturale non si identifica solo con i suoi diritti fondamentali, ma anche ‑ in un’accezione più ampia ‑ con quell’insieme di leggi e valori che ne guidano l’esistenza e ne assicurano il bene. L’uomo, capace non solo di fare il bene, ma anche il male (contrariamente a quanto vorrebbero certi ingenui ottimismi), trova nella legge naturale il riferimento per seguire la sua vocazione più profonda al bene e al dono di sé.
Senz’altro la legge naturale è una guida per la condotta personale. Ma ha anche un rilievo sociale, modella tutte le realtà in cui l’uomo svolge la sua esistenza: famiglia, comunità locale, associazioni, lavoro, scienza, economia, ecc. Ogni realtà umana ha le sue leggi e i suoi valori naturali: è difficile che una famiglia funzioni senza stima e affetto reciproci; che un'azienda sia sana se non offre prodotti che incontrino il gradimento dei clienti; che uno scienziato faccia scoperte se non applica un metodo sperimentale rigoroso; che uno sportivo vinca una gara se non si allena; e così via. La legge naturale individua i valori comuni ad una collettività, fissa i criterî di composizione degli interessi, garantisce in maniera più sicura la coesistenza, che è anch'essa un'esigenza della natura dell'uomo quale essere sociale.
La legge naturale di una realtà umana costituisce l'elemento oggettivo, universale, dei valori che animano quella realtà. A tale elemento se ne aggiunge uno mutevole, creato dall'esperienza umana nei diversi contesti storici, geografici, sociali, culturali. Questo elemento costituisce la tradizione, che esprime la cultura e l'identità collettiva di una comunità. L’esperienza esistenziale di ogni generazione continuamente verifica (o falsifica) quelle acquisizioni, le anima e le fa rivivere.
Quanto detto vale anche per la comunità più ampia, lo Stato, per cui la legge naturale ha anche un’incidenza sulla sfera pubblica e sulle sue regole, le norme giuridiche. "Realizzare la coesistenza nella legalità" (S. Cotta) è la funzione della norma giuridica: una norma che pretendesse di garantire la coesistenza senza attenzione alla natura dell'uomo, senza cercare una giustificazione profonda, ma basandosi solo sul rispetto formale, si voterebbe al fallimento.
Non bisogna trascurare che l'illuminazione divina, anche in un contesto di laicità, può fornire un contributo alla corretta individuazione dei principî di diritto naturale, come già affermava la tradizione del giusnaturalismo scolastico. Questa elaborazione non impegna il non credente sulla base di un principio di autorità, ma può essere la base di un costruttivo confronto razionale.
In ogni caso, abbiamo sperimentato - nella concreta vicenda storica - che l'invocazione della legge naturale non è un'aspirazione astratta.
Innanzitutto, il diritto naturale ha conosciuto nei secoli e conosce tutt'ora una seppur parziale vigenza diretta - senza il 'filtro' del ius positivum - nel ius gentium (il diritto internazionale).
Il diritto naturale è stato rilanciato nelle grandi convenzioni internazionali sui Diritti dell’uomo, a causa della crisi del positivismo giuridico. Abbiamo visto all'inizio, nel paragrafo su diritto naturale e diritti fondamentali, alcuni clamorosi casi di revival di tale diritto.
Lo Statuto delle Nazioni Unite proclama, all'art. 51, il "diritto naturale di autotutela individuale o collettiva".
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, approvata in sede ONU (e di cui abbiamo pure evidenziato, all'inizio, alcune ambiguità), recita - all'art. 16 - che "la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società".
Tutti gli ordinamenti giuridici riconoscono uno spazio al criterio di equità nella risoluzione di alcune controversie.
Di "diritto naturale" (all'educazione di figli) parla l'art. 6 della Legge fondamentale tedesca. I "diritti naturali" dell'uomo, proclamati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, sono tutt'ora parte integrante della Costituzione francese.
Ed infine, per venire al nostro ordinamento, l'art.2 della Carta costituzionale "riconosce (in quanto preesistenti) e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo", con ciò ponendo un limite a se stessa e alla futura legislazione positiva; l'art. 29 "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio".
Per cui possiamo ben parlare di concretezza e di modernità del diritto naturale.
2) Dal diritto naturale, nel corso della storia, sono stati ricavati principî diversi? Questa critica non tiene conto che l'elaborazione di alcuni princìpî risente del grado di consapevolezza storico raggiunto dai popoli: il cammino della storia può condurre anche ad una crescita di consapevolezza sui contenuti delle leggi di natura.
3) Quanto al pregiudizio secondo il quale l'idea di diritto naturale comporterebbe rigidità (pregiudizio che peraltro si contraddice con la critica precedente, secondo cui il diritto naturale sarebbe mutevole), ostacolando il progresso, basti ricordare come già Aristotele spiegasse che i due concetti (natura e cambiamento) non sono inconciliabili: "V'è un dominio della natura, il quale però sottostà al movimento; tuttavia alcune cose sono mutevoli per natura, altre non per natura" (Etica nicomachea). Si tratta di comprendere correttamente la natura umana: uno dei suoi valori cardini è la libertà, la quale implica non certo rigidità, bensì creatività e cambiamento, adattamento (seppur non stravolgimento) a mutate condizioni economiche e sociali; inoltre, tale natura umana è duale (anima-corpo, finito-infinito), con tutte le dinamiche che ciò comporta.
4) I problemi posti dalla dialettica tra diritto naturale e diritto positivo? Non possono essere risolti semplicemente eliminando uno dei due fattori.
Il diritto naturale, come abbiamo visto, è un sistema giuridico, non un catalogo di norme; non conosce una definizione rigida e minuziosa. Questo accade perché il diritto naturale non è legittimato da una fonte (almeno per chi non crede in Dio), quanto piuttosto dal suo contenuto, dalla sua capacità di rispondere alla funzione dell'ordinamento giuridico: garantire l'esigenza di coesistenzialità iscritta nella natura umana. Per cui il diritto positivo non passa in secondo piano, ma è il veicolo necessario per concretizzare, ‘positivizzare’ la legge naturale, realizzare il "diritto naturale vigente".
Il diritto positivo conserva ampia autonomia, perché i princìpî posti dal diritto naturale sono princìpî generali, parametro di elaborazione delle norme, obiettivo cui tendere (ius condendum, diritto da realizzare). Tali parametri hanno bisogno di essere definiti concretamente nel ius conditum (diritto posto), adattati al contesto storico e culturale.
Il diritto naturale ha rilevanza anche come criterio di giudizio delle norme esistenti. Anche questo aspetto non comporta una svalutazione del diritto positivo. In presenza di un contrasto, se i contorni di questo contrasto sono sfumati, l'esigenza di certezza del diritto impone che al diritto positivo vada riconosciuta la prevalenza formale. Ciò non significa, però, negare l’importanza che le forze sociali siano impegnate a sanare questo contrasto: non si può pretendere che la legalità sostituisca la giustizia. L’importante, allora, non è definire una volta per tutte un contenuto rigido e minuto, “ontologico”, della legge - e del diritto - naturale, contrapponendola al diritto positivo. L’importante è che gli uomini, nel costruire liberamente la loro società, non si sentano demiurghi onnipotenti, padroni del bene e del male, ma siano responsabilmente guidati dallo sforzo di comprendere sempre meglio i principî che debbono sviluppare in pienezza (come abbiamo cercato di fare, nel nostro piccolo, con l'articolo Quali "valori"?).
Quando però sono in gioco i diritti umani fondamentali il contrasto deve risolversi con la prevalenza del diritto naturale: tanto nel giudizio dei tribunali, quanto nell'agire del singolo, mediante l’obiezione di coscienza. Esistono norme oggettive, fondate sulla natura, che affermano diritti inviolabili e sono dunque più elevate della Costituzione o della Corte Suprema. Una legge contraria ai diritti naturali fondamentali non è neanche una legge. È vuota, un atto di violenza più che una legge. E questo vale quand'anche si tratti di legge approvata secondo il principio di maggioranza, in un sistema democratico. La logica filosofico-giuridica ci spiega che una verità, un diritto fondamentale, si scopre, si "riconosce", non si produce con la forza del numero. L'esperienza storica, poi, ci insegna i pericoli della "dittatura delle maggioranze", l'esigenza di presidî giuridicamente rigidi a tutela delle minoranze e dei diritti fondamentali.
Nell’articolo sul relativismo abbiamo sottolineato che – sul piano culturale – l’idea di una verità liberamente proposta è il sale del pluralismo. Parimenti, sul piano giuridico, la rilevanza pubblica di alcuni valori rinvenuti nella natura e nella tradizione – come ci insegnano la tradizione e il metodo del diritto naturale - è inevitabile anche in uno Stato laico, liberal-democratico, che difenda il pluralismo politico. Abbiamo evidenziato all'inizio che non esistono scelte neutre, ma tutte effettuano una selezione di interessi in base ad un criterio di valori. Un’autentica laicità non può essere il pretesto ipocrita e – stavolta sì – intollerante per bloccare una discussione aperta e realmente pluralista sugli ideali che possono divenire punto di riferimento del confronto sociale.
La difesa dei valori non ha nulla a che vedere con lo Stato etico, anzi costituisce un importante antidoto ad esso. Lo Stato etico pretende di calare dall’alto un proprio sistema ideologico, di imporre un’omologazione culturale, soppiantando ogni valore naturale e sociale preesistente. In democrazia, invece, servono poche leggi, quelle che recepiscano alcuni valori essenziali dal libero confronto politico e culturale, dalle esigenze concrete delle realtà interessate; valori che fondino il senso d’appartenenza ad una cittadinanza comune.
La dialettica tra valori e norme positive è fondamentale per il sistema democratico. Non solo perché, come abbiamo visto, il metodo di maggioranza non garantisce la protezione dei diritti fondamentali della persona. Ma anche perché – ribadiamolo ancora - la norma non è solo formalità della procedura, ma soluzione efficace ai problemi della convivenza. La democrazia, se non vuole degradare e corrompersi, non può essere una scatola vuota, fine a se stessa, ma deve essere orientata alla promozione umana: è necessario costruire una democrazia dei valori. Sul legame tra democrazia e valori si è espresso chiaramente Giovanni Paolo II in un passo della Centesimus Annus: “Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico (…) A questo proposito bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.” (CA, 46)
Il diritto naturale, dunque, serve come parametro di elaborazione e giudizio delle leggi. Non solo nel senso che la legge naturale contiene una serie di principî – più o meno inviolabili, più o meno aggiornati a contesti storico-culturali diversi – con cui debbono confrontarsi le norme positive, per non risultare inutili e dannose. Ma anche nel senso che esiste una tradizione del diritto naturale che costituisce un metodo per l’elaborazione del diritto: un metodo attento alla pluralità degli ordinamenti, alla dignità e ai diritti fondamentali della persona umana, all’importanza del confronto razionale, alla rilevanza delle tradizioni, alla funzione della norma giuridica, al rapporto tra religione e realtà umana, all’equilibrio tra giustizia formale e sostanziale. Si può parlare quindi, come per il positivismo giuridico, di un irrinunciabile contributo - storico e attuale - del diritto naturale all’elaborazione metodologica del diritto.
(Il nucleo di quest’articolo - ora completamente riveduto ed ampliato - è stato parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 27-29 giugno 1997. Il paragrafo Il diritto naturale ancoraggio per i diritti umani fondamentali si basa sulla stesura originaria di Federico Eichberg)
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/309/45/ (prelevato il 17 dicembre 2008)
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