L'irrevocabile assimetria
di Andrea Lavazza
L’orribile ed esecrabile attentato nella basilica di Notre Dame di Nizza non poteva che suscitare un’ondata emotiva, tracimata anche in molti commenti e in tante presunte attribuzioni di responsabilità diretta o indiretta. A mente un poco più fredda è possibile provare a riconsiderare alcuni snodi della vicenda in cui si inserisce l’attacco di giovedì.
Chi ha armato la mano di Brahim Aoussaoui? Non il presidente turco Erdogan, che non ha nemmeno guidato il rifugiato ceceno assassino del professor Paty. Avviare una contesa che coinvolge anche la religione non significa arruolare killer a distanza. Si può e si deve stigmatizzare la strumentalizzazione del caso delle vignette di 'Charlie Hebdo' che il leader di Ankara sta conducendo a suo esclusivo vantaggio. Ma come tante volte è accaduto anche in altri contesti, avviare o soffiare su uno scontro ideologico non equivale ad arruolare terroristi.
Se singoli individui radicalizzati assaltano e uccidono, essi ne hanno la piena responsabilità insieme con coloro che da più vicino li hanno educati e assecondati a una visione estremistica e criminale, immersa o meno che sia in un humus musulmano. Mettere sul banco degli accusati soltanto Erdogan e con lui tutto l’islam è una scappatoia rispetto alla seria constatazione che l’islam non è affatto un monolite e ha un problema interno ben più grave e radicato rispetto alla 'guerra santa' di un capo politico che sente di poter perdere il potere a causa della crisi economica del suo Paese.
Ma nemmeno è colpevole della provocazione che avrebbe scatenato i jihadisti il presidente francese Macron. La sua difesa a oltranza della laicità delle istituzioni e della libertà di pubblicare vignette, anche se ritenute blasfeme, può certamente essere criticata nel merito, e anche il direttore di questo giornale lo ha fatto, condannando la follia omicida delle «coltellate mortali» in nome di Dio e denunciando la logica presuntuosa delle «coltellate morali» di una satira che incentiva ormai ossessivamente lo scontro tra culture e sensibilità. Ma sarebbe un errore gravissimo pensare che ci sia una qualche simmetria tra il docente che forse turba il sentimento religioso di qualche famiglia perché, in una lezione sulla tolleranza, decide di mostrare in classe i 'disegni dello scandalo' e il giovane che per difendere l’onore della sua fede sgozza chi ha commesso l’offesa.
È una cultura cristiana e laica insieme quella che in Europa (e non solo) è giunta con fatica ed errori a concepire le libertà individuali inviolabili, lo Stato di diritto, la democrazia e il pluralismo. Il singolo e l’opinione pubblica hanno molti strumenti per fare sentire la propria voce di dissenso. Possono manifestare, scioperare, organizzare campagne, persino votare per un altro presidente. È su un piano di responsabile libertà che è accettabile concepire il no alle vignette di 'Charlie Hebdo', in questo senso perfettamente contestabili. Ma se ci sposta su un piano diverso, quello dell’odio, dell’aggressione e della violenza, ogni ragione è perduta, nessuna istanza può più essere accettata. L’asimmetria è completa e irrevocabile.
E se sappiamo che qualcuno è pronto a passare all’azione, sordo a ogni richiamo alla ragionevolezza? Non sarebbe più sensato scegliere la cautela? Rinunciare alle sterili provocazioni è sempre saggio, ma cedere al ricatto, esplicito o implicito, non lo è mai: aprirebbe le porte a una ritirata sul piano dei diritti.
Qualora pochi estremisti di un qualunque segno facessero sapere di essere pronti a dar fuoco alla sede di un giornale che pubblica vignette contro di loro, si dovrebbero forse ritirare le copie stampate o chiudere la redazione? E non vale neppure l’obiezione che certi temi sono più importanti di altri. In una società plurale lo si può decidere solo a valle di un processo politico regolato da garanzie procedurali e sostanziali. Ed è infine ovvio che la responsabilità dell’arrivo sul suolo europeo del killer di Nizza non può essere minimamente addebitata al governo in carica in Italia nel momento in cui egli è sbarcato a Lampedusa da un barchino arrivato in porto mentre ancora vigevano le regole fissate dal ministro dell’Interno di un governo precedente, né l’accaduto può essere usato per reclamare lo stop al soccorso e alla civile accoglienza.
Semplicemente, si ignora che decine di migliaia di persone sono giunte in Italia via mare e che mai finora terroristi identificabili come tali sono sfuggiti ai controlli. Anche in questo caso, una sterile polemica di breve respiro contribuisce a mettere sullo sfondo le difficoltà più profonde che affliggono la gestione umana e sensata dei grandi flussi migratori e che andrebbero affrontate unendo volenterosamente forze e sensibilità diverse. Si tratta certamente di situazioni molto più complesse di quanto si possa qui sintetizzare. Spesso, tuttavia, una migliore comprensione dei fenomeni può contribuire a un approccio più efficace verso di essi.
Chi ha armato la mano di Brahim Aoussaoui? Non il presidente turco Erdogan, che non ha nemmeno guidato il rifugiato ceceno assassino del professor Paty. Avviare una contesa che coinvolge anche la religione non significa arruolare killer a distanza. Si può e si deve stigmatizzare la strumentalizzazione del caso delle vignette di 'Charlie Hebdo' che il leader di Ankara sta conducendo a suo esclusivo vantaggio. Ma come tante volte è accaduto anche in altri contesti, avviare o soffiare su uno scontro ideologico non equivale ad arruolare terroristi.
Se singoli individui radicalizzati assaltano e uccidono, essi ne hanno la piena responsabilità insieme con coloro che da più vicino li hanno educati e assecondati a una visione estremistica e criminale, immersa o meno che sia in un humus musulmano. Mettere sul banco degli accusati soltanto Erdogan e con lui tutto l’islam è una scappatoia rispetto alla seria constatazione che l’islam non è affatto un monolite e ha un problema interno ben più grave e radicato rispetto alla 'guerra santa' di un capo politico che sente di poter perdere il potere a causa della crisi economica del suo Paese.
Ma nemmeno è colpevole della provocazione che avrebbe scatenato i jihadisti il presidente francese Macron. La sua difesa a oltranza della laicità delle istituzioni e della libertà di pubblicare vignette, anche se ritenute blasfeme, può certamente essere criticata nel merito, e anche il direttore di questo giornale lo ha fatto, condannando la follia omicida delle «coltellate mortali» in nome di Dio e denunciando la logica presuntuosa delle «coltellate morali» di una satira che incentiva ormai ossessivamente lo scontro tra culture e sensibilità. Ma sarebbe un errore gravissimo pensare che ci sia una qualche simmetria tra il docente che forse turba il sentimento religioso di qualche famiglia perché, in una lezione sulla tolleranza, decide di mostrare in classe i 'disegni dello scandalo' e il giovane che per difendere l’onore della sua fede sgozza chi ha commesso l’offesa.
È una cultura cristiana e laica insieme quella che in Europa (e non solo) è giunta con fatica ed errori a concepire le libertà individuali inviolabili, lo Stato di diritto, la democrazia e il pluralismo. Il singolo e l’opinione pubblica hanno molti strumenti per fare sentire la propria voce di dissenso. Possono manifestare, scioperare, organizzare campagne, persino votare per un altro presidente. È su un piano di responsabile libertà che è accettabile concepire il no alle vignette di 'Charlie Hebdo', in questo senso perfettamente contestabili. Ma se ci sposta su un piano diverso, quello dell’odio, dell’aggressione e della violenza, ogni ragione è perduta, nessuna istanza può più essere accettata. L’asimmetria è completa e irrevocabile.
E se sappiamo che qualcuno è pronto a passare all’azione, sordo a ogni richiamo alla ragionevolezza? Non sarebbe più sensato scegliere la cautela? Rinunciare alle sterili provocazioni è sempre saggio, ma cedere al ricatto, esplicito o implicito, non lo è mai: aprirebbe le porte a una ritirata sul piano dei diritti.
Qualora pochi estremisti di un qualunque segno facessero sapere di essere pronti a dar fuoco alla sede di un giornale che pubblica vignette contro di loro, si dovrebbero forse ritirare le copie stampate o chiudere la redazione? E non vale neppure l’obiezione che certi temi sono più importanti di altri. In una società plurale lo si può decidere solo a valle di un processo politico regolato da garanzie procedurali e sostanziali. Ed è infine ovvio che la responsabilità dell’arrivo sul suolo europeo del killer di Nizza non può essere minimamente addebitata al governo in carica in Italia nel momento in cui egli è sbarcato a Lampedusa da un barchino arrivato in porto mentre ancora vigevano le regole fissate dal ministro dell’Interno di un governo precedente, né l’accaduto può essere usato per reclamare lo stop al soccorso e alla civile accoglienza.
Semplicemente, si ignora che decine di migliaia di persone sono giunte in Italia via mare e che mai finora terroristi identificabili come tali sono sfuggiti ai controlli. Anche in questo caso, una sterile polemica di breve respiro contribuisce a mettere sullo sfondo le difficoltà più profonde che affliggono la gestione umana e sensata dei grandi flussi migratori e che andrebbero affrontate unendo volenterosamente forze e sensibilità diverse. Si tratta certamente di situazioni molto più complesse di quanto si possa qui sintetizzare. Spesso, tuttavia, una migliore comprensione dei fenomeni può contribuire a un approccio più efficace verso di essi.
«Avvenire» del 31 ottobre 2020
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