Così ho vinto il Nobel dei maestri
di Antonella De Gregorio
Metodo (classi piccole, approccio uno a uno) e progetti (comprare altri volumi, rifare il tetto) di Nancie Atwell, americana, 63 anni, miglior docente del mondo. Che insegna in un centro rurale di 1.200 abitanti
Di ragazzi che abbandonano la scuola e smettono di studiare non ce ne sono a Edgecomb, piccolo centro del Maine, dove un’insegnante appassionata, Nancie Atwell, ha avviato nel 1990 una demonstration school, scuola laboratorio che serve da modello e caso di studio per altri insegnanti. Accoglie un centinaio di bambini tra i 5 e i 12 anni e si sperimentano metodologie innovative. Nulla a che vedere con le tecnologie digitali, per una volta, ma pareti tappezzate di libri in ogni classe, decine di migliaia, a disposizione dei ragazzi. La novità, rivoluzionaria, è che dalla prima elementare alla fine delle medie, gli alunni della scuola (il Center for Teaching and Learning) leggono in media 40 libri a testa all’anno (contro i 5 della media Usa); scrivono ognuno una ventina di racconti, poesie, recensioni, che vengono pubblicati su riviste o sul sito del Centro; e soprattutto diventano presto autonomi nell’apprendimento. Con risultati scolastici molto alti. Il 97%, poi, prosegue gli studi e si iscrive a college e università anche eccellenti, come Harvard o Chicago.
Edgecomb è un paese rurale di 1.200 abitanti. Il Ctl è una scuola hands on, con laboratori di storia, arte, musica e scienze. E Nancie Atwell, 63 anni, è la prima vincitrice di quello che è stato definito il «Premio Nobel degli insegnanti», messo in palio dalla Varkey Foundation e conferito in marzo a Dubai, nel corso di una sontuosa cerimonia, alla presenza di capi di Stato e di docenti fuori dall’ordinario, di tutto il mondo. Un premio nato per far finire sotto i riflettori un insegnante eccezionale, che abbia offerto un contributo speciale alla professione. La luce su uno, per migliorare la reputazione dell’intera categoria e «far sì che riceva il rispetto che merita», ha spiegato l’ideatore, Sunny Varkey, imprenditore di origini indiane. Un modo, anche, per far conoscere le migliaia di storie di «eroi» che hanno trasformato la vita dei giovani.
«Ho saputo solo all’ultimo di aver vinto: quando, sul palco a Dubai, hanno letto il mio nome», dice a «la Lettura» tra un appuntamento e l’altro di un tour europeo per raccontare la sua esperienza ed esercitare il ruolo di ambasciatrice della Fondazione: eventi, forum, interviste.
Oltre alla meraviglia e alla gratificazione, un assegno da dirigente d’azienda, da calciatore, star della tv: un milione di dollari che le verranno corrisposti a rate, in dieci anni. Che cosa ne farà?
«Investirò tutto nel Centro: prima di marzo ero preoccupata di come andare avanti. Abbiamo bisogno urgente di rifare il tetto, sostituire i caloriferi e soprattutto acquistare libri: non sono mai abbastanza. Abbiamo deciso dall’inizio di sostenerci con raccolte fondi e con il provento delle royalty dei libri che scriviamo (una trentina all’attivo, su diversi aspetti della didattica, ndr). La nostra è una scuola privata, ma ha rette pari a un terzo delle altre e offriamo molte borse di studio: meno del 20% degli studenti paga la quota intera».
Qual è la novità del suo metodo?
«Classi piccole, niente test standardizzati, approccio “uno a uno” con i ragazzi. I bambini sono incoraggiati a scegliere in autonomia il libro che hanno più voglia di leggere e hanno il tempo e lo spazio per farlo, in un continuo dialogo con l’insegnante. Facciamo laboratori quotidiani di scrittura e sono i bambini a decidere che cosa scrivere: l’ultimo libro che hanno letto, le emozioni che ha prodotto in loro. La scoperta rivoluzionaria è stata vedere che lasciandoli liberi di scegliere da soli, dalla libreria che aggiorniamo continuamente, diventano lettori appassionati».
Un’idea contrastata da molti educatori, che ritengono che i ragazzi debbano leggere libri più impegnativi di quelli che selezionerebbero per conto proprio. Che dedicare tempo alla lettura significa togliere tempo alle attività scolastiche ...
«Sarebbe facile convincerli del contrario se solo si prendessero la briga di vedere i risultati che otteniamo noi. Certo, un bambino seduto in una stanza tranquilla con un buon libro in mano non è un metodo d’impatto mediatico. Ma è l’unico modo in cui si diventa lettori. E attraverso la lettura si possono imparare tante cose importanti, la storia, i valori civili, la grammatica, la matematica. Si sviluppa il pensiero critico. Si conosce il mondo: quando escono da scuola, i nostri ragazzi trovano idee, luoghi, persone che conoscono già, per averli incontrati nelle pagine scritte».
Che genere di libri acquistate?
«Di tutto: Harry Potter, Amleto, Huck Finn. Classici e novità. Fortunatamente in questo momento negli Stati Uniti c’è grandissima scelta. Sul sito della scuola (www.c-t-l.org) abbiamo elenchi di libri consigliati, che vengono aggiornati tre volte all’anno, anche con il contributo dei ragazzi».
Qual è un errore che non si dovrebbe mai fare se si vuole che un ragazzo si appassioni alla lettura?
«Mai dare per scontato che un bambino che non legge non leggerà. Quando un ragazzo afferma di non amare la lettura in realtà è perché non ha trovato il libro giusto».
Per molti adolescenti leggere è noioso, difficile e non rende felici. Ha a che fare con il fatto che trovano più interessante la tv, i social, la rapidità del web? E in generale, cosa pensa delle tecnologie a scuola?
«I giovani che non sono abituati a leggere non provano un piacere immediato, devono entrare nella storia e comprenderne il linguaggio. Un videogioco e un libro non sono la stessa cosa. Se vogliamo far entrare la lettura nella loro vita dobbiamo fare in modo che la incrocino sempre, non solo un’ora a settimana. Io poi sono contraria alla lettura su schermi digitali. Anche i bambini abituati ai libri, non li amano. Ai genitori chiediamo di limitare a mezz’ora, massimo un’ora al giorno il tempo per videogiochi o social network. E comunque dopo la lettura, che deve essere quotidiana. A scuola usiamo le tecnologie solo per fare ricerche di storia o scienze, laptop per scrivere. Niente tablet ai più piccoli, mouse e tastiera solo dopo i nove anni».
Edgecomb è un paese rurale di 1.200 abitanti. Il Ctl è una scuola hands on, con laboratori di storia, arte, musica e scienze. E Nancie Atwell, 63 anni, è la prima vincitrice di quello che è stato definito il «Premio Nobel degli insegnanti», messo in palio dalla Varkey Foundation e conferito in marzo a Dubai, nel corso di una sontuosa cerimonia, alla presenza di capi di Stato e di docenti fuori dall’ordinario, di tutto il mondo. Un premio nato per far finire sotto i riflettori un insegnante eccezionale, che abbia offerto un contributo speciale alla professione. La luce su uno, per migliorare la reputazione dell’intera categoria e «far sì che riceva il rispetto che merita», ha spiegato l’ideatore, Sunny Varkey, imprenditore di origini indiane. Un modo, anche, per far conoscere le migliaia di storie di «eroi» che hanno trasformato la vita dei giovani.
«Ho saputo solo all’ultimo di aver vinto: quando, sul palco a Dubai, hanno letto il mio nome», dice a «la Lettura» tra un appuntamento e l’altro di un tour europeo per raccontare la sua esperienza ed esercitare il ruolo di ambasciatrice della Fondazione: eventi, forum, interviste.
Oltre alla meraviglia e alla gratificazione, un assegno da dirigente d’azienda, da calciatore, star della tv: un milione di dollari che le verranno corrisposti a rate, in dieci anni. Che cosa ne farà?
«Investirò tutto nel Centro: prima di marzo ero preoccupata di come andare avanti. Abbiamo bisogno urgente di rifare il tetto, sostituire i caloriferi e soprattutto acquistare libri: non sono mai abbastanza. Abbiamo deciso dall’inizio di sostenerci con raccolte fondi e con il provento delle royalty dei libri che scriviamo (una trentina all’attivo, su diversi aspetti della didattica, ndr). La nostra è una scuola privata, ma ha rette pari a un terzo delle altre e offriamo molte borse di studio: meno del 20% degli studenti paga la quota intera».
Qual è la novità del suo metodo?
«Classi piccole, niente test standardizzati, approccio “uno a uno” con i ragazzi. I bambini sono incoraggiati a scegliere in autonomia il libro che hanno più voglia di leggere e hanno il tempo e lo spazio per farlo, in un continuo dialogo con l’insegnante. Facciamo laboratori quotidiani di scrittura e sono i bambini a decidere che cosa scrivere: l’ultimo libro che hanno letto, le emozioni che ha prodotto in loro. La scoperta rivoluzionaria è stata vedere che lasciandoli liberi di scegliere da soli, dalla libreria che aggiorniamo continuamente, diventano lettori appassionati».
Un’idea contrastata da molti educatori, che ritengono che i ragazzi debbano leggere libri più impegnativi di quelli che selezionerebbero per conto proprio. Che dedicare tempo alla lettura significa togliere tempo alle attività scolastiche ...
«Sarebbe facile convincerli del contrario se solo si prendessero la briga di vedere i risultati che otteniamo noi. Certo, un bambino seduto in una stanza tranquilla con un buon libro in mano non è un metodo d’impatto mediatico. Ma è l’unico modo in cui si diventa lettori. E attraverso la lettura si possono imparare tante cose importanti, la storia, i valori civili, la grammatica, la matematica. Si sviluppa il pensiero critico. Si conosce il mondo: quando escono da scuola, i nostri ragazzi trovano idee, luoghi, persone che conoscono già, per averli incontrati nelle pagine scritte».
Che genere di libri acquistate?
«Di tutto: Harry Potter, Amleto, Huck Finn. Classici e novità. Fortunatamente in questo momento negli Stati Uniti c’è grandissima scelta. Sul sito della scuola (www.c-t-l.org) abbiamo elenchi di libri consigliati, che vengono aggiornati tre volte all’anno, anche con il contributo dei ragazzi».
Qual è un errore che non si dovrebbe mai fare se si vuole che un ragazzo si appassioni alla lettura?
«Mai dare per scontato che un bambino che non legge non leggerà. Quando un ragazzo afferma di non amare la lettura in realtà è perché non ha trovato il libro giusto».
Per molti adolescenti leggere è noioso, difficile e non rende felici. Ha a che fare con il fatto che trovano più interessante la tv, i social, la rapidità del web? E in generale, cosa pensa delle tecnologie a scuola?
«I giovani che non sono abituati a leggere non provano un piacere immediato, devono entrare nella storia e comprenderne il linguaggio. Un videogioco e un libro non sono la stessa cosa. Se vogliamo far entrare la lettura nella loro vita dobbiamo fare in modo che la incrocino sempre, non solo un’ora a settimana. Io poi sono contraria alla lettura su schermi digitali. Anche i bambini abituati ai libri, non li amano. Ai genitori chiediamo di limitare a mezz’ora, massimo un’ora al giorno il tempo per videogiochi o social network. E comunque dopo la lettura, che deve essere quotidiana. A scuola usiamo le tecnologie solo per fare ricerche di storia o scienze, laptop per scrivere. Niente tablet ai più piccoli, mouse e tastiera solo dopo i nove anni».
«Corriere della sera» del 22 novembre 2015
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