Il video e la Rete
di Beppe Severgnini
Mostrare o non mostrare il filmato dell’esecuzione di James Foley? I limiti della condivisione, il diritto alla libertà e il gioco dei terroristi
La decapitazione di James Foley, recitata come la scena di un film, è sconvolgente: attori goffi, orrore vero. Un giornalista quarantenne, insaccato in una veste arancione, scannato nel deserto da un uomo - definizione che non merita - bardato di nero. Gesto mostruoso e preistorico; strumenti sofisticati e nuovi. Colori, luce, inquadratura, movimenti, tempi: tutto appare studiato per essere visto e diffuso. Se così fosse - e così è, quasi certamente - perché aiutare i carnefici? Gli abbiamo già fornito la tecnologia. Vogliamo diventare i loro portavoce? Questa è la domanda che si pongono molti in queste ore: i governi occidentali, i macchinisti della rete (Google per YouTube, Twitter), le grandi testate, le televisioni, chiunque abbia un collegamento internet veloce. #ISISMediaBlackout è diventato virale.
La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».
Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it . E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.
Alcune testate di lingua inglese (New York Times, Wall Street Journal, Financial Times) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.
I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.
Leggo tra i commenti su Corriere.it : «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».
Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?
«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.
La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».
Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it . E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.
Alcune testate di lingua inglese (New York Times, Wall Street Journal, Financial Times) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.
I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.
Leggo tra i commenti su Corriere.it : «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».
Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?
«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.
«Corriere della Sera» del 21 agosto 2014
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