Esce da Fandango un saggio di Alessandro Piperno: con la scomparsa dell'ultimo sopravvissuto, l'Olocausto rischia di essere dimenticato
di Alessandro Piperno
La profezia di Proust e la Shoah: una storia che gli eredi non potranno testimoniare. La tesi: chi può rassicurarci sul fatto che lo studente di domani si sentirà ancora toccato da quelle immagini con gli stessi codici emotivi di oggi? Primo Levi: i superstiti non hanno alcun diritto di parlare a nome di chi non ce l'ha fatta
È ogni istante più vicino il giorno in cui l' ultimo sopravvissuto della Shoah scomparirà dalla faccia della Terra. Probabilmente sarà uno di quei bambini (ormai diventato vecchio) che, con occhi smarriti dalla rassegnazione ancor prima che dal terrore, mostra i numeri incisi sul polso alle cineprese degli Alleati ansiosi di documentare l'entità e l'orrore dello sterminio. Sì, uno di quei bambini, quasi indistinguibili dai suoi compagni di sventura, che riappaiono in tv ogni fine gennaio, nella settimana durante la quale, per convenzione e non senza qualche ipocrisia, usiamo commemorare i milioni di vittime del genocidio. È più che probabile che, data l'inaudita vastità del fenomeno, per non dire della sua intricatezza statistica, nessuno si accorgerà che è venuto a mancare l'ultimo internato superstite di un campo di sterminio nazista. Ciò non di meno è indubbio che quel giorno (sobriamente travestito da giorno qualsiasi) arriverà. E porterà un cambiamento non immediatamente percettibile ma, alla lunga, a dir poco fatale. Con la scomparsa dalla faccia della Terra dell' ultimo internato, infatti, non ci sarà più nessun essere umano capace di testimoniare con il proprio corpo, con il proprio spirito, con il proprio cervello, con il proprio sangue quello che successe in Europa centrale più di mezzo secolo fa. Da quel momento in poi i testimoni verranno sostituiti dai figli e dai nipoti. Verrà affidato alla prole il compito di tramandare ai posteri il dolore inumano patito dai genitori scomparsi. Toccherà ai figli essere intervistati. Andare nelle scuole. Parlare nelle pubbliche commemorazioni. Toccherà a loro tentare di raccontare. Naturalmente, non potendo avvalersi di una memoria diretta, dovranno contentarsi di narrare ciò che è stato loro narrato dai genitori. È lecito ipotizzare che questi testimoni di secondo grado, coniugando esigenze intime a ragioni pedagogico-istituzionali, accettino di accompagnare le scolaresche nell'ennesimo macabro pellegrinaggio ai campi della morte trasformati in scabri musei dell'orrore. Così come è sensato immaginare che questi figli di deportati proveranno un certo imbarazzo nel parlare di ciò che non hanno vissuto. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati (il suo libro più tragico), sostiene, con la durezza che lo contraddistingue, che i sopravvissuti non hanno alcun diritto di parlare a nome di chi non ce l'ha fatta. Per lo stesso identico motivo, o forse per un motivo ancor più forte, è assurdo che i figli dei sopravvissuti parlino a nome dei loro padri e delle loro madri. Che non sia questo il limite della cosiddetta «memoria collettiva»? Essa nasce già come impostura. Visto che la memoria, per sua stessa definizione, non può che essere individuale, e visto che ogni testimonianza indiretta non ha niente a che fare con la memoria - tutt'al più con la letteratura, in taluni casi con la mitologia -, ecco che il giorno dopo la morte dell'ultimo perseguitato dalla furia nazista, l'umanità dovrà fare i conti con la propria incapacità di ricordare e con l'invincibile forza dell'Oblio. Da quel giorno in poi la Shoah inizierà a trasformarsi in qualche altra cosa. Alla lunga gli sforzi delle istituzioni di mantenere viva la fiamma della commozione si riveleranno vani. Perché gli uomini sono fatti in modo da provare commozione solo per ciò che li riguarda direttamente. E se un individuo è capace di immedesimarsi nella tragedia occorsa a un genitore, a uno zio o a un nonno, egli incontra qualche difficoltà a solidarizzare con il dramma di un trisavolo. Tutto questo autorizza l'ipotesi che, nel corso di poche generazioni, la Shoah - inghiottita dai decenni trascorsi, divorata dalla retorica istituzionale, banalizzata dal profluvio bibliografico, oltraggiata dal risentimento dei negazionisti, offuscata da qualche altra tragedia più incombente - diventi un fantasma? Ovvero, qualcosa di non immediatamente intellegibile. Qualcosa imposto dall'alto: come una religione, o come una vecchia carta costituzionale. Una ricorrenza in mezzo a tante altre ricorrenze. Quanto tempo deve passare prima che il più spaventoso dei ricordi cada in prescrizione? A onor del vero, occorre dire che qualsiasi studente della nostra epoca, provvisto di buonsenso e di empatia, prova orrore, commozione e sdegno leggendo un libro come Se questo è un uomo di Primo Levi. C'è da chiedersi però se tra un paio di secoli l'effetto prodotto sui posteri da tale lettura sarà il medesimo. O se quelle terrificanti pagine non corrano il rischio di essere consultate con lo stesso spirito con cui noi oggi leggiamo le cronache del famoso terremoto di Lisbona del 1755. Di certo la tecnologia fornirà un aiuto prezioso alla causa della Memoria. Inutile negare che le immagini - le migliaia di immagini archiviate - continuano a esercitare su di noi un'attrazione ipnotica, rappresentando un monito permanente. Un altro aiuto verrà offerto dall'azione persuasiva delle retorica che, in talune circostanze, può rivelarsi utile, come ammette lo stesso Primo Levi: «Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, "l'urne dei forti", accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi di Foscolo ed è vero ancor oggi». Ma chi può rassicurarci sul fatto che lo studente del ventitreesimo secolo si sentirà ancora implicato con quelle immagini? E che sarà ancora in grado di riconoscersi negli uomini che commisero e che subirono quelle orripilanti atrocità? Chi ci dice che il nostro studente venturo risponderà allo stesso codice emotivo e culturale che ancora oggi rende la retorica della Shoah così efficace? La verità è che ci vorrà qualche altro decennio per misurare l'entità del successo o del fallimento di coloro che hanno scommesso - in buonafede e con caparbietà - sulla Memoria. Per adesso è possibile provare a interpretare i dati di cui disponiamo. E fare un bilancio provvisorio. Si è spesso detto che l'interesse di alcuni degli ex internati nei campi di sterminio a raccontare e riraccontare ciò che avevano subito (naturalmente ci sono anche ex internati che hanno scelto, con gesto non meno dignitoso e non meno comprensibile, l'opposta via del riserbo), derivasse soprattutto dal timore che certe atrocità potessero ripetersi. Le Memoria come ammonimento, quindi. La Memoria come pedagogia. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la ragione ultima di quell'inesauribile smania di ricordare? Davvero la prima preoccupazione di chi è scampato a un' esperienza così mostruosamente totalizzante è che nessun altro provi un giorno ciò che lui ha provato? Bisogna avere un' opinione lusinghiera (e decisamente irrealistica) del genere umano per crederlo. Primo Levi scrive: «Quasi tutti i reduci, a voce alta o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio». Mi pare che il sogno ricorrente di cui Levi dà conto sia l'ennesima dimostrazione di come uno dei pochi sproni a sopravvivere degli internati fosse quello di poter raccontare, un giorno, la loro esperienza. I pochissimi che ebbero la fortuna di sopravvivere dovettero affrontare il dramma di non essere all' altezza del compito che si erano prefissi. Se è vero che non c' è esperienza individuale che sia totalmente comunicabile, ciò è ancora più vero quando l'esperienza che vuoi raccontare è così spaventosa. Non a caso Elie Wiesel ha scritto: «Quelli che non hanno vissuto quell' esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l' hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non sino in fondo. Il passato appartiene ai morti, e il sopravvissuto non si riconosce nelle immagini e nelle idee che pretendono di descriverlo». In un processo psichico non così difficile da comprendere, l' impossibilità di riuscire fino in fondo a «dire» ciò che ti è capitato si trasforma in un' esigenza di dirlo a tutti costi. Il fatto di non riuscirci fino in fondo non è che l' ennesima beffa, una specie di vittoria postuma dei nazisti e dei loro spregevolissimi fiancheggiatori. L'inesprimibilità di una tragedia è parte stessa della tragedia. Bruno Bettelheim - lo psichiatra che meglio di qualsiasi altro ha saputo descrivere la cosiddetta «sindrome del sopravvissuto ai campi di sterminio» - ha raccontato come, durante i primi giorni di prigionia in un campo di concentramento, lui, per tenere desta la mente, per non abbrutirsi, avesse provato ad analizzare i propri comportamenti e quelli degli altri internati con un atteggiamento scientifico che gli era stato inculcato da una severa educazione accademica: «Tale studio fu un meccanismo sviluppato ad hoc per poter mantenere almeno un minimo di interessi intellettuali e riuscire quindi a meglio sopportare la vita del campo. L'osservazione e la raccolta di dati vanno quindi considerate alla stregua di un particolare tipo di difesa sviluppata in quella situazione estrema». Lo «studio» cui allude Bettelheim non è solo un atto di comprensione, ma in un certo senso anche un atto di memoria. Capire vuol dire (lo dice Bettelheim stesso) immagazzinare una miriade di dati interessanti che ti consentono di ricostruire retroattivamente ciò che ti è capitato. E, dopo averlo capito, di raccontarlo. Dalle centinaia di testimonianze raccolte possiamo dire che l' internato in un campo di sterminio (soprattutto i primi tempi) - oltre alle tragedie legate alla violenza subita, allo scenario apocalittico in cui si è ritrovato quasi da un giorno all' altro, oltre al pensiero terrorizzante di ciò che potrebbe essere capitato ai suoi cari, al permanente pericolo di essere ammazzato, all'amministrazione delle energie residue in uno stato paurosamente insalubre di denutrizione, affaticamento, malattia, oltre al senso di solitudine aberrante - si trova a fronteggiare un dramma psicologico di proporzioni inaudite: da un lato sente che una delle poche ragioni per cui deve salvarsi è per poter raccontare la sua esperienza (molti hanno detto che questo era un pensiero ricorrente: salvarsi al solo scopo di poter raccontare. Affinché tutto ciò non restasse impunito, affinché tutto ciò avesse un senso). Ma, dall'altro, come ci spiega bene Levi, affianco a questo pensiero in qualche misura vitale ce n'era uno contrario: la paura di non essere creduti. Il terrore che, qualora fossi riuscito a salvarti, non avresti trovato le parole per raccontare, per ordinare i tuoi ricordi in un modo logico, laico e efficace. Chissà allora che si possa dire che una delle ragioni (non la sola, certo) per cui chi ha patito l'esperienza concentrazionaria non smette di ricordarla a se stesso e al mondo è perché lui è rimasto lì, se non con il corpo, di certo con la mente.
«Corriere della Sera» del 14 lugilio 2012
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