di Franco Cardini
Luciano Canfora ha pubblicato sotto forma di saggio, su «Il Corriere della sera» del 24 aprile, il secondo capitolo del suo recente libro «Filologia e libertà» (Mondadori): in esso, si dichiara con molta decisione che il cammino della storia della libertà di pensiero si snodò «attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi delle libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle 'scritture’dette appunto 'sacre'»; e si prosegue poi con vari argomenti, come quello secondo il quale vi sarebbe petitio principii, da parte delle Chiese cristiane storiche – e anzitutto quella romana – il pretendere che i testi scritturali dichiarati «canonici » contengano la Verità (e siano pertanto, in quanto ispirati da Dio, sacri) prescindendo da una loro precisa ricostruzione, quale appunto si può conseguire solo attraverso il lavoro filologico. Ora amicus Lucianus, sed magis amica veritas.
Piano, intanto, con la galleria degli illustri martiri del libero pensiero, nella quale egli allinea Erasmo, Spinoza e Bruno come se fossero proprio la stessa cosa. Erasmo, intanto, non disse mai una parola contro l’ortodossia cattolica: e, se un martire in quel torno di tempo ci fu, e ce ne fu uno esemplare, si trattò semmai di Thomas More, martire al tempo stesso della fede e della libertà. Ma prima di loro erano successe molte cose. Come ha ricordato un grande studioso, De Lubac, ch’era anche cardinale, la compresenza di addirittura quattro sensi nelle Scritture – tutti veritieri, ciascuno al suo livello – era alla base dell’esegesi medievale, in ciò già forse qualcosa di più che «prefilologica ». E non è stato a partire da un testo sacro, bensì da uno profano che la nascente filologia ha sgombrato in pieno XV secolo il campo da una secolare e fin allora condivisa menzogna, quella della cosiddetta «donazione di Costantino »: a farlo, a tutto scapito degli interessi quanto meno mondani del papato, è stato proprio quel Lorenzo Valla che senza dubbio avrebbe ispirato Lutero per il «libero esame» delle Scritture, ma che dal canto suo – nemmeno nei trattati più chiaramente anticuriali, come il De professione religiosorum – si è mai allontanato nemmeno d’un pollice dall’ortodossia. Ed è proprio il Valla che, tanto nel De libero arbitrio quanto nelle Dialecticae disputationes, ha prevenuto di mezzo millennio le critiche di Luciano Canfora e ad esse ha replicato che i principii della fede sono indimostrabili. Non è stata proprio la filologia moderna a cercare sovente di trascinare la comunità cristiana sul piano della critica razionalista delle Scritture, con ciò pretendendo l’abbandono e lo snaturamento della fede? Ciò premesso, perché scorgere tante penose contorsioni nella Divino afflante Spiritu di Pio XII?
Perché meravigliarsi se la Chiesa, confrontandosi con la storia e il progresso scientifico e tecnologico, riconosce le verità della scienza, rifiuta il sistema tolemaico e accetta anche la verità razionale contenuta nel metodo filologico? Solo la Chiesa ha, nella storia, avuto il coraggio di riconoscere e denunziare serenamente le colpe dei suoi figli. Lo ha fatto dinanzi alla filologia, alla memoria di Galileo, poi per le crociate o l’inquisizione, il massacro degli indios. Da Pio XII a Benedetto XVI, c’è stata una lunga teoria d’esami di coscienza e di pubbliche manifestazioni d’umiltà. La Chiesa dà l’esempio; ma altri non la seguono.
Piano, intanto, con la galleria degli illustri martiri del libero pensiero, nella quale egli allinea Erasmo, Spinoza e Bruno come se fossero proprio la stessa cosa. Erasmo, intanto, non disse mai una parola contro l’ortodossia cattolica: e, se un martire in quel torno di tempo ci fu, e ce ne fu uno esemplare, si trattò semmai di Thomas More, martire al tempo stesso della fede e della libertà. Ma prima di loro erano successe molte cose. Come ha ricordato un grande studioso, De Lubac, ch’era anche cardinale, la compresenza di addirittura quattro sensi nelle Scritture – tutti veritieri, ciascuno al suo livello – era alla base dell’esegesi medievale, in ciò già forse qualcosa di più che «prefilologica ». E non è stato a partire da un testo sacro, bensì da uno profano che la nascente filologia ha sgombrato in pieno XV secolo il campo da una secolare e fin allora condivisa menzogna, quella della cosiddetta «donazione di Costantino »: a farlo, a tutto scapito degli interessi quanto meno mondani del papato, è stato proprio quel Lorenzo Valla che senza dubbio avrebbe ispirato Lutero per il «libero esame» delle Scritture, ma che dal canto suo – nemmeno nei trattati più chiaramente anticuriali, come il De professione religiosorum – si è mai allontanato nemmeno d’un pollice dall’ortodossia. Ed è proprio il Valla che, tanto nel De libero arbitrio quanto nelle Dialecticae disputationes, ha prevenuto di mezzo millennio le critiche di Luciano Canfora e ad esse ha replicato che i principii della fede sono indimostrabili. Non è stata proprio la filologia moderna a cercare sovente di trascinare la comunità cristiana sul piano della critica razionalista delle Scritture, con ciò pretendendo l’abbandono e lo snaturamento della fede? Ciò premesso, perché scorgere tante penose contorsioni nella Divino afflante Spiritu di Pio XII?
Perché meravigliarsi se la Chiesa, confrontandosi con la storia e il progresso scientifico e tecnologico, riconosce le verità della scienza, rifiuta il sistema tolemaico e accetta anche la verità razionale contenuta nel metodo filologico? Solo la Chiesa ha, nella storia, avuto il coraggio di riconoscere e denunziare serenamente le colpe dei suoi figli. Lo ha fatto dinanzi alla filologia, alla memoria di Galileo, poi per le crociate o l’inquisizione, il massacro degli indios. Da Pio XII a Benedetto XVI, c’è stata una lunga teoria d’esami di coscienza e di pubbliche manifestazioni d’umiltà. La Chiesa dà l’esempio; ma altri non la seguono.
«Avvenire» del 1 maggio 2008
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