17 ottobre 2024

La teoria del bellum iustum

di Elio Marinoni
È sorprendente lo sforzo speculativo prodotto dall’intellighenzia romana, soprattutto nell’ultimo secolo della repubblica e in età augustea, per giustificare il processo di espansione dello stato attraverso le guerre di conquista: ne nacquero la teoria della guerra giusta e quella della missione imperiale di Roma, che interpretava la conquista come dominio dei migliori, apportatore di prosperità e di pacificazione alle popolazioni sottomesse. Teorie tutt’altro che superate, se solo pensiamo quante operazioni militari vengano ancor oggi ammantate dal velo del peacekeeping.
L’inarrestabile espansione dello stato romano, dapprima da città stato a potenza italica e poi da questa a impero mondiale, trova una legittimazione nell’elaborazione di due teorie: quella del bellum iustum («guerra giusta») e quella della missione imperiale del popolo romano. La prima, espressa in modo particolarmente chiaro da Cicerone, tende a rappresentare la guerra come un’extrema ratio alla quale ricorrere solo in difesa della propria sicurezza e di quella dei propri alleati, e per porre le condizioni di una pace migliore (De republica, III, 34-35; De officiis, I, 35). Il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire una pace migliore vale anche per la conflittualità all’interno dello stato: «Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra», afferma Cicerone (Filippiche, VII, 16, 9) avendo di mira Antonio. È il principio espresso proverbialmente dal motto Si vis pacem, para bellum, un principio di cui è facile constatare la permanenza in molti stati moderni. La teoria del bellum iustum si estende anche alle modalità di conduzione della guerra: «C’è anche un diritto di guerra, così come in pace» fa dire lo storico augusteo Livio a Furio Camillo (Ab urbe condita, V 27, 6); e al comportamento del vincitore nei confronti dei vinti, che dev’essere ispirato a criteri di giustizia e di moderazione (Cicerone, De officiis, I 35).
L’idea che il popolo romano sia stato chiamato da un’entità superiore a governare i popoli trova una premessa teorica già in Cicerone: «la natura stessa ha assegnato il dominio assoluto ai migliori con grande vantaggio dei deboli» (De republica, III, 37); ma viene compiutamente elaborata dagli autori dell’età augustea. Virgilio fa predire a Giove «un impero senza fine» ai Romani, che saranno «signori del mondo» e con Augusto estenderanno l’impero fino all’Oceano, fino ad assicurare la pacificazione del mondo intero (Eneide, I, vv. 276-294). Il concetto è ribadito nei celeberrimi moniti che l’ombra di Anchise rivolge a Enea: «Tu, o Romano, ricorda di governare con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre l’abitudine alla pace, usare clemenza ai sottomessi e sterminare i superbi» (Eneide, VI, vv. 851-853). Alle virgiliane profezie di Giove e di Anchise fa da pendant in Livio la profezia di Romolo: «Va’, annunzia ai Romani che gli dei vogliono la mia Roma capo del mondo; curino pertanto l’arte militare, e sappiano […] che nessuna umana potenza potrà resistere ai Romani» (Storia di Roma dalla fondazione, I 16).
L’espansione territoriale avvenuta nel corso dei secoli è dunque interpretata come un’opera di pacificazione dei popoli sotto il dominio civilizzatore, giusto e clemente di Roma. Non lo affermano solo i poeti e gli scrittori ma l’imperatore stesso, sia attraverso i rilievi allegorici dell’Ara Pacis Augustae, che raffigurano un mondo prospero e felice pacificato dalle armi romane, sia nell’autobiografia ufficiale, da lui dettata e fatta esporre in pubblico (Res gestae divi Augusti).
Negli anni delle guerre civili succeduti all’assassinio di Cesare, Virgilio e Orazio si erano fatti interpreti dell’ansia di pace e di rinnovamento che attraversava il mondo romano, vagheggiando una nuova età dell’oro a Roma (Ecloga IV di Virgilio) o un’utopica isola dei beati (Epodo 7 di Orazio), ma successivamente questi poeti si fecero portavoce dell’ideologia augustea, che giustificava la guerra sia pure interpretandola come strumento di pacificazione. Un totale ripudio della guerra, soprattutto come scelta di vita individuale, si trova invece nei poeti elegiaci (Tibullo, Properzio, Ovidio), che a essa contrappongono la milizia d’amore (si vedano p. es. Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 53-55; Properzio, Elegie, III, 5, 1-2; Ovidio, Gli amori, III, 2, vv. 49-50).
Il ripudio della guerra si esprime efficacemente nella maledizione all’inventore delle armi che apre l’Elegia I, 10 di Tibullo (e che sarà posta da Ermanno Olmi in epigrafe al suo film Il mestiere delle armi): «Di quale natura fu l’uomo, che per primo produsse le orribili spade? Quanto feroce e veramente di ferro egli fu! Allora sorsero stragi di uomini, sorsero allora battaglie; allora si schiuse una più rapida strada verso la morte funesta» (vv. 1-4). Alla maledizione subentra però, nei versi successivi (7-10), una riflessione sull’avidità come vera causa di tutte le guerre. L’avidità di ricchezza e di potere è additata altresì come l’esclusivo motore della politica romana di espansione nelle denunce dell’imperialismo romano da parte dei capi di popolazioni straniere, di cui la storiografia latina ha lasciato trapelare la voce: dal re del Ponto Mitridate (Sallustio, Storie, IV, 69) al capo gallico Critognato (Cesare, De bello Gallico, VII, 77, 15-16) al calèdone Calgàco, che parla dei Romani in questi termini: «Predatori del mondo intero, […] rubare, massacrare, rapinare, lo chiamano con falsi nomi impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace» (Tacito, Agricola, 30, 4-5). La condanna della guerra è integrata negli elegiaci dall’elogio della pace, associata all’idea di prosperità (p. es. Tibullo, Elegie, I, 10, vv. 45-50). La pace, invocata dai poeti e ufficialmente proclamata dalla stessa propaganda imperiale, non era però un’esigenza largamente condivisa, in particolare da coloro che della guerra campavano. Lo dimostra l’accoglienza riservata dalla truppa, nel 69 d. C., alla predicazione pacifista di Musonio Rufo, un cavaliere romano imbevuto di stoicismo, ritenuta intempestiva da Tacito: «costui, insinuandosi tra le truppe e mettendo in risalto i vantaggi della pace e i pericoli della guerra, andava facendo scuola in mezzo a quella gente d’arme. Fatto […] che ai più dava fastidio, non mancando poi chi avrebbe voluto toglierselo dai piedi e dargliene un sacco, se, piegandosi alle esortazioni dei meno scalmanati e alle minacce degli altri, non l’avesse smessa con quella poco opportuna cattedra di sapienza» (Storie, III 81). Era stato il greco Polibio (II sec. a. C.), a lungo vissuto a Roma, a capire che l’impero romano aveva ormai, nei 53 anni di conquiste territoriali dal 221 al 168 a. C., globalizzato il mondo: «Anteriormente […] le vicende delle varie parti del mondo erano per così dire isolate le une dalle altre […]. Dopo questi avvenimenti invece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario […] e i fatti sembrano tutti coordinarsi a un unico fine» (Storie, I, 1, 1-3).
Allo stesso modo, toccherà a un greco profondamente integrato, l’intellettuale Elio Aristìde, celebrare, alla fine del II sec. d. C., la pax Romana, riconoscendo che «per essere tranquilli basta essere Romani o piuttosto sudditi di Roma» e che i Romani «misurando l’ecumene, aggiogando con ponti d’ogni sorta i fiumi, tagliando i monti per aprire la strada ai carri, riempiendo il deserto di rifornimenti» hanno «messo in tutto il mondo ordine e ricchezza» (Elogio a Roma, 100-101).