20 ottobre 2024

Angelica contesa da tanti uomini sceglie (e insegna) il vero amore

La straordinaria attualità della vicenda sentimentale raccontata nell’Orlando furioso: la protagonista femminile è una donna emancipata che non si fa possedere, ma fugge e si fa beffe dei maschi
di Marco Erba
Nell’Orlando furioso, capolavoro del poeta rinascimentale Ludovico Ariosto, la figura di Angelica si impone subito all’attenzione. Angelica, principessa del Catai (la Cina), giunge in Occidente insieme al paladino cristiano Orlando, uno dei guerrieri più valorosi dell’esercito di Carlo Magno. L’opera è infatti ambientata secoli prima, all’epoca degli sconti tra cristiani e saraceni spesso enfatizzati dalla letteratura. Ma si sa, la narrazione dello scontro di civiltà, sovente finalizzata a consolidare il potere politico, funziona in tutte le epoche.
Per Ariosto però questo scontro di civiltà è solo lo sfondo per narrare meravigliose avventure, con arguta ironia. Non c’è alcun realismo storico nel suo racconto: si parla, ad esempio, dei saraceni che assediano Parigi, un falso così clamoroso da essere divertente.
Angelica, dunque, giunge al campo cristiano. I suoi modi, la sua bellezza orientale, il suo fascino soggiogano moltissimi cavalieri, che dimenticano il re e la guerra santa e desiderano solo conquistare il cuore della principessa. Per Angelica nasce una contesa tra Orlando e suo cugino Rinaldo, altro guerriero valorosissimo. Re Carlo ne approfitta: toglie Angelica a Orlando, la assegna al vecchio e saggio Namo, duca di Baviera, e promette la donna a quello dei due cugini che meglio si comporterà nell’imminente battaglia con i saraceni.
Finora Angelica è solo un simulacro, un oggetto di desiderio. È una donna vista come un trofeo da possedere, di cui si guarda solo l’attraente involucro. Angelica è il desiderio inconfessabile di ciascuno: una bellezza irraggiungibile, e che per questo accende ancor di più di passione. Un seducente corpo senz’anima. La descrizione di Ariosto potrebbe anche oggi interrogarci su come vengono presentati i corpi, sia femminili che maschili, sui social, nella pubblicità, a livello mediatico. Persone o oggetti? Storie o icone? Sostanza o apparenza?
Ariosto vive in una società maschilista. L’uomo agisce, decide, governa. La donna gli appartiene: di essa può disporre.
Ma l’autore del Furioso è un genio e spariglia le carte. Angelica non si fa possedere, sfugge. Non solo, si fa beffe di ogni maschio alfa che pensa di poterla dominare.
I saraceni sconfiggono i cristiani. Angelica approfitta del caos, salta su un cavallo e si lancia al galoppo nel bosco. Parte così un infinito inseguimento, senza esito per i paladini.
Angelica a un certo punto si nasconde in un cespuglio, presso al quale giunge Sacripante, re di Circassia, saraceno. Anch’egli è innamorato di lei. Prorompe in un lamento d’amore, senza sapere che Angelica è proprio lì, al suo fianco, e lo ascolta. La principessa decide così di uscire allo scoperto per farsi aiutare. Sacripante, a questo punto, si rivela per ciò che è: uno smargiasso, che pensa di essere in grado di usare gli altri come vuole, grazie al suo potere e alla sua stazza. Sacripante paragona la verginità di Angelica a una rosa e si dice certo di poter cogliere questo fiore. Il guerriero usa parole che alla nostra sensibilità suonano brutali, violente, agghiaccianti:
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno.
«Mi prenderò Angelica» dice Sacripante. «A lei piacerà; piace a tutte le donne, anche se a volte fingono di no. Ma io non mi fermerò di certo, neanche se mi respinge, tanto è per finta».
Parole atroci e, purtroppo, ancora attualissime: la volontà di Angelica non conta, in consenso non esiste: c’è solo il brutale desiderio maschile. Ariosto si fa beffe di Sacripante. Il rozzo re di Circassia ha appena finito di parlare ed ecco che spunta un cavaliere vestito di bianco. Il nuovo venuto sfida Sacripante a duello, lo sconfigge in un lampo e lo lascia a terra umiliato. Pochi versi dopo si scopre chi è il misterioso cavaliere: è Bradamante, una fortissima guerriera cristiana. Una donna!
Il maschilismo brutale di Sacripante viene dunque umiliato da una donna libera, controcorrente, che invece di restare nel ruolo sociale che la società dell’epoca le vorrebbe imporre, decide di combattere e di sfidare gli uomini alla pari, sconfiggendoli. Un’icona affascinante, che anticipa di secoli le lotte per l’emancipazione femminile.
Sacripante, ferito nell’orgoglio, vedrà sfuggirsi anche Angelica poco dopo, quando a lui si contrapporrà in un nuovo scontro lo stesso Rinaldo, in precedenza citato. Tutti si battono per possedere Angelica e lei fugge sempre, ricordandoci che l’amore è dono reciproco, non è mai cattura e conquista.
Dopo mille peripezie, anche Angelica troverà l’amore. E accadrà non con un guerriero oberato di trofei, non con un tronfio cavaliere pieno di sé, non con qualcuno che indossa una impenetrabile armatura. L’amore non tollera corazze, non può riguardare gli egolatrici incapaci di sentire e vedere l’altro.
L’amore è dono, appunto. L’amore è tenerezza, è compassione, è cura. Per questo i poeti spesso paragonano l’amore a una ferita: è un modo iperbolico per dire che amare significa sentire l’altro dentro, provare la sua gioia, ma anche essere disposti a condividere la sua sofferenza.
L’amore vero di Angelica nasce dalle ferite. Ferite che Medoro, un oscuro fante saraceno, ha subìto perché sorpreso dai cristiani mentre era impegnato nella nobile impresa di dare sepoltura al corpo del suo re Dardinello, caduto in battaglia e dimenticato. Medoro è una persona nobile d’animo e generosa: l’amore si radica nella parte più bella di noi e la risveglia. L’amore rifiuta le dinamiche di potere.
Angelica si imbatte in lui, quasi morto; lo cura, grazie alle tecniche mediche che ha imparato in Oriente. E lì accade un miracolo:
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte; insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.
Angelica, a poco a poco, si scopre innamorata di Medoro. Prendendosi cura di lui più che di sé stessa, donandogli ciò che ha, scopre un amore ben diverso da quello preteso dagli arroganti paladini. Un amore autentico: Assai più larga piaga e più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l’altrui che ’l proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
ch’a risanar chi lei fere e tormenta.
Angelica «più cura l’altrui che il proprio male». Amare non è dimenticarsi di sé stessi, non è umiliarsi: amare è però mettere il bene dell’altro al primo posto. Se ciò avviene reciprocamente, il cammino può iniziare.
È Angelica a rivelare il suo amore a Medoro. Anche questo passaggio è contro ogni regola dell’epoca, che vuole che sia l’uomo a chiedere in sposa la donna. Angelica invece fa il primo passo, è contraccambiata: i due si sposano nell’umile casa del pastore che li ha accolti. Un matrimonio antitradizionale, senza riti né banchetti. Un matrimonio semplice, che punta all’essenza. L’amore rende liberi, non si fa rinchiudere in schemi. L’amore apre avventure nuove, non è una storia già scritta.
Angelica e Medoro partono insieme. Orlando, il grande paladino che in virtù del suo valore e della sua smisurata forza si credeva in diritto di possedere la principessa del Catai, giunge nei pressi della casa del pastore, nei luoghi in cui è sbocciato l’amore tra i due. Quando scopre cosa è accaduto, si dispera, si strappa la corazza, distrugge tutto ciò che incontra, ormai folle.
Rivedrà Angelica tempo dopo, emergendo nudo dalla sabbia della spiaggia di Tarragona: la principessa sta per caso passando di lì con Medoro. Orlando la insegue, cerca di catturarla; lei gli sfugge per l’ennesima volta. Ma la cosa terribile è che Orlando, ormai pazzo, non la riconosce nemmeno:
Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:
così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.
Il suo inseguimento è bestiale. Orlando vede un “delicato volto” e lo desidera. Non vede la persona, non la riconosce, perché la passione egoistica e il desiderio di possesso nulla hanno a che fare con l’amore. Lo stalker non vede l’altro, non lo riconosce. Vede solo il suo desiderio, vede solo sé stesso.
«Avvenire» di lunedì 14 ottobre 2024

17 ottobre 2024

La teoria del bellum iustum

di Elio Marinoni
È sorprendente lo sforzo speculativo prodotto dall’intellighenzia romana, soprattutto nell’ultimo secolo della repubblica e in età augustea, per giustificare il processo di espansione dello stato attraverso le guerre di conquista: ne nacquero la teoria della guerra giusta e quella della missione imperiale di Roma, che interpretava la conquista come dominio dei migliori, apportatore di prosperità e di pacificazione alle popolazioni sottomesse. Teorie tutt’altro che superate, se solo pensiamo quante operazioni militari vengano ancor oggi ammantate dal velo del peacekeeping.
L’inarrestabile espansione dello stato romano, dapprima da città stato a potenza italica e poi da questa a impero mondiale, trova una legittimazione nell’elaborazione di due teorie: quella del bellum iustum («guerra giusta») e quella della missione imperiale del popolo romano. La prima, espressa in modo particolarmente chiaro da Cicerone, tende a rappresentare la guerra come un’extrema ratio alla quale ricorrere solo in difesa della propria sicurezza e di quella dei propri alleati, e per porre le condizioni di una pace migliore (De republica, III, 34-35; De officiis, I, 35). Il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire una pace migliore vale anche per la conflittualità all’interno dello stato: «Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra», afferma Cicerone (Filippiche, VII, 16, 9) avendo di mira Antonio. È il principio espresso proverbialmente dal motto Si vis pacem, para bellum, un principio di cui è facile constatare la permanenza in molti stati moderni. La teoria del bellum iustum si estende anche alle modalità di conduzione della guerra: «C’è anche un diritto di guerra, così come in pace» fa dire lo storico augusteo Livio a Furio Camillo (Ab urbe condita, V 27, 6); e al comportamento del vincitore nei confronti dei vinti, che dev’essere ispirato a criteri di giustizia e di moderazione (Cicerone, De officiis, I 35).
L’idea che il popolo romano sia stato chiamato da un’entità superiore a governare i popoli trova una premessa teorica già in Cicerone: «la natura stessa ha assegnato il dominio assoluto ai migliori con grande vantaggio dei deboli» (De republica, III, 37); ma viene compiutamente elaborata dagli autori dell’età augustea. Virgilio fa predire a Giove «un impero senza fine» ai Romani, che saranno «signori del mondo» e con Augusto estenderanno l’impero fino all’Oceano, fino ad assicurare la pacificazione del mondo intero (Eneide, I, vv. 276-294). Il concetto è ribadito nei celeberrimi moniti che l’ombra di Anchise rivolge a Enea: «Tu, o Romano, ricorda di governare con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre l’abitudine alla pace, usare clemenza ai sottomessi e sterminare i superbi» (Eneide, VI, vv. 851-853). Alle virgiliane profezie di Giove e di Anchise fa da pendant in Livio la profezia di Romolo: «Va’, annunzia ai Romani che gli dei vogliono la mia Roma capo del mondo; curino pertanto l’arte militare, e sappiano […] che nessuna umana potenza potrà resistere ai Romani» (Storia di Roma dalla fondazione, I 16).
L’espansione territoriale avvenuta nel corso dei secoli è dunque interpretata come un’opera di pacificazione dei popoli sotto il dominio civilizzatore, giusto e clemente di Roma. Non lo affermano solo i poeti e gli scrittori ma l’imperatore stesso, sia attraverso i rilievi allegorici dell’Ara Pacis Augustae, che raffigurano un mondo prospero e felice pacificato dalle armi romane, sia nell’autobiografia ufficiale, da lui dettata e fatta esporre in pubblico (Res gestae divi Augusti).
Negli anni delle guerre civili succeduti all’assassinio di Cesare, Virgilio e Orazio si erano fatti interpreti dell’ansia di pace e di rinnovamento che attraversava il mondo romano, vagheggiando una nuova età dell’oro a Roma (Ecloga IV di Virgilio) o un’utopica isola dei beati (Epodo 7 di Orazio), ma successivamente questi poeti si fecero portavoce dell’ideologia augustea, che giustificava la guerra sia pure interpretandola come strumento di pacificazione. Un totale ripudio della guerra, soprattutto come scelta di vita individuale, si trova invece nei poeti elegiaci (Tibullo, Properzio, Ovidio), che a essa contrappongono la milizia d’amore (si vedano p. es. Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 53-55; Properzio, Elegie, III, 5, 1-2; Ovidio, Gli amori, III, 2, vv. 49-50).
Il ripudio della guerra si esprime efficacemente nella maledizione all’inventore delle armi che apre l’Elegia I, 10 di Tibullo (e che sarà posta da Ermanno Olmi in epigrafe al suo film Il mestiere delle armi): «Di quale natura fu l’uomo, che per primo produsse le orribili spade? Quanto feroce e veramente di ferro egli fu! Allora sorsero stragi di uomini, sorsero allora battaglie; allora si schiuse una più rapida strada verso la morte funesta» (vv. 1-4). Alla maledizione subentra però, nei versi successivi (7-10), una riflessione sull’avidità come vera causa di tutte le guerre. L’avidità di ricchezza e di potere è additata altresì come l’esclusivo motore della politica romana di espansione nelle denunce dell’imperialismo romano da parte dei capi di popolazioni straniere, di cui la storiografia latina ha lasciato trapelare la voce: dal re del Ponto Mitridate (Sallustio, Storie, IV, 69) al capo gallico Critognato (Cesare, De bello Gallico, VII, 77, 15-16) al calèdone Calgàco, che parla dei Romani in questi termini: «Predatori del mondo intero, […] rubare, massacrare, rapinare, lo chiamano con falsi nomi impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace» (Tacito, Agricola, 30, 4-5). La condanna della guerra è integrata negli elegiaci dall’elogio della pace, associata all’idea di prosperità (p. es. Tibullo, Elegie, I, 10, vv. 45-50). La pace, invocata dai poeti e ufficialmente proclamata dalla stessa propaganda imperiale, non era però un’esigenza largamente condivisa, in particolare da coloro che della guerra campavano. Lo dimostra l’accoglienza riservata dalla truppa, nel 69 d. C., alla predicazione pacifista di Musonio Rufo, un cavaliere romano imbevuto di stoicismo, ritenuta intempestiva da Tacito: «costui, insinuandosi tra le truppe e mettendo in risalto i vantaggi della pace e i pericoli della guerra, andava facendo scuola in mezzo a quella gente d’arme. Fatto […] che ai più dava fastidio, non mancando poi chi avrebbe voluto toglierselo dai piedi e dargliene un sacco, se, piegandosi alle esortazioni dei meno scalmanati e alle minacce degli altri, non l’avesse smessa con quella poco opportuna cattedra di sapienza» (Storie, III 81). Era stato il greco Polibio (II sec. a. C.), a lungo vissuto a Roma, a capire che l’impero romano aveva ormai, nei 53 anni di conquiste territoriali dal 221 al 168 a. C., globalizzato il mondo: «Anteriormente […] le vicende delle varie parti del mondo erano per così dire isolate le une dalle altre […]. Dopo questi avvenimenti invece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario […] e i fatti sembrano tutti coordinarsi a un unico fine» (Storie, I, 1, 1-3).
Allo stesso modo, toccherà a un greco profondamente integrato, l’intellettuale Elio Aristìde, celebrare, alla fine del II sec. d. C., la pax Romana, riconoscendo che «per essere tranquilli basta essere Romani o piuttosto sudditi di Roma» e che i Romani «misurando l’ecumene, aggiogando con ponti d’ogni sorta i fiumi, tagliando i monti per aprire la strada ai carri, riempiendo il deserto di rifornimenti» hanno «messo in tutto il mondo ordine e ricchezza» (Elogio a Roma, 100-101).