di Alessandro D’Avenia
Sul finire del 1808 a Vienna è caduta così tanta neve che, alla sera del 22 dicembre, la città sembra scomparsa in un silenzio che costringe a prepararsi a ciò che sta per accadere. Nel Theater an der Wien si gela, ma al concerto natalizio non è rimasto un posto libero. Al pianoforte siede il maestro in persona: Ludwig van Beethoven. Benché abbia solo 38 anni sarà l’ultima esibizione pubblica: la sordità che lo ha colpito dieci anni prima peggiora rapidamente. Vuole suonare da solista il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore perché la posta in gioco è la sopravvivenza. Infatti è proprio in queste note che ha nascosto il suo doloroso segreto, soprattutto nel secondo movimento: andante con moto. Il brano è ispirato — dicono gli studiosi — al mito di Euridice: un dialogo tra Orfeo, il pianoforte, e gli dei inferi, l’orchestra, per ottenere la restituzione dell’amata moglie, morta a causa del morso di un serpente proprio durante la festa di nozze. Il movimento comincia con le battute fatali dell’orchestra, che però, nota dopo nota, si lascia conquistare dalla penetrante malinconia del solista fino a sposarne, inaspettatamente in questa forma musicale, il tema: la morte si rivela più debole dell’amore. Beethoven mette in musica la ferita sempre aperta tra la promessa di felicità a cui ci sentiamo chiamati e la sua inesorabile delusione, trasforma in note il nostro desiderio più profondo: chi e cosa amiamo non deve finire.
Le note del pianoforte modulano il canto delle cose (che non dovrebbero mai andar) perdute: una madre, un padre, un fratello, una sorella, un marito, una moglie, un figlio, una figlia, un amico, un’amica, l’infanzia, la giovinezza, l’amore, i sogni, la gioia, la bellezza, l’intelligenza, la memoria, l’anima, il corpo... Orfeo canta la promessa di felicità della vita e la sua fine improvvisa e inaccettabile, per questo è sceso nel labirinto della morte: per riavere la moglie amata a qualsiasi costo. Come si può far risorgere ciò che è morto, far rinascere ciò che è senza vita? Beethoven cerca la risposta sui suoi 88 tasti: alla fine del movimento la preghiera di Orfeo piega il granitico e funesto no dell’orchestra, Euridice viene restituita al suo amato. Ma mentre nel mito, Orfeo, volgendosi indietro, la perderà nel viaggio di risalita, Beethoven inventa un altro finale: salvifico. Il Concerto n.4 si risolve infatti in un gioioso terzo movimento, un rondò vivace con cui il maestro ci porta dentro la festa della vita che non finisce, proprio lui che sta diventando sordo, all’insaputa della folla estasiata mentre lo ascolta. Non sta solo suonando un pezzo geniale, sta affrontando una cruenta battaglia che solo lui conosce e può combattere: riscrivere il destino crudele della sordità, trasformare il dolore in bellezza, convertire la morte in vita nuova. E proprio così si salvò.
Solo pochi anni prima di quella serata, infatti, la disperazione lo aveva portato vicino al suicidio, come aveva scritto nella famosa lettera-testamento ai fratelli: «Non mi era ancora possibile dire: “Parlate più forte, gridate, perché io sono sordo!”. Ah, come mi sarebbe possibile rivelare proprio la debolezza di un senso che io dovrei possedere più perfetto di ogni altro, un senso che in passato ebbe una perfezione che certamente poche persone del mio mestiere hanno mai avuto? Tali esperienze mi condussero quasi alla disperazione. Poco mancò che io mettessi fine alla mia vita. Solo l’arte mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile dover lasciare il mondo prima di aver compiuto tutto quello per cui sentivo di essere stato creato». Il maestro si salva perché sa di avere un compito irrinunciabile: si aggrappa al piano fino alla fine dei suoi giorni, a 57 anni, del tutto sordo negli ultimi dieci, e non smette di comporre, con gambe e orecchio attaccati allo strumento per sentirne almeno le vibrazioni, opere che aprono alla musica del futuro. Quello per cui sa «di essere stato creato», fare bellezza, è vita anche se lui non può goderne. In questo 2019 al tramonto, trovate mezz’ora di silenzio — se ne esiste ancora uno così lungo — per ascoltare il Concerto n. 4 e in particolare i cinque minuti del secondo movimento nell’interpretazione al piano di Pollini o di Barenboim. Mentre lo fate, sostituite il solito «anno nuovo, vita nuova» con un beethoveniano «anno nuovo, bellezza nuova», quella che possiamo fare sempre, seppur minima, lì dove e come siamo, anche se abbiamo perso pezzi di vita o ci siamo persi nella vita. «Nel campo che mi è stato designato voglio distribuire ai miei fratelli i doni che ho ricevuto da Dio. Senza egoismo»: queste parole, che il maestro lesse più volte, annotò e sottolineò in uno dei suoi libri preferiti (Osservazioni sulle opere di Dio di C. C. Sturm), voglio siano d’augurio a ciascuno di voi, cari lettori, per il 2020.
Le note del pianoforte modulano il canto delle cose (che non dovrebbero mai andar) perdute: una madre, un padre, un fratello, una sorella, un marito, una moglie, un figlio, una figlia, un amico, un’amica, l’infanzia, la giovinezza, l’amore, i sogni, la gioia, la bellezza, l’intelligenza, la memoria, l’anima, il corpo... Orfeo canta la promessa di felicità della vita e la sua fine improvvisa e inaccettabile, per questo è sceso nel labirinto della morte: per riavere la moglie amata a qualsiasi costo. Come si può far risorgere ciò che è morto, far rinascere ciò che è senza vita? Beethoven cerca la risposta sui suoi 88 tasti: alla fine del movimento la preghiera di Orfeo piega il granitico e funesto no dell’orchestra, Euridice viene restituita al suo amato. Ma mentre nel mito, Orfeo, volgendosi indietro, la perderà nel viaggio di risalita, Beethoven inventa un altro finale: salvifico. Il Concerto n.4 si risolve infatti in un gioioso terzo movimento, un rondò vivace con cui il maestro ci porta dentro la festa della vita che non finisce, proprio lui che sta diventando sordo, all’insaputa della folla estasiata mentre lo ascolta. Non sta solo suonando un pezzo geniale, sta affrontando una cruenta battaglia che solo lui conosce e può combattere: riscrivere il destino crudele della sordità, trasformare il dolore in bellezza, convertire la morte in vita nuova. E proprio così si salvò.
Solo pochi anni prima di quella serata, infatti, la disperazione lo aveva portato vicino al suicidio, come aveva scritto nella famosa lettera-testamento ai fratelli: «Non mi era ancora possibile dire: “Parlate più forte, gridate, perché io sono sordo!”. Ah, come mi sarebbe possibile rivelare proprio la debolezza di un senso che io dovrei possedere più perfetto di ogni altro, un senso che in passato ebbe una perfezione che certamente poche persone del mio mestiere hanno mai avuto? Tali esperienze mi condussero quasi alla disperazione. Poco mancò che io mettessi fine alla mia vita. Solo l’arte mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile dover lasciare il mondo prima di aver compiuto tutto quello per cui sentivo di essere stato creato». Il maestro si salva perché sa di avere un compito irrinunciabile: si aggrappa al piano fino alla fine dei suoi giorni, a 57 anni, del tutto sordo negli ultimi dieci, e non smette di comporre, con gambe e orecchio attaccati allo strumento per sentirne almeno le vibrazioni, opere che aprono alla musica del futuro. Quello per cui sa «di essere stato creato», fare bellezza, è vita anche se lui non può goderne. In questo 2019 al tramonto, trovate mezz’ora di silenzio — se ne esiste ancora uno così lungo — per ascoltare il Concerto n. 4 e in particolare i cinque minuti del secondo movimento nell’interpretazione al piano di Pollini o di Barenboim. Mentre lo fate, sostituite il solito «anno nuovo, vita nuova» con un beethoveniano «anno nuovo, bellezza nuova», quella che possiamo fare sempre, seppur minima, lì dove e come siamo, anche se abbiamo perso pezzi di vita o ci siamo persi nella vita. «Nel campo che mi è stato designato voglio distribuire ai miei fratelli i doni che ho ricevuto da Dio. Senza egoismo»: queste parole, che il maestro lesse più volte, annotò e sottolineò in uno dei suoi libri preferiti (Osservazioni sulle opere di Dio di C. C. Sturm), voglio siano d’augurio a ciascuno di voi, cari lettori, per il 2020.
«Corriere della sera» del 30 dicembre 2019