Editoriali & altro ...
04 dicembre 2025
Il genio e le manie di Alessandro Manzoni
02 dicembre 2025
La mistica che scrisse la sua auotobiografia. «Liberaci, o Dio, dai santi con la faccia triste»
LE DUE FUGHE
La sua vivacità si era rivelata fin da bambina, quando Teresa già sapeva che la famiglia l’aveva destinata al convento, proprio lei che aveva la testa piena di avventure eroiche ispirate ai libri di cavalleria che leggeva con il fratello più piccolo. Così con il fratello scappò di casa, per vivere qualche avventura. Lo racconta lei stessa, nella sua bellissima autobiografia, uno dei primi libri in lingua spagnola e prima autobiografia di una donna. Il fratello poi qualche avventura la visse: partì per le colonie americane, dove trovò la morte per mano degli indios. A Teresa, però, la vita ha riservato non solo avventure concrete — come i lunghi e faticosi viaggi attraverso la penisola iberica per fondare o riformare monasteri carmelitani — ma anche avventure spirituali decisive che hanno cambiato la storia della Chiesa.
Crisi spirituali, insieme a gravi problemi di salute, ritardarono il suo ingresso in monastero, avvenuto quando aveva già ventinove anni. Ci volle però una seconda conversione, anch’essa preceduta da una grave malattia, per un vero e profondo cambiamento che la portò non solo fino alle esperienze mistiche, ma anche a progettare un monastero fedele alla rigida e austera regola originaria. Molti si opposero a questo suo progetto, a cominciare dalla superiora del monastero dell’Incarnazione dov’era entrata, tanto che preparò una fuga con alcune consorelle, di nascosto, per trasferirsi in un piccolo monastero dedicato a san Giuseppe situato in una casa di Ávila che aveva comprato.
L’ACCUSA DI “POSSESSIONE”
Da quel momento la sua vita fu tutta una lotta contro le gerarchie ecclesiastiche che diffidavano del suo progetto di riforma — quando morì era ancora sotto inchiesta dell’Inquisizione — ma anche contro religiosi e uomini potenti che temevano le sue capacità organizzative e la sua serietà nelle riforme. Teresa ha lottato per portare a termine le tante imprese iniziate e interrotte, e per resistere alle fatiche immani dei viaggi attraverso la Spagna e alle calunnie, in un tempo in cui la Chiesa sapeva di avere bisogno di riforma, ma era anche irrigidita e sospettosa nei confronti di ogni novità che poteva nascondere l’eresia.
Teresa, come quasi tutte le mistiche, è stata accusata di possessione diabolica, ma poi ha sedotto con la sua passione e con la sua sicurezza anche chi le era contrario, aiutata da alcuni religiosi e in particolare da Juan de la Cruz, il grande mistico che detiene con lei la vetta del misticismo spagnolo.
I continui viaggi, le molte lettere indirizzate alle autorità e la fatica continua di stringere alleanze e coltivare relazioni — che erano necessarie per realizzare i suoi progetti — non le impediscono di pregare, di vivere straordinarie esperienze mistiche, e soprattutto di scrivere. Teresa è una grande scrittrice, che sa passare nello stesso testo dal registro ironico o avventuroso a quello mistico, coinvolgendo profondamente il lettore. I suoi libri più interessanti sono La vita e il Libro delle fondazioni, dove racconta ostacoli e successi per fondare quindici monasteri, un percorso interrotto dalla morte a sessantasette anni, entrambi scritti autobiografici in tempi in cui non si pensava che una donna avesse qualcosa da raccontare.
Gli altri libri sono insegnamenti sulla via mistica per le sue consorelle: Il cammino di perfezione e Il castello interiore. Qui la protagonista è l’anima, cioè l’essere umano che può essere anche di sesso femminile e che vive l’avventura spirituale dell’incontro con Dio. Un incontro che si raggiunge attraverso l’orazione ma che è anche una via di conoscenza: «Io non ho mai capito un granché fino a quando il Signore non me lo ha fatto comprendere in maniera sperimentale». Nei secoli successivi tante monache hanno cercato di seguire il suo esempio, non molto benviste dalle gerarchie che diffidavano di questa via libera per arrivare a Dio senza la mediazione del clero.
Interessantissime sono anche le lettere, dalle quali emerge la sua acuta ironia e dove mette nero su bianco quello che sa di non poter scrivere nei libri: «Liberaci, o Signore, dalle sciocche devozioni dei santi con la faccia triste». E nelle quali scrive che i vangeli sono pieni di donne, e con ruoli importanti. Non ha avuto bisogno del femminismo per accorgersene.
FRANCO E LA MANO DESTRA
La sua fama di donna saggia e potente la portò a svolgere un ruolo decisivo nella disputa che sconvolse l’ordine carmelitano e la Chiesa spagnola, divisa fra scalzi e calzati, cioè fra coloro che volevano la riforma da lei propugnata e coloro che invece insistevano per mantenere le più indulgenti regole tradizionali. La disputa provocò conflitti anche gravi, fino a quando la mediazione di Roma permise di arrivare alla soluzione auspicata Teresa: cioè la separazione dei due rami, che sanciva in questo modo l’autonomia degli scalzi.
Dopo la rapida canonizzazione nel 1622, quarant’anni dopo la morte, il suo corpo fu spezzettato, come si usava allora per i santi, e diviso fra i vari monasteri da lei fondati. Ma la sua mano destra ha avuto nell’età contemporanea un inaspettato destino politico: il generalissimo Francisco Franco la sottrasse al monastero che la custodiva per tenerla presso di sé fino alla morte, nel 1975, come prova della sua devozione per Teresa, che chiamava santa de la raza.
Ma Franco morì poco prima di una clamorosa scoperta: la famiglia paterna di Teresa era di origine ebraica, e si era convertita dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Il nonno di Teresa era entrato nella cattedrale di Toledo — città da cui provenivano — con in testa il sambenito, cioè il cappellino che li segnalava come ebrei e li esponeva al dileggio della folla prima della conversione. Il trasferimento della famiglia ad Ávila evidentemente era avvenuto per cancellare la memoria di questa umiliazione. Il generalissimo non avrebbe apprezzato. Noi invece possiamo accogliere con gioia questa prova ulteriore dei mille legami fra popolo ebraico e mondo cristiano, testimoniati da una delle donne più importanti della storia della Chiesa.
31 ottobre 2025
Francesco, voce che chiama anche nel nostro deserto
Staccato da un’ora all’altra, separato, avviato al vagabondaggio della più lunga marcia, spiato da predoni. Non è un pellegrinaggio il cammino a zigzag verso la libertà che non è vacanza ma sistema di leggi fondato su uguaglianze.
Non è metafora il deserto, non ha un doppio fondo di significato. È spazio spalancato senza sapere dove. È labirinto crollato. I Greci ebbero l’edificio architettato da Dedalo, luogo di giravolte, di biforcazioni, disorientamenti a confondere l’uscita.
Gli scippati dall’egitto ebbero i bivacchi dentro il labirinto a cielo aperto, con le razioni di manna e la disciplina incisa su tavole di pietra. S’inoltrarono seguendo la segnaletica celeste. Di notte una colonna di fuoco marciava innanzi a loro. Di giorno una nuvola lunga e stretta a forma di colonna stendeva in terra un’ombra come un tappeto srotolato. Non è mare il deserto, da scrutare le stelle per la rotta. È terra sbriciolata dal vento e dalla siccità, dune da risalire e per approdo un’oasi.
La divinità si manifesta negli isolamenti. La sua voce esplode nell’udito dei destinatari sbigottiti, sillabe solo da loro percepite.
È bene che di mestiere siano pastori, avvezzi a solitudini, orecchie tese ai minimi segnali d’insidia per le greggi.
È andata così con Francesco. Dal tumulto delle armi, delle giostre, delle mischie all’isolamento di prigioniero. Improvvisa la cesura tra il chiasso di prima e il raccoglimento forzato di dopo. Ne esce rigirato come un guanto. Si spoglia, si disereda e inventa la povertà volontaria. Sceglie di essere un principiante di tutto. Si spalanca il deserto che non consente ritorni. Dietro di lui il tempo precedente si è chiuso a serratura come il Mar Rosso dopo il guado asciutto.
Non è rivolta, slancio che presto si esaurisce. È conversione, il più profondo rivolgimento personale. Comporta l’abiura di ogni momento della vita precedente, come per Paolo di Tarso diretto a Damasco. Cade, si acceca, resta in un’anticamera tra chi è stato finora e chi dovrà diventare: da persecutore a protettore, da spada a elemosina.
Enorme il compito di chi s’ispira a Cristo, all’impossibile imitazione.
Eppure: «E sarete santi poiché santo sono io» dice la divinità (Levitico 11,44). Non è un oplà, è il viaggio. Dentro quel futuro «e sarete» c’è la pista da battere di ognuno in un deserto.
Francesco stabilisce la sua regola, una tavola grezza, per abbigliamento un sacco, la dimora scarna. Più della dottrina conta l’esempio. E se intorno ci sono predatori come quelli di Amalek nel Sinai, niente schiere in battaglia ma il dono a loro del pane, per disarmare a mani aperte non a mani armate. Nutrire il lupo che spaventa Gubbio.
La nuova disciplina non si sovrappone al potere delle autorità, né vuole affiancarlo. Se ne vuole privare, rinunciare a qualunque forma di potere. Prima che i filosofi parlassero della volontà di potenza, Francesco praticò la volontà d’impotenza, secessione interiore da qualunque esercizio di autorità.
Perfino la reputazione di santo è una botola pronta sotto il piedistallo. Meglio essere disprezzato in pubblico per disintossicarsi dall’elogio.
Occasione di questo libro e di questa nota è la ricorrenza ultrasecolare dell’anno di morte.
Nel frattempo il corso delle vicende umane non ha intaccato nessuna delle sue parole scritte e delle opere aggiunte. Nel pendolo delle epoche avvengono fasi regressive, favorevoli a spaventapasseri e illusionisti. Dilaga la credulità al posto del credo. A chi soccorre un naufrago è sequestrata la barca.
E se tornasse Francesco? propone il titolo del libro. Ne ho visto tornare uno sul sedile di Pietro. Il suo primo esempio è stato un pellegrinaggio a Lampedusa. In questa tale e quale epoca è più sentita la necessità di chi pratica esempi di fraternità e di rettitudine.
Francesco è la voce di chi esclama: «Nel deserto battete pista di Dio».
Un viaggio reale e spirituale nel cuore del messaggio francescano: in vista dell’ottavo centenario, nel 2026, della morte del Santo di Assisi, Enzo Fortunato, giornalista, saggista e direttore della Comunicazione della Basilica Papale di San Pietro, torna in libreria con E se tornasse Francesco? (San Paolo). Il libro arriva dopo E se tornasse Gesù?, successo da oltre 15 mila copie uscito nel 2021 per lo stesso editore. Frate minore conventuale, padre Fortunato ha diretto la Sala Stampa del sacro Convento di Assisi. Nominato da papa Francesco, presiede il Pontificio Comitato per la Giornata mondiale dei bambini. È direttore editoriale della rivista «Piazza San Pietro».
29 ottobre 2025
Più poveri, (anche) di relazioni
Le situazioni toccano la quotidianità di tanti. Chi si trova in emergenza per un problema sanitario, un lutto o la perdita del lavoro non sa a chi rivolgersi, come affrontarlo, come gestire le ansie generate e superarlo. Non avere relazioni su cui poter contare cronicizza i problemi e spinge a una sorta di ritiro sociale: ci chiudiamo in casa, si esce poco, non ci rivolgiamo a servizi e non condividiamo ciò che viviamo, amplificando la sensazione che quel problema sia insormontabile. «Invece, nel dialogo e nel confronto con gli altri - spiega Maino - non solo si possono trovare soluzioni, ma rendersi conto che altri sperimentano situazioni analoghe. E questo dà sollievo».
Un tempo i «legami forti» familiari e non solo - erano visti con sospetto, perché fautori di forme di nepotismo o familismo amorale, restringendo il desiderio di autonomia. Ma oggi possono produrre senso di appartenenza. «Sono anche quelli da cui ci si aspetta maggiormente solidarietà e sostegno in caso di bisogno. Per questo - sostiene la sociologa Chiara Saraceno, che ne ha scritto per Nessi - giocano un ruolo importante, anche se con diversa intensità, lungo tutto l’arco della vita. Possono essere più o meno numerosi e soprattutto più o meno differenziati per tipo di legame, che siano i familiari più prossimi o gli amici più vicini. La povertà di legami forti, quindi, non riguarda solo la mancanza di relazioni familiari significative, il sentirsi soli, incompresi, non amati in famiglia. Riguarda anche l’assenza di persone su cui si può contare anche fuori e talvolta in alternativa della famiglia».
Le trasformazioni sociali hanno ridotto la cerchia prossima familiare e parentale dei legami sociali, ma sono stati messi in discussione anche quelli di vicinato, amicali e i rapporti nelle comunità in cui viviamo. Tutto questo avrà un impatto anche dal punto di vista della capacità di reagire ai cambiamenti che ognuno ha nella vita: quando va tutto bene i problemi sono relativi ma, in un sistema in cui il welfare è sempre più fragile, non poter contare sul sostegno degli altri è un’ulteriore grande sfida.
Da questo punto di vista il futuro non è roseo: Istat ha stimato che nel 2043 gli anziani soli raggiungeranno 6,2 milioni, il 57,7 per cento dei 10,7 milioni di persone che si prevede vivranno sole. La solitudine e la povertà relazionale possono essere affrontate. «Si vive più a lungo - commenta ancora Maino - ed è una bella cosa, ma emergono nuove fragilità, che possono portare fino alla perdita dell’autonomia. Così si invecchia non necessariamente in buona salute e da soli. Ma la solitudine colpisce anche altre fasce della popolazione. Sempre più i giovani scontano una serie di fragilità, trovandosi senza legami che facilitano la loro capacità di affrontare le vulnerabilità. E questo si amplifica quando si hanno difficoltà economiche o disabilità». Non tutte le risposte possono arrivare dai professionisti della salute. Ma tante esperienze nel Paese dimostrano che per contrastare questa povertà dobbiamo semplicemente costruire più relazioni. Attingere a quella che è definita la «prescrizione sociale» di cui si parla sempre di più, ovvero il collegamento delle persone con attività sociali che generano benessere. E poi rafforzare le comunità, creando spazi di condivisione. Per i giovani è raccomandabile fare volontariato e sperimentare la responsabilità nei confronti degli altri. Questo impegno può consolidare la cultura della cura di cui tutti avremo, prima o poi, bisogno.
26 ottobre 2025
Majorana fra bombe e dilemmi etici
Non per caso La scomparsa di Majorana, il capolavoro di non-fiction di Leonardo Sciascia, uscì prima a puntate su «La Stampa», poi in volume presso Einaudi, tra il settembre e l’ottobre di cinquant’anni fa.
Erano passate poche settimane dopo il trentesimo anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Sciascia si era interessato già tre anni prima, alla fine del 1972, al caso del brillante scienziato catanese, allievo di Fermi, scomparso misteriosamente nel marzo del 1938, ma, dopo aver acquisito, tramite il fisico Erasmo Recami, le lettere di Ettore alla famiglia, e aver incontrato la sorella Maria, al momento di mettersi a scrivere aveva cambiato improvvisamente soggetto, componendo un altro romanzo, Todo modo.
Fu la ricorrenza del 1975 a riportare la sua attenzione su Majorana: in occasione di un programma televisivo incontrò Emilio Segrè – che aveva partecipato, assieme a Fermi, al progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica – e rimase colpito dalla sua serenità nel rievocare quell’impresa. Se, fino ad allora, Majorana gli era apparso come un giovane schiacciato dal peso del proprio genio e di un’esistenza tormentata, da quel momento il fisico siciliano divenne il simbolo dello scienziato che si rifiuta di perseguire una prospettiva mortale per l’umanità.
Majorana – è la tesi della Scomparsa – aveva presagito la bomba atomica (o comunque la catastrofe cui avrebbe portato la fisica nucleare) e ne era rimasto sconvolto, decidendo di sparire per non prendere parte a quella «turpe cospirazione contro la vita». I suoi colleghi romani, invece, non avevano avuto, secondo Sciascia, gli stessi scrupoli, e alcuni di loro, anzi, si erano trovati in prima fila nella realizzazione della bomba. Una barriera morale separava, agli occhi dello scrittore di Racalmuto, Majorana da tutti gli altri; al suo fianco Sciascia poneva idealmente solo quel Werner Heisenberg che, messo a capo del progetto nucleare nazista, lo avrebbe di nascosto boicottato (secondo la versione diffusa da un celebre libro di Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, rivelatasi poi infondata).
A contestare tutta questa ricostruzione fu uno dei «ragazzi di via Panisperna», Edoardo Amaldi, il più autorevole fisico italiano dell’epoca, amico personale e biografo di Majorana. Amaldi non solo non aveva fatto la bomba, ma negli anni del conflitto aveva reindirizzato le ricerche del gruppo romano dai nuclei ai raggi cosmici, un ambito lontano da ogni possibilità di applicazione bellica, e nel dopoguerra era rimasto in Italia – rinunciando ad allettanti offerte d’oltreoceano – per contribuire alla ricostruzione scientifica del nostro paese.
Il libro di Sciascia gli appariva come un tentativo di riscrivere, distorcendolo, un importante capitolo della nostra storia culturale, e prese subito carta e penna per confutarne il contenuto. Il dibattito che ne seguì toccò varie questioni – dall’ipotetica premonizione della bomba all’atteggiamento dei fisici (alleati e tedeschi) durante la guerra – e, anche se non smosse i due contendenti dalle loro posizioni di partenza, suscitò una serie di interessanti riflessioni su temi scarsamente frequentati dal nostro mondo intellettuale.
In uno dei suoi interventi giornalistici, Sciascia disse che La scomparsa era il primo testo letterario in Italia ad affrontare la questione della responsabilità degli scienziati e del loro rapporto con il potere. Aveva ragione a rivendicare quel primato, ma sbagliava nel ritenere che gli scienziati fossero insensibili al problema. Proprio il suo interlocutore, Amaldi, rappresentava, al riguardo, il più lampante controesempio. Da sempre impegnato nel movimento internazionale per il disarmo, il fisico romano era stato protagonista, appena pochi mesi prima della pubblicazione de La scomparsa, di una dura battaglia per convincere i parlamentari italiani a ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, che alcuni ambienti politico-diplomatici avversavano nell’assurda presunzione che l’Italia potesse rafforzare il proprio prestigio internazionale con un arsenale di bombe atomiche. Se c’era un tema, dunque, su cui tra Sciascia e Amaldi si sarebbe potuto instaurare un dialogo costruttivo, era proprio quello della responsabilità individuale e sociale degli scienziati. Ma, per varie ragioni, il dialogo non ebbe luogo, e fu per tutti un’occasione mancata.
Paradossalmente, l’aspetto meno significativo del libro di Sciascia era quello che attirava di più l’attenzione: la sorte di Majorana. Nell’ultimo capitolo, lo scrittore immaginava che Ettore non si fosse tolto la vita nel tratto di mare tra Palermo e Napoli, ma avesse trovato rifugio in una certosa calabrese, dove si diceva fosse ospitato anche uno dei piloti di Hiroshima. «Rispondenti o no a fatti reali e verificabili – scriveva Sciascia – quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato». Solo su questa ipotesi era disposto ad ammettere l’ombra del dubbio; il resto della sua costruzione, basato su un rigido schema etico, cui i fatti sottostavano a costo di non poche forzature, era per lui semplicemente vero. «La letteratura – dirà in seguito – per me, e ne ho avuto piena coscienza da quando ho finito di scrivere sulla scomparsa di Majorana, è la più assoluta forma che la verità possa assumere».
Uno dei primi e più entusiasti lettori del libro fu Pier Paolo Pasolini. Poche ore prima di essere barbaramente ucciso, a Furio Colombo che era andato a visitarlo disse: «È bello il Majorana di Sciascia… Perché non è un’indagine, ma la contemplazione di una cosa che non si potrà mai capire». La scomparsa di Majorana va letta proprio così: non come la verità storica sulla vicenda raccontata, né come la soluzione di un enigma, ma come la «contemplazione» di un mistero, che non smette di interrogare le nostre menti e le nostre coscienze.
Vincenzo Barone, Anatomia della «Scomparsa». Sciascia, Amaldi, Majorana, Bollati Boringhieri, pagg. 224, € 20
«Il Sole 24 ore - La Domenica» del 12 ottobre 2025
24 ottobre 2025
Democrazia: gli errori della sinistra
È importante per la sinistra decidere in quale Paese vive, decidere che cosa è l’italia di oggi.
Infatti dalla risposta dipende una questione cruciale: la sua identità politica stessa, e di conseguenza anche la sua offerta elettorale. Dipende cioè se la sinistra si considera essenzialmente come la sola speranza rimasta della democrazia italiana, come il fulcro del nuovo necessario Cln all’insegna di una «nuova Resistenza», o se invece, più modestamente (realisticamente?) essa pensa di doversi dotare di un programma elettorale, diciamo così normale. Un programma, per capirci, tipo quale politica estera adottare e con quali alleanze, chi tassare e quanto, quali investimenti pubblici promuovere, cosa fare riguardo all’immigrazione o alla sicurezza e altre questioncelle del genere. E con tale programma invece di rischiare di andare a via Tasso andare alle urne.
È opportuno farsene una ragione: la democrazia obbliga tutti a una cosa sgradevolissima. Ad accettare l’idea che esistono gli «altri», i quali hanno quasi sempre il vizio di non pensarla come noi senza che ci sia verso di fargli cambiare idea. E per giunta non la pensano come noi anche se nessuno li obbliga, e magari non ci guadagnano niente. Eppure è così. Ma non è frutto della reazione alle porte: è il carattere misteriosamente multiforme dell’umanità. Sicché se si vuole arrivare a prendere tutti insieme una decisione non c’è che un’alternativa: o la guerra civile o contarsi. Cioè la democrazia: accettare l’esistenza degli altri e delle loro idee sperando, se si perde, nel prossimo giro e cercando di esserci con idee e proposte più convincenti di quelle dell’avversario.
È precisamente quest’idea competitiva della democrazia, di una gara dove i valori e i programmi più diversi sono tutti eguali ai nastri di partenza — nel senso che ciascuno ovviamente pensa che i propri siano i migliori ma in realtà non esiste alcuna misurazione oggettiva che possa comprovarlo —, è questa idea che la sinistra ha difficoltà ad accettare. Perché essa è convinta che, a differenza di quelli dei suoi concorrenti, i propri valori, le proprie proposte, solo essi sono dalla parte del giusto. Per una ragione che spazza via ogni dubbio: perché sono eticamente superiori, aspirano al bene, sono espressione del bene contro il male, come del resto essa stessa ama pensare di essere. Mentre agli avversari, si capisce, è riservata in ogni caso la sgradevole parte di rappresentanti del male.
L’eticizzazione della politica, la tendenza della sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, è un’eredità della sua convinzione — mille volte smentita dai fatti ma che importa? — di essere dalla parte della storia, di marciare all’unisono coi tempi, di essere la rappresentante per antonomasia del progresso (ciò che ha anche il vantaggio di lasciare agli avversari lo scomodo ruolo di rappresentare, altrettanto per antonomasia, il regresso, la reazione, il buio delle tenebre contro il sol dell’avvenire).
Ma l’eticizzazione della politica se può servire benissimo quando si arriva agli estremi, quando il male c’è veramente e perciò serve commuovere le folle per portarle sulle barricate, quando invece si vivacchia nel tran tran democratico, come noi più o meno vivacchiamo, allora sortisce un solo effetto: di ridurre la politica a declamazione. Cioè di mettere il dire al posto del fare, la retorica al posto del ragionamento, le parole vuote al posto delle proposte concrete. Ma la retorica e il grido non hanno mai aperto la via del successo a nessuno. Sono una droga che molto spesso uccide.
05 ottobre 2025
Manzoni ha un animo rivoluzionario
Tra dialogo e assoluto riserbo oscilla il modo di procedere di Manzoni. È quanto si desume dal recente libro di Giulia Raboni (Come lavorava Manzoni, Carocci), prima proposta (con il volume di Paola Italia su Gadda) di una collana che intende entrare dentro i laboratori dei grandi scrittori con gli strumenti della filologia d’autore che studia il percorso delle varianti da redazione a redazione. Non solo il romanzo è già molto studiato da questo punto di vista, ma anche le altre opere manzoniane, poesie e tragedie comprese. Eppure parecchio rimane da fare, a cominciare dalla catalogazione (digitale?) delle carte il cui nucleo centrale giace alla Braidense, consegnato dagli eredi, ma che in parte si trovano disperse. Manzoni lavora in tensione tra l’obiettivo etico (orientato in senso evangelico dopo la conversione) e la ricerca sperimentale degli strumenti di stile e di forma con cui conseguire quell’obiettivo. Anche Giulia Raboni sottolinea come il tratto comune delle opere di Manzoni sia quella «retorica intimamente dialogica nella quale si può dire si placano e consumano nella conquista di una apparente semplicità le antitesi più profonde della sua psicologia e della sua formazione culturale». Niente più dell’ossessione del confronto, con se stesso e con gli altri (amici e autori vicini e lontani), produce insoddisfazione, correzioni, rifacimenti, scartafacci e varianti.
L’aspetto più affascinante (anche per il filologo), nel modo di lavorare di Manzoni, è il suo farsi nel momento stesso in cui la scrittura si compone: non esistono scalette, schemi, tracce di dialoghi o di spunti; esistono invece, oltre alle riflessioni teoriche preliminari o contemporanee consegnate anche alle lettere agli amici, le trascrizioni di documenti, dati, fonti. Un modo opposto rispetto a quello condotto da Leopardi, il quale, fa notare Raboni, si muove dalla sensazione all’astrazione «azzerando il più possibile il processo meditativo e razionale». Ne deriva, in Manzoni, un andamento a singhiozzo delle stesure, in cui gli approfondimenti e i ripensamenti, ricostruibili per lo più grazie agli epistolari, si intrecciano con la scrittura e ne determinano le svolte, i cambiamenti, gli abbandoni provvisori, le revisioni, le contraddizioni, i «punti di crisi», dando luogo a carte che sovrappongono magmaticamente momenti diversi di rielaborazione: percorsi accidentati che mettono a dura prova l’intelligenza dello studioso. Ciò vale non solo per le diverse fasi del romanzo, dal Fermo e Lucia agli Sposi promessi alla prima edizione (1827) e infine alla cosiddetta Quarantana seguita al famoso risciacquo in Arno: con ulteriori complicazioni dovute agli obblighi della censura, alla circolazione di manoscritti non sempre autorizzata, al lavoro imperfetto degli amanuensi, alle ostinate riletture d’autore sulle bozze, alla diffusione di stampe pirata. Senza dimenticare che il passaggio dall’una all’altra fase di elaborazione comporta un nuovo movimento del pensiero, dello stile, della lingua, come accade, per esempio, nei vari passaggi del Conte di Carmagnola, concepito in prospettiva «familiar-popolare» e riscritto in chiave militare.
I capitoli centrali del libro di Giulia Raboni affrontano gli aspetti materiali del lavoro. Se nel momento della progettazione lo scrittore si mostra disponibile alla discussione e allo scambio di vedute, i particolari sulla genesi delle opere rimangono materia di rimuginio intimo di cui poco si saprebbe se non si studiassero le carte. Qualcosa in più sappiamo dell’organizzazione quotidiana in via Morone, dove Alessandro si trasferì nel 1813: lavorava nello studio a pianterreno, di fronte al quale si trovavano le stanze in cui fino al 1837 alloggiò l’amico e sodale Tommaso Grossi. Lo studio guardava sul giardino interno; nei cassetti della scrivania Manzoni conservava i manoscritti delle opere in lavorazione; la scrivania era circondata da librerie e protetta da una nicchia nel muro; il camino, sempre acceso a fuoco alto, era il suo vanto. A Brusuglio, nella villa di campagna, Manzoni lavorava d’estate in un ambiente che riproduceva il più possibile quello cittadino. Difficilmente si recava di persona in biblioteca per le sue ricerche: i libri e i documenti rari che chiedeva in prestito gli venivano per lo più consegnati a casa. Negli ultimi anni di vita, svegliandosi tra le cinque e le sei e provvedendo personalmente a prepararsi la cioccolata per colazione, don Lisander riceveva generosamente (fin troppo?) gli ospiti in salotto anche a costo di rinunciare alla concentrazione del lavoro: che per lo più veniva dislocato nelle ore mattutine prima della passeggiata, cui si dedicava dalle due alle quattro del pomeriggio. La serata, dalle otto alle undici, veniva consacrata agli amici più intimi. Il tema degli eccessivi indugi e della lentezza del procedere è presente nell’epistolario manzoniano e in quello dei familiari: ma va precisato che la possibile pigrizia giovanile diventa con gli anni inattività dovuta a malesseri nervosi che impediscono allo scrittore di portare a termine i lavori intrapresi. All’amico francese Fauriel, Manzoni confessa che dopo quattro o cinque ore di lavoro mattutino passa «il resto della giornata in uno stato di spossatezza tale da impedirgli di pensare». Un’«inerzia totale» che probabilmente coincide con la progettazione e la gestazione silenziosa: nessun blocco della scrittura, che scorreva invece fluida, rapida e naturale, come mostrano gli autografi, forse favorita dalla presa di tabacco cui si allude nel Fermo e Lucia: «a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco».
03 ottobre 2025
Classici da tramandare in un’epoca complicata che ormai cancella
Anche Tommaso Braccini nel suo recente volume Avventure e disavventure dei classici (Carocci, pagine 176, euro 17,00), se la prende nelle prime pagine contro la tendenza da parte di «censure e ideologie aberranti» di «imbavagliare alcuni autori». E aggiunge: «Proprio le vicende travagliate dei classici ci devono far riflettere sulla necessità di salvaguardarli, proteggerli e assicurarsi che anche chi verrà dopo di noi possa godere della straordinaria opportunità di confrontarsi con gli “antiqui huomini” (per dirla con Machiavelli) che hanno ancora tanto da dire. Non ci si deve nemmeno adagiare nella falsa sicurezza data dal digitale, dalle risorse della rete e dalla possibilità di stoccare su eteree nuvole milioni e milioni di byte: basta un blackout e tutte queste opere rischiano di diventare mute e inaccessibili. E lo saranno comunque, se nessuno le studia. L’unico modo per proteggere i classici è amarli, farli conoscere, farli circolare, far capire quanto sono belli e quanto hanno da dirci e da ispirarci, dando loro la parola e rendendoli sempre più accessibili».
Se è vero che habent sua fata libelli, e che moltissimi testi degli autori antichi sono andati perduti definitivamente, fortunatamente molti si sono salvati, spesso in modo rocambolesco, in tanti casi grazie all’opera dei monaci amanuensi del Medioevo. Uno dei casi più emblematici è la cosiddetta Ilias picta, una sorta di album di figurine realizzato nel XII secolo da un manipolo di bizantini nella Calabria normanna, stravolgendo ma preservando in qualche modo un codice alessandrino del 500 che conteneva tutto il poema di Omero ed era costellato da bellissime miniature. Il manoscritto giunse dall’Egitto prima in Sicilia e poi a Reggio: era in greco tutto maiuscolo, com’era usanza nel mondo antico, senza segni d’interpunzione, accenti o spiriti. Solo nel Medioevo questi testi venivano trascritti in minuscolo. Qualcuno pensò bene di ritagliare le miniature e di incollarle su un quaderno di carta aggiungendovi a fianco i riassunti dei canti omerici e delle storie mitologiche pertinenti. Un’operazione di collage che suscita un po’ di indignazione ma il cui scopo era evidentemente di salvare il salvabile della cultura greca. «Quello che ne venne fuori – spiega Braccini – fu una sorta di libretto molto simile ai coloratissimi volumi dedicati alla mitologia classica che ai nostri giorni si trovano tra gli scaffali delle librerie per ragazzi». L’Iliade dipinta subì ancora varie peripezie, fra cui un naufragio vicino ad Ancona, per finire miracolosamente a Napoli, nella biblioteca di Cosmo Pinelli, venendo alfine acquistata per oltre 3.000 scudi d’oro dal cardinale Federigo Borromeo nel ‘600. Tant’è vero che oggi è conservata alla Biblioteca Ambrosiana.
Il volume ripercorre poi le vicende di altri personaggi sensazionali come l’umanista Pletone o il metropolita Michele Coniata, raccontando come numerosi manoscritti del mondo greco-romano siano giunti fino a noi in maniera insperata: come l’Inno a Demetra, il cui manoscritto fu copiato agli inizi del ‘400 dall’ecclesiastico bizantino Giovanni Eugenico, arrivando a Mosca e oggi a Leida, in Olanda. O il frammento dei primi versi della prima Pitica di Pindaro, che Athanasius Kircher nel Seicento dichiarò di aver rinvenuto nella biblioteca del monastero di San Salvatore presso Messina e che trascrisse; fu definito «il più grande elogio della musica mai scritto», ma per molti studiosi non è autentico, anzi sarebbe opera proprio del gesuita tedesco. Poi si arriva attraverso Platone e Aristotele fino ad Archimede e ai suoi trattati di matematica, alcuni dei quali pervenuti al monastero di San Saba nel deserto di Giudea. Braccini si diverte nel ricostruire il percorso accidentato di opere come le commedie di Plauto, giunte alla famosa raccolta del monastero di San Colombano a Bobbio, nel Piacentino, o di Apuleio, il cui Asino d’oro – unico caso di conversione nel mondo antico secondo il patrologo Gustave Bardy - finì chissà come all’abbazia di Montecassino, annotando poi come i monaci medievali o gli umanisti non si siano fatti scrupolo di ricopiare testi il cui contenuto poteva essere ritenuto riprovevole dal punto di vista morale. Persino l’ultima opera presa in esame, il poema De reditu di Rutilio Namaziano, scritto dopo il sacco di Roma da parte di Alarico del 410 e non certamente favorevole alla nuova religione che si stava imponendo nell’impero romano, è stato messo in salvo a Bobbio!
02 ottobre 2025
Il 43% degli italiani non versa un euro di Irpef
Nel dettaglio, chi ha un reddito tra 0 e 7.500 euro lordi, vale a dire 7,2 milioni di italiani (il 12% della popolazione), paga in media 26 euro di Irpef l’anno ed è « a carico dell’intera collettività», evidenzia il rapporto. Nella fascia subito superiore, quella tra i 7.500 e i 15 mila euro lordi l’anno, in cui rientrano 7,6 milioni di persone, l’irpef media annua pagata per contribuente è di 296 euro. L’insieme di queste fasce versa solo 1,19% del totale Irpef. Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29 mila euro, risulta che il 72,59% dei contribuenti italiani versa soltanto il 23,13% di tutta l’irpef.
A pagare gran parte dell’irpef complessiva sono quei poco più di 7 milioni di contribuenti con redditi superiori ai 35 mila euro. Le imposte pagate da un lavoratore dipendente con un reddito tra 35 e 55 mila euro, in media oltre 10 mila euro l’anno, sono 34 volte quelle di un reddito tra 7.500 e 15 mila euro. «È davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa di 10 mila euro lordi l’anno?», chiede il professor Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali. «Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari ma, al tempo stesso, non si può trascurare quanto queste cifre siano verosimilmente gonfiate da economia sommersa ed evasione fiscale», sottolinea. «Quasi un cittadino su due non versa nemmeno un euro di Irpef, e così poco più di un quarto dei contribuenti si fa carico da solo di quasi l’80% dell’imposta. È come in una squadra di calcio: se solo tre giocatori corrono e gli altri otto guardano, non si vince nessuna partita», aggiunge il presidente di Cida Stefano Cuzzilla. Il viceministro dell’economia Maurizio Leo, intervenuto in videocollegamento, ha confermato l’intenzione del governo di ridurre dal 35% al 33% l’aliquota che oggi grava sui redditi compresi tra i 28 mila e i 50 mila euro, precisando subito: «Bisognerà vedere, se le risorse ce lo consentiranno». Non ha fatto invece riferimento alla possibilità di estendere la riduzione ai redditi fino a 60 mila euro. Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ammesso che c’è un disequilibrio nella ripartizione del carico fiscale e ha aggiunto: «Vanno detassati gli straordinari, i premi di produzione e penso anche le tredicesime».
01 ottobre 2025
La guerra ibrida rimossa
Lo sviluppo tecnologico ha sempre avuto due facce, una luminosa e una oscura. Da un lato, migliora, e ha sempre migliorato, la condizione umana.
Dall’altro, mette a disposizione di chi vuole servirsene mezzi sempre più efficaci per distruggere comunità e per assoggettare le persone. Chi vorrebbe arrestarlo è un folle, non capisce quanti benefici esso generi (non ne vede la faccia luminosa). È però un imprudente chi non si preoccupi degli aspetti negativi (la faccia oscura). Tra gli aspetti negativi c’è quello di avere eroso il confine fra lo stato di guerra e lo stato di pace. È arrivato il tempo di una forma assai sofisticata di guerra ibrida. Le guerre convenzionali,come in Ucraina, continuano ad esserci. Ma adesso i mezzi di guerra che lo sviluppo tecnologico mette a disposizione di chi vuole servirsene consentono di attaccare anche in altri modi. Modi così subdoli che le persone possono credere di vivere in pace mentre invece sono i bersagli di una guerra non dichiarata e che non si manifesta attraverso la violenza fisica.
Le democrazie europee, sia pure con difficoltà e forse con troppe lentezze, stanno reagendo, cercano di approntare le necessarie contromisure. Certi Paesi scandinavi sembrano più avanti di altri. La Gran Bretagna ha adottato da qualche anno una nuova dottrina militare nella quale la sicurezza informatica ha, quanto meno sulla carta, un grande spazio. E anche gli altri Paesi, ivi compreso il nostro, cercano più o meno faticosamente, di attrezzarsi. Però può essere difficile per una democrazia approntare le misure adeguate a garantirsi la sicurezza se l’opinione pubblica non è sufficientemente consapevole della minaccia.
Peraltro, il problema della sicurezza informatica genera per le democrazie un dilemma: come garantirla senza che ciò, nel medio-lungo termine, finisca per contrarre, almeno in parte, le libertà personali?
Le democrazie occidentali, come tutti vedono, sono oggi in affanno. Minacciate dall’esterno e dall’interno. Quelle europee sono minacciate da potenze autoritarie mentre il loro storico protettore, gli Stati Uniti, non sembra più disposto a difenderle. Le democrazie sono inoltre minacciate da movimenti politici ostili alla libertà individuale (si pensi agli strappi costituzionali di Trump o a cosa sia Alternative für Deutschland che oggi, nei sondaggi, è il primo partito in Germania), fautori di una trasformazione in senso illiberale dei nostri regimi politici.
Tra le molte minacce c’è anche l’erosione, per effetto dello sviluppo tecnologico, dei confini fra stato di guerra e stato di pace. Fin quando quel confine era chiaro e netto era possibile mantenere separate sfera civile e sfera militare, l’organizzazione della vita di pace di ogni giorno e gli apparati preposti alla difesa in caso di guerra. Ma nel momento in cui entra in gioco la sicurezza informatica tutto cambia. Se imprese private, enti pubblici, sistema dei trasporti, sistema finanziario, sistema energetico, sistema della comunicazione, diventano potenziali target di attacchi, sorge l’esigenza di una difesa integrata (che è esattamente quanto oggi si tenta di predisporre). Ma una difesa integrata — indispensabile per la sicurezza — implica anche, o potrebbe implicare in futuro, una sorta di militarizzazione strisciante di ampi aspetti della vita civile. Con effetti, tutti ancora da valutare, sulla libertà di azione dei cittadini. Non c’è da fasciarsi la testa prima di essersela rotta. C’è però da riflettere su come le nuove condizioni di «non guerra/non pace» potranno essere conciliate con il mantenimento di regimi fondati sulla valorizzazione delle libertà individuali. Chi le apprezza ha sempre temuto le guerre non solo (come tutti) per le distruzioni e le sofferenze che provocano ma anche per i loro effetti negativi sulla libertà.
Sappiamo cosa comporti, da questo punto di vista, la guerra per una democrazia. La obbliga, per tutto il tempo che la guerra dura, a comprimere le libertà e a subordinare ogni aspetto della vita sociale all’esigenza della difesa. Ma solo finché dura la guerra. Possiamo facilmente prevedere che nello stesso momento in cui le armi finalmente taceranno in Ucraina (non sappiamo quando ma un giorno avverrà), riesploderanno subito in quel Paese i contrasti e i conflitti fra i partiti e le persone esigeranno — come è giusto che sia — una libertà che la guerra ha negato loro.
Ma che dire dell’erosione del confine fra guerra e pace per effetto degli sviluppi tecnologici in corso? Quali conseguenze può avere per le nostre libertà? È un terreno largamente inesplorato. Conviene occuparsene.
27 settembre 2025
La fatica non muore mai
La fatica è sempre stata dei più poveri, dei segregati, degli ultimi della terra. La fatica di «alzarsi all’alba» per governare i campi o le bestie, la fatica della catena di montaggio e del cottimo, la fatica degli schiavi sulle navi dei loro «padroni», la fatica delle donne nelle risaie. La fatica degli umani ha sempre consentito la creazione della ricchezza, ma non la rimozione della povertà. A quello avrebbe dovuto pensare non la macchina dell’accumulazione, ma la politica con le sue politiche redistributive, che sono mancate. La fatica proletaria è sudore, ore sottratte al sonno e alla famiglia, malattia, perdita del senso della vita.
Perché la fatica è socialmente mal distribuita. I poveri si alzano all’alba, i ricchi non sempre.
Dico non sempre perché la fatica, detto che ha un segno prevalentemente di classe, riguarda in fondo tutti. Gli studenti che si preparano a un esame, il chirurgo che opera per dieci ore consecutive, l’avvocato che studia faldoni per un’udienza importante, il commerciante che si alza all’alba, anche lui, per sollevare la saracinesca e sperare che quel luogo si riempia, perché ne va della sua vita.
Ma oggi il rifiuto diffuso della fatica non avviene tanto sotto il segno dell’emancipazione, sociale e culturale, da essa, quanto sembra appartenere al regno dei disvalori di questo tempo in cui tutto è semplice, veloce e gratuito. Ci siamo liberati da fatiche inutili, come ci ha consentito di fare la rete, portando non noi verso le cose, ma le cose verso di noi.
Tutto comodissimo, tutto rapido, ma il prezzo è stato la crescita della solitudine e un malessere sociale con indici di disagio e di inquietudine mai visti prima.
Il mondo digitale ha poi insegnato che basta poco per arricchirsi, talvolta l’intelligenza e la creatività, talaltra lo sfruttamento del proprio corpo, di quello di altri, o la manipolazione della verità. Si è teorizzato, veleno assoluto, che uno vale uno, che la competenza non serve più a nulla, che il mondo moderno è di chi se lo piglia, basta padroneggiare gli algoritmi.
La comodità, dice Calabresi, «è diventata un valore assoluto». Scrive: «Si è fatta strada l’idea che sia possibile raggiungere risultati, conquistare traguardi, compiere imprese senza fare fatica. Non è mai stato chiaro come fosse possibile, ma l’illusione ha preso piede ed è stata abbondantemente coltivata. Nonostante questa utopia, molta gente che non può permettersi di affrancarsi continua a viverla, la fatica. Ad alzarsi all’alba, a fare lavori ripetitivi e sfinenti, a non avere orari, a prendersi cura di un pezzo di mondo».
Forse, di nuovo, a liberarsi della fatica, stavolta grazie alle tecnologie, è chi può permetterselo. Calabresi racconta storie italiane di fatica, di perdita e di speranza: una ragazza che affronta una malattia invalidante con combattività e finisce col diventare un’atleta, chi lavora nel mercato ortofrutticolo, chi decide di darsi alla maratona per sentirsi più vicino alla figlia che non c’è più, chi ha studiato, venendo da lontano, per salvaguardare, restaurandolo, il patrimonio culturale e tante altre ancora. O chi, come la signora Marisa, 89 anni, si alza all’alba per il suo bar e per preparare torte pasqualine e focacce al formaggio. Una donna saggia che dice all’autore del libro: «I giovani hanno capito com’è la vita, è breve e poi finisce, e allora cercano di godersela un po’ di più. Di distinguere la vita dal lavoro. Io invece non l’ho capito. Io sono contenta quando lavoro. Qualche mese fa ho avuto un’infezione a un piede e sono rimasta bloccata a casa tre giorni, una cosa insopportabile».
Il segno di queste vicende personali è la fatica per il riscatto dal dolore o dalla povertà, è l’elogio del carattere, della determinazione, della consapevolezza che nessuno ti regala nulla e che, al tempo, stesso, nessuno ti ruba tutto per sempre.
Il tempo passato è stato segnato dalla fatica, anche da quelle inutili, dalle quali per fortuna ci siamo liberati. E non era un tempo migliore, come si tende a pensare, indulgendo al rimpianto della vita sfilata troppo rapidamente.
Però speravamo che la più grande rivoluzione della storia umana, quella digitale, ci avrebbe consentito di mettere in armonia la semplificazione con la coscienza della complessità delle cose, la velocità con la profondità, l’immagine e la ragione. Pensavamo, non dobbiamo smettere di farlo, che un uso delle tecnologie consapevole e ispirato da valori avrebbe migliorato la qualità della nostra vita. Per fare questo non basta rimuovere le fatiche inutili, ci vuole molto di più, ci vuole «l’intelligenza complessiva delle cose» cara al cardinale Carlo Maria Martini, che richiede, torniamo lì, sacrificio e pazienza. Altrimenti il rischio è di vivere senza fatiche superflue, ma infelici, con la convinzione che in fondo, a essere superflua, sia la vita.
Calabresi si muove con sapienza nel labirinto del valore della fatica come formazione e senso e, al tempo stesso, come coscienza della necessità di liberarsene per una vita migliore. Dice, come a guidare il percorso di questo viaggio: «Chiudo ogni incontro con i ragazzi con l’augurio di fare fatica, convinto che la fatica sia l’antidoto a un tempo in cui tutto è frammentato, in cui spesso è difficile trovare un senso e una direzione. Allora, sono convinto che la fatica, intesa non come sofferenza, di quella ne abbiamo già troppa, ma come determinazione, passione, costanza, sia un’ancora di salvezza. Ripenso a questo ogni volta che vedo un bambino piccolo incollato a un ipad o a un telefono per ore, durante un viaggio in treno, a tavola o perfino sul passeggino «così sta bravo e non disturba».
La verità è che in questo modo i genitori non devono fare la fatica di stare con lui, parlarci, inventarsi dei giochi, aiutarlo a disegnare, leggergli un libro. E lui non deve fare quella fatica preziosa di scoprire il mondo, guardarsi intorno, immaginare qualcosa per non annoiarsi».
In fondo era stato Leonardo da Vinci, nei suoi Pensieri, a scrivere: «Tu, o Iddio, ci vendi tutti li beni per prezzo di fatica».
20 settembre 2025
Senza un’emozione non c’è narrativa
Nel suo recente saggio, La pelle. Che cosa significa pensare nell’epoca dell’intelligenza artificiale (il Mulino, 2025) Maurizio Ferraris liquida giustamente la competizione fra IA e intelligenza umana, poiché le macchine con la loro sterminata capacità di accumulo e manipolazione di segni e dati eccederanno presto le nostre limitate risorse, per contro il pensare umano è situato in un corpo perituro, dunque mosso da bisogni, desideri, proiezioni e volontà di cui le macchine sono del tutto prive. Una distinzione di base che diventa cruciale, a mio parere, quando si accosta l’IA alla scrittura creativa, perché questa è intrinsecamente legata all’unicità del corpo di chi la produce, alla sua storia e alla sua singolarità, non meno che alla sua mortalità. Se non incontrassimo la morte in ogni istante della nostra vita, scriveremmo romanzi, poesie, saggi? L’IA, che non muore e non vive, al limite si spegne o si accende, può scrivere a tema, può migliorare una traduzione, può lavorare un testo dal punto di vista redazionale in modo efficace, può sviluppare con altrettanta efficacia un argomento se interrogata dal prompt adeguato, ma è un mezzo che interessa e stimola scrittrici e scrittori? È ciò che ho chiesto a colleghe e colleghi, perché nel frattempo qualche libro scritto con l’ausilio dell’IA è apparso sul mercato editoriale.
Valeria Parrella ed Helena Janeczek hanno dichiarato di non averla mai usata se non per scopo ludico, per trasformare una foto ad esempio, perché anche le immagini si deformano in base a schemi preconcetti acquisiti dall’IA. Anche Nicola Lagioia ne apprezza l’aspetto di gioco intellettuale e ha fatto diversi esperimenti con l’IA: «Non per scrivere ma per interpretare testi letterari — gliene affido altrui e miei e le chiedo di trovare collegamenti e significati nascosti, per vedere cosa viene fuori. A volte emergono cose interessanti, è come avere a disposizione uno sparring partner molto particolare, sarà anche un “pappagallo stocastico”, ma giocare con il linguaggio e i concetti in modo probabilistico può risultare spesso molto stimolante. Oppure (ancora più di frequente) le chiedo di interpretare l’attualità con lenti costruite ad hoc, per esempio: “Mi dai un’interpretazione della situazione politica internazionale come farebbe un pensatore capace di fondere la visione del mondo del Robert Graves de La Dea Bianca, del James Frazer del Ramo d’oro e del René Girard de La violenza e il sacro?”. In certi casi le risposte sono sorprendenti. In altri un po’ deludenti. L’IA ha i suoi pregiudizi e bias, ma non è detto che coincidano con i nostri. Credo che per ottenere risultati migliori dovrei metterci più impegno, ma non ho tutto questo tempo, e dopo una fiammata iniziale (mesi fa, ero sorpreso dall’evoluzione del modello) ho ridimensionato l’uso. In più, mentre in passato usavo ChatGPT, adesso sto cercando di capire quale sia il modello più adatto a questo tipo di esperimenti, e credo di non averlo ancora capito».
Lagioia ribadisce di non aver mai scritto un rigo con l’IA: «Ritengo che non sia ancora capace di scrivere come gli umani, a livello letterario, e forse non lo sarà mai, dunque non mi ci affido neanche per le virgole; ma a livello interpretativo è un bel gioco. Non mi sembrano modelli abbastanza evoluti da ragionare e immaginare come faccio io o come vedo fare agli umani. Sarebbe impossibile, ad esempio, per un’IA immaginare la struttura di Mentre morivo di William Faulkner, dunque è inutile giocare al ribasso».
Teresa Ciabatti evidenzia invece proprio il fattore temporale e la mortalità come scarto incommensurabile e irriproducibile: «Di sicuro l’intelligenza artificiale potrà scrivere romanzi, creare trame, riprodurre lo stile di un certo scrittore, ma quello che non potrà mai fare è restituire la crescita dello scrittore di opera in opera. L’IA replica uno scrittore in un preciso istante. Gli nega cioè sviluppo, evoluzione, deperimento. ChatGPT non permette allo scrittore di invecchiare. Ora: senza lo scorrere del tempo, senza la prospettiva della morte, c’è letteratura? Senza il ricasco dell’esperienza sulla scrittura, senza il materiale umano, quello che Italo Calvino diceva dei libri di Cesare Pavese “portano dentro tutto quello che l’autore ha imparato di nuovo della vita nell’intervallo tra un libro e l’altro”... Ecco, l’IA non registra l’intervallo - e no, non è una mancanza piccola».
Anche Mauro Covacich non la trova un mezzo adeguato: «Io non ho ancora provato l’IA semplicemente perché non fa al caso mio. Non ho nulla contro l’intelligenza artificiale se può risolvere problemi di scrittura a qualcuno, ma io scrivo proprio per il gusto di affrontare quei problemi da solo. Il processo della scrittura mi rivela spesso qualcosa che non sospettavo nemmeno di pensare. In altri termini, scrivo per scoprire qualcosa di me che ancora non so. Non ho altra ragione per scrivere. Ma ci sono anche persone che pensano alla scrittura come a un puro e semplice strumento di comunicazione e non dubito che per loro l’IA possa essere un ottimo aiutante. Tutto dipende dalla ragione per cui scrivi. Un po’ come con i cruciverba: da qualche parte c’è sempre una pagina con le risposte e quindi, volendo, potresti prenderle direttamente da lì e riempire tutte le caselle, ma svanirebbe l’unica ragione per cui fai i cruciverba, che è proprio quella di lambiccarti per trovare, da solo, le risposte esatte a quelle domande».
Per Emanuele Trevi non c’è partita proprio perché l’unica possibile si gioca su qualcosa di non ancora definito una volta per tutte come la coscienza: «Io non ho mai nutrito il benché minimo interesse per l’intelligenza artificiale, uso un po’ quella di Meta che hanno messo su WhatsApp ma le mie ultime domande sono del tipo - l’aloe è veramente efficace con le punture di zanzare? Quanto deve stare in forno un’orata di un paio di chili? Non intendo abbonarmi a versioni più efficaci e complesse, per il semplice motivo che non me ne frega nulla, anche nel caso che in vent’anni arrivi a eliminare del tutto gli scrittori: tanto meglio, ci sono quelli del passato. Non è che non ammiriamo più i mosaici bizantini perché nessuno li fa più. Da un punto di vista più filosofico, posso porre a chi è più esperto una questione forse ingenua: da Aristotele ai neuroscienziati, nessun pensatore al mondo ha definito in maniera soddisfacente la coscienza - ma se non sappiamo cos’è, come possiamo produrne una versione tecnologica? Ecco, il giorno in cui avremo una coscienza artificiale la partita sarà davvero finita».
Caterina Bonvicini, sebbene disposta ad ammettere la possibilità che l’IA possa superarla, ricorda: «Ero in una scuola, un ragazzo ha alzato la mano: per quanto tempo pensa di poter fare ancora questo mestiere? Si riferiva ai social che prosciugano la concentrazione. E soprattutto all’intelligenza artificiale, che può sostituirci. Non era una domanda cattiva, era una domanda difficile. Anch’io non riesco più a leggere come prima, ho detto, me li sogno certi livelli di attenzione. Prendevo tempo. Poi mi sono ricordata che ero lì per parlare del Mediterraneo. Allora ho risposto: forse l’intelligenza artificiale può scrivere un libro più bello del mio, ma non può salvare la gente in mare. E non può sapere cosa si prova».
Vanni Santoni confida invece una certa delusione: «Quando sono comparse le IA generative mi sono divertito a sperimentare con quelle grafiche, tant’è che ho anche realizzato un fumetto che è uscito qui su “la Lettura”; finito l’effetto-novità mi sono venute a noia, anche prima che emergessero le loro criticità - consumo energetico e furto di opere altrui, per dire solo le principali. Per quanto riguarda invece ChatGPT, mi è sembrato da subito che scrivesse assai male, quindi non ha attirato il mio interesse. L’ho tuttavia usata per scrivere - dichiaratamente - una “stanza” del progetto poetico 999 rooms (da cui è stato tratto il libro Other rooms/Altre stanze), perché basandosi sull’intertestualità e sul mash-up di testi altrui, l’uso risultava lì appropriato. Il risultato è stato comunque molto sotto lo standard minimo che richiedo a me stesso. Da allora, mai più usata. Penso anzi che tra poco la bolla scoppierà: a conti fatti le IA non piacciono a nessuno, sono scarse e imprecise e vengono usate solo perché le ficcano ovunque».
Per Marcello Fois il problema è ancora a monte, nella definizione di ciò che chiamiamo intelligenza: «Non credo esista un’intelligenza, cioè una capacità di mettere in relazione informazioni, “naturale”. Quella di cui mi servo è artificiale da sempre, sono vocabolari, glossari, biblioteche, archivi, motori di ricerca. Invito a non confondere mai l’atto di elaborare un patrimonio con la capacità di archiviarlo. Abbiamo pensato diversi dispositivi perché non andassero disperse le sostanze, tecniche, scientifiche, artistiche, filosofiche, matematiche, figurative, che via via andavamo accumulando. La capacità di coordinare fra loro gli elementi di questo capitale farà sempre la differenza».
Un veterano dell’insegnamento della scrittura, nonché scrittore di lungo corso come Giulio Mozzi, dice: «Ho usato ChatGPT, come tutti, come strumento preliminare per ricerche (che ho poi sempre verificato per altre vie). La uso spesso per tradurre da lingue che non conosco: è nel complesso meno affidabile di altri strumenti, ma ha il pregio di spiegarti — su richiesta - perché ha tradotto in quel modo, parola per parola; e questo permette di vedere anche i suoi svarioni. Ho usato un paio di volte ChatGPT per gioco, per produrre due post in Facebook a proposito dell’utilità (il primo) e della pericolosità (il secondo) dell’uso delle LLM (Large Language Model) per la produzione di testi narrativi. La sto usando per analizzare testi: le propongo solo testi che ho già letto, perché il mio scopo per ora è capire le sue possibilità e i suoi limiti. L’analisi retorica è di solito discreta (benché sempre incompleta), quella stilistica insomma; nella ricostruzione di una trama la vedo spesso in difficoltà».
Fra qualche anno sarà interessante rileggere queste posizioni che non sono né apocalittiche né integrate, piuttosto: prudenti. Molto, se non tutto, di ciò che chiamiamo cultura e umanità è frutto del tentativo di dare senso al vivere terreno, sapendo che è limitato ed effimero. Sotto questa luce non ha ragione di esistere nessuna forma di competizione o di paura delle macchine e il giorno in cui potessimo pensarci al di là della morte probabilmente noi umani non avremmo più bisogno della letteratura. Ma anche questa lungi dall’essere una certezza è piuttosto una prudente ipotesi.
16 settembre 2025
Ma io lo conobbi. Lo conobbi davvero. Lo vidi in carne e raso, con il colletto di pizzo e lo sguardo più tagliente della spada che non portava mai. L’ho visto essere acclamato e insultato, imprigionato e celebrato, ascoltato dai re e temuto dai poeti.
Non scrivo per difenderlo. Né per condannarlo. Scrivo perché nessuno ha raccontato ciò che stava dietro il suo sorriso, tra le righe delle sue lettere, sotto le maschere dorate del suo verso.
Mi chiamo Cesare C. Sebbene io abbia solo servito il cavaliere come copista, amico e qualche volta complice, ciò che so può bastare a ricostruire un uomo. O almeno la sua ombra.
Incomincerò da Napoli, naturalmente. Era l’anno del Signore 1596 e la città era un braciere: povera e sontuosa, musicale e violenta.
Ed è lì che il fuoco prese, e il ragazzo divenne fiamma.
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13 settembre 2025
Come rivalutare il petrarchismo
Eppure i petrarchisti hanno segnato un percorso di storia culturale e poetica che non si può ridurre all’idolatria di Petrarca, come volevano i loro critici romantici: contrapponendo l’omologazione dei poeti classicisti, di cui i petrarchisti sono l’esempio supremo, all’emergere dell’individualità nella poesia moderna, questi critici tracciavano un confine tra un male, l’imitazione passiva e acritica, e un bene, l’invenzione geniale e appassionata.
È probabilmente arrivato il momento di capovolgere il paradigma, se molti studi recenti si sono rivolti a valorizzare l’aspetto comunitario della poesia petrarchista: non cambiano le coordinate storiografiche (i molti anonimi di contro ai pochi che si distinguono), ma cambia il sistema dei valori (poesia che crea legami rispetto alla poesia che isola eccellenze). Su questa linea si è mosso il gruppo di lavoro “Petrarchan Worlds”, coordinato da Bernhard Huss della Freie Universität di Berlino, all’interno del più largo progetto “Temporal Communities. Doing Literature in a global perspective”, che c’invita ora a rileggere il petrarchismo all’insegna dei conflitti fra sistemi culturali anziché secondo vecchie categorie ormai superate.
È uno dei pochi casi, va detto, in cui un progetto accademico non serve a creare isole di fittizia eccellenza, come accade regolarmente col sistema delle grants, che per lo più non generano cultura diffusa e restano esperienze separate, ma prova davvero a entrare in sintonia con il contenuto, realizzando una comunità di studiosi intorno all’oggetto comunitario di cui si occupano. Nonostante il rischio sempre presente di creare microesperti di minuzie, l’esplorazione a tutto campo (in Italia, Francia, Spagna, Olanda e Germania, a cui andranno aggiunti il Portogallo, la Gran Bretagna, i paesi scandinavi e la Russia) porta all’indispensabile presa di coscienza che le scelte letterarie rispondono a principi ideologici: concentrarsi su un modello unico consentiva di creare una grammatica poetica comune, che garantiva il dialogo e lo scambio, anziché chiudersi nello spazio egocentrato dell’esperienza individuale.
Il primato della forma sulla vita consentiva l’allargamento dell’orizzonte comunicativo, la possibilità di una partecipazione più diffusa e la costruzione di un codice di riferimento per la società letteraria. Altro che narcisisticamente ripiegato su sé stesso, come ancora a volte vuole la critica: Petrarca, dice Huss nell’introduzione, si è rivelato talmente aperto e complesso da generare fenomeni transnazionali e transtemporali come l’umanesimo e il Rinascimento, fino a diventare il padre di una lunga durata della poesia europea perché ha fornito, per generazioni, gli strumenti di un’elaborazione collettiva che ha attraversato le lingue, i generi, i mezzi e le arti. Fu il sistema-Petrarca, infatti, dal Canzoniere ai Trionfi alle opere storiche, morali e spirituali in latino, ad affermarsi, anziché il solo poeta lirico.
La questione, insomma, non è solo poetica, ma morale: dentro Petrarca c’è un’etica, fatta di consapevolezza storica, ricerca identitaria, collocazione sociale e competenza espressiva, che ne fa il vero modello, come diceva Amedeo Quondam, del gentiluomo europeo.
L’etica è a sua volta un’economia, perché non c’è dubbio che la società petrarchesca, con meno individualità di spicco e più senso della partecipazione, costituisce un’alternativa potente a quel modello culturale, romantico e capitalista, che spinge verso la creazione di eccellenze individuali in modo da generare rendite di posizione, inseguimenti e competizione: è così che l’aristocratico Pietro Bembo, fondatore, tanto in poesia quanto in grammatica, del petrarchismo, si sposta sempre di più, dal nostro punto di vista, sul versante di una democrazia partecipativa di cui oggi sentiamo drammaticamente la mancanza.
Community-building è un po’ un mantra dei progetti accademici del nostro tempo, come se l’accademia riuscisse a darsi senso solo attraverso una funzione riflessiva rispetto alla politica; ma quando la parola d’ordine si traduce in un’indagine sui meccanismi effettivi di condivisione e coinvolgimento la ricostruzione storica può uscire dalle aule e diventare ipotesi per un agire futuro.
Bernhard Huss (Ed.), Petrarchism: Competing Models for Early Modern Community Building (1400-1700), Universitätsverlag Winter Heidelberg, pagg. 172, €33
04 settembre 2025
Calo dei lettori? Meno calcoli e maggiore qualità
Il virgolettato nasce dal fatto che con questo amico ne abbiamo parlato a partire da una riflessione uscita su “Il Tascabile” a firma Christian Raimo, intitolata La polemica si risolve con la politica. L’articolo di Raimo apre alcuni spunti, individuando un nervo scoperto che ha a che fare con la sostenibilità dell’editoria, la formazione degli autori e il declino della lettura in Italia. Raimo infatti riporta anche alcuni dati: «Nelle prime 24 settimane del 2025 sono stati comprati due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni: un dato che equivale al 5% di lettori persi, uno su venti. Le statistiche sul lettorato del 2024 ci davano già conto di una condizione rovinosa. L’Istat rilevava che solo il 40% legge almeno un libro l’anno. Altre statistiche – Eurostat – mostravano che l’Italia è il Paese in Europa dove si legge meno dopo Cipro e la Romania. La percentuale di chi legge almeno un libro l’anno, secondo Eurostat, è del 35%, a confronto di una media europea del 53%. Nel Nord Europa si arriva almeno al 70%, in Francia, Germania e Spagna siamo abbondantemente sopra il 50». Quello di Raimo è, in definitiva, anche un richiamo all’impegno civico ed educativo, ma per noi è pure motivo di frustrazione nel constatare una situazione così grigia, una diagnosi così nefasta. Capita poi che qualche settimana dopo questo pezzo di Raimo, sempre sul “Tascabile” ne esca un altro, in risposta, a firma di Stefano Jorio, intitolato Coscienza politica, letteratura e industria, come in un vero e proprio dibattito culturale a distanza d’altri tempi. Nella sua riflessione Jorio evidenzia con chiarezza ciò che considera una tensione nel ragionamento di Raimo: identificare troppo ciecamente la letteratura con l’industria editoriale, fino a parlare di filiera e crisi economica come se un calo nelle vendite fosse la misura ultima del valore culturale, quando invece «chi conosce le pratiche dell’industria editoriale – scrive Jorio – sa bene quanto poco abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della promozione del brand».
Il dibattito mette per cui in luce una sorta di inconciliabilità tra il mondo “aziendale” della scrittura, con storytelling pensati come prodotto («per un pubblico di massa»), e una visione più umanistica. Da qui la riflessione da bar con il mio amico: e se anche nel mondo della cultura fossimo nella stessa situazione che viviamo con il mondo della politica? Ovvero un graduale disamoramento che ha portato all’astensione dal voto perché “non ci sono valide alternative, mi turo il naso e voto Tizio, oppure Caio”? Quindi, il problema a questo punto sarebbe a monte, di «fiducia» nel prodotto: se ci fossero libri validi, tornerebbero a esserci anche i lettori? Domanda aperta. Non ci sono risposte giuste o sbagliate. Non c’è proprio possibilità di avere risposte, ma è importante sottolineare un aspetto, per non generalizzare con luoghi comuni. La verità è che i libri validi ci sarebbero anche, il problema semmai è che spesso forse tendono a perdersi nel marasma di titoli che escono ogni giorno, hanno vita breve, a volte brevissima, e qualche volta alle presentazioni di cui sopra magari arrivano già belli che trapassati. Insomma, che ci sia un calo di lettori in termini quantitativi (meno copie vendute, meno pubblico), e che questo calo si possa attribuire a una crisi multipla che comprende fattori vari quali il potere d’acquisto, il ruolo della scuola, i social, la concorrenza di un mondo altro in digitale, è un fatto. Che la qualità e la forza dell’offerta culturale vada rivista anche in termini di investimenti dall’alto è un altro fatto, perché se la cultura è assoggettata alla calcolatrice, allora sarà sempre prodotta al ribasso: «Il calo di vendite – scrive Jorio – indica una crisi di sovrapproduzione alla quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente, se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla». Nel dubbio continueremo a discuterne davanti a un bicchiere, che forse non risolverà la crisi in atto, ma aiuterà a mandar giù un po’ di amarezza.
22 agosto 2025
Nuovo romanzo storico: Il Cavaliere e l'ombra (2025)
Attraverso la voce di Cesare, fedele compagno e testimone, si ripercorre l’intero arco della vita di Marino - da Napoli a Roma, da Torino a Parigi - in un’Italia barocca attraversata da splendori e censure, mecenati e inquisitori, amori e tradimenti. È la storia di un uomo che ha sfidato la norma e la misura, che ha cantato l’amore e l’ambiguità, la gloria e la perdita, oscillando sempre sul filo sottile che separa il genio dalla rovina.
Ma questo non è solo il ritratto di un poeta. È anche un viaggio dentro le contraddizioni della parola, del potere, della fede e del desiderio. Nelle pagine si rifrange il confronto tra libertà espressiva e controllo ideologico, tra classicismo e sperimentalismo, tra la necessità di appartenere e l’urgenza di disobbedire.
Accanto a Marino, si muovono personaggi reali e immaginari: cardinali, principi, pittori, avversari, confidenti, amanti. Figure attraversate dalla stessa domanda che inquieta il protagonista: quanto costa essere sé stessi in un mondo che chiede conformità?
Il romanzo unisce rigore storico e invenzione narrativa. Restituisce i chiaroscuri di un’epoca affascinante, facendo rivivere salotti letterari e prigioni, duelli poetici e udienze papali, fughe e ritorni. E mette al centro la forza della lingua: barocca, eccessiva, musicale. Una lingua che osa, che incanta, che ferisce.
Marino non è soltanto il nome di un autore. È anche la metafora di ogni voce che cerca di farsi sentire, di ogni artista che si misura con il rischio dell’abbandono, con la dolcezza e la crudeltà del successo.
Questo romanzo è per chi crede che la letteratura non sia solo memoria, ma anche lotta. E che dietro ogni verso ci sia una domanda ancora viva: chi ha diritto di parlare, e a quale prezzo?
Puoi acquistare il mio romanzo storico sulla vita del poeta Giovan Battista Marino, "Il Cavaliere e l'ombra" (2025), al seguente link:
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