20 ottobre 2024

Angelica contesa da tanti uomini sceglie (e insegna) il vero amore

La straordinaria attualità della vicenda sentimentale raccontata nell’Orlando furioso: la protagonista femminile è una donna emancipata che non si fa possedere, ma fugge e si fa beffe dei maschi
di Marco Erba
Nell’Orlando furioso, capolavoro del poeta rinascimentale Ludovico Ariosto, la figura di Angelica si impone subito all’attenzione. Angelica, principessa del Catai (la Cina), giunge in Occidente insieme al paladino cristiano Orlando, uno dei guerrieri più valorosi dell’esercito di Carlo Magno. L’opera è infatti ambientata secoli prima, all’epoca degli sconti tra cristiani e saraceni spesso enfatizzati dalla letteratura. Ma si sa, la narrazione dello scontro di civiltà, sovente finalizzata a consolidare il potere politico, funziona in tutte le epoche.
Per Ariosto però questo scontro di civiltà è solo lo sfondo per narrare meravigliose avventure, con arguta ironia. Non c’è alcun realismo storico nel suo racconto: si parla, ad esempio, dei saraceni che assediano Parigi, un falso così clamoroso da essere divertente.
Angelica, dunque, giunge al campo cristiano. I suoi modi, la sua bellezza orientale, il suo fascino soggiogano moltissimi cavalieri, che dimenticano il re e la guerra santa e desiderano solo conquistare il cuore della principessa. Per Angelica nasce una contesa tra Orlando e suo cugino Rinaldo, altro guerriero valorosissimo. Re Carlo ne approfitta: toglie Angelica a Orlando, la assegna al vecchio e saggio Namo, duca di Baviera, e promette la donna a quello dei due cugini che meglio si comporterà nell’imminente battaglia con i saraceni.
Finora Angelica è solo un simulacro, un oggetto di desiderio. È una donna vista come un trofeo da possedere, di cui si guarda solo l’attraente involucro. Angelica è il desiderio inconfessabile di ciascuno: una bellezza irraggiungibile, e che per questo accende ancor di più di passione. Un seducente corpo senz’anima. La descrizione di Ariosto potrebbe anche oggi interrogarci su come vengono presentati i corpi, sia femminili che maschili, sui social, nella pubblicità, a livello mediatico. Persone o oggetti? Storie o icone? Sostanza o apparenza?
Ariosto vive in una società maschilista. L’uomo agisce, decide, governa. La donna gli appartiene: di essa può disporre.
Ma l’autore del Furioso è un genio e spariglia le carte. Angelica non si fa possedere, sfugge. Non solo, si fa beffe di ogni maschio alfa che pensa di poterla dominare.
I saraceni sconfiggono i cristiani. Angelica approfitta del caos, salta su un cavallo e si lancia al galoppo nel bosco. Parte così un infinito inseguimento, senza esito per i paladini.
Angelica a un certo punto si nasconde in un cespuglio, presso al quale giunge Sacripante, re di Circassia, saraceno. Anch’egli è innamorato di lei. Prorompe in un lamento d’amore, senza sapere che Angelica è proprio lì, al suo fianco, e lo ascolta. La principessa decide così di uscire allo scoperto per farsi aiutare. Sacripante, a questo punto, si rivela per ciò che è: uno smargiasso, che pensa di essere in grado di usare gli altri come vuole, grazie al suo potere e alla sua stazza. Sacripante paragona la verginità di Angelica a una rosa e si dice certo di poter cogliere questo fiore. Il guerriero usa parole che alla nostra sensibilità suonano brutali, violente, agghiaccianti:
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno.
«Mi prenderò Angelica» dice Sacripante. «A lei piacerà; piace a tutte le donne, anche se a volte fingono di no. Ma io non mi fermerò di certo, neanche se mi respinge, tanto è per finta».
Parole atroci e, purtroppo, ancora attualissime: la volontà di Angelica non conta, in consenso non esiste: c’è solo il brutale desiderio maschile. Ariosto si fa beffe di Sacripante. Il rozzo re di Circassia ha appena finito di parlare ed ecco che spunta un cavaliere vestito di bianco. Il nuovo venuto sfida Sacripante a duello, lo sconfigge in un lampo e lo lascia a terra umiliato. Pochi versi dopo si scopre chi è il misterioso cavaliere: è Bradamante, una fortissima guerriera cristiana. Una donna!
Il maschilismo brutale di Sacripante viene dunque umiliato da una donna libera, controcorrente, che invece di restare nel ruolo sociale che la società dell’epoca le vorrebbe imporre, decide di combattere e di sfidare gli uomini alla pari, sconfiggendoli. Un’icona affascinante, che anticipa di secoli le lotte per l’emancipazione femminile.
Sacripante, ferito nell’orgoglio, vedrà sfuggirsi anche Angelica poco dopo, quando a lui si contrapporrà in un nuovo scontro lo stesso Rinaldo, in precedenza citato. Tutti si battono per possedere Angelica e lei fugge sempre, ricordandoci che l’amore è dono reciproco, non è mai cattura e conquista.
Dopo mille peripezie, anche Angelica troverà l’amore. E accadrà non con un guerriero oberato di trofei, non con un tronfio cavaliere pieno di sé, non con qualcuno che indossa una impenetrabile armatura. L’amore non tollera corazze, non può riguardare gli egolatrici incapaci di sentire e vedere l’altro.
L’amore è dono, appunto. L’amore è tenerezza, è compassione, è cura. Per questo i poeti spesso paragonano l’amore a una ferita: è un modo iperbolico per dire che amare significa sentire l’altro dentro, provare la sua gioia, ma anche essere disposti a condividere la sua sofferenza.
L’amore vero di Angelica nasce dalle ferite. Ferite che Medoro, un oscuro fante saraceno, ha subìto perché sorpreso dai cristiani mentre era impegnato nella nobile impresa di dare sepoltura al corpo del suo re Dardinello, caduto in battaglia e dimenticato. Medoro è una persona nobile d’animo e generosa: l’amore si radica nella parte più bella di noi e la risveglia. L’amore rifiuta le dinamiche di potere.
Angelica si imbatte in lui, quasi morto; lo cura, grazie alle tecniche mediche che ha imparato in Oriente. E lì accade un miracolo:
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte; insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.
Angelica, a poco a poco, si scopre innamorata di Medoro. Prendendosi cura di lui più che di sé stessa, donandogli ciò che ha, scopre un amore ben diverso da quello preteso dagli arroganti paladini. Un amore autentico: Assai più larga piaga e più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l’altrui che ’l proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
ch’a risanar chi lei fere e tormenta.
Angelica «più cura l’altrui che il proprio male». Amare non è dimenticarsi di sé stessi, non è umiliarsi: amare è però mettere il bene dell’altro al primo posto. Se ciò avviene reciprocamente, il cammino può iniziare.
È Angelica a rivelare il suo amore a Medoro. Anche questo passaggio è contro ogni regola dell’epoca, che vuole che sia l’uomo a chiedere in sposa la donna. Angelica invece fa il primo passo, è contraccambiata: i due si sposano nell’umile casa del pastore che li ha accolti. Un matrimonio antitradizionale, senza riti né banchetti. Un matrimonio semplice, che punta all’essenza. L’amore rende liberi, non si fa rinchiudere in schemi. L’amore apre avventure nuove, non è una storia già scritta.
Angelica e Medoro partono insieme. Orlando, il grande paladino che in virtù del suo valore e della sua smisurata forza si credeva in diritto di possedere la principessa del Catai, giunge nei pressi della casa del pastore, nei luoghi in cui è sbocciato l’amore tra i due. Quando scopre cosa è accaduto, si dispera, si strappa la corazza, distrugge tutto ciò che incontra, ormai folle.
Rivedrà Angelica tempo dopo, emergendo nudo dalla sabbia della spiaggia di Tarragona: la principessa sta per caso passando di lì con Medoro. Orlando la insegue, cerca di catturarla; lei gli sfugge per l’ennesima volta. Ma la cosa terribile è che Orlando, ormai pazzo, non la riconosce nemmeno:
Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:
così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.
Il suo inseguimento è bestiale. Orlando vede un “delicato volto” e lo desidera. Non vede la persona, non la riconosce, perché la passione egoistica e il desiderio di possesso nulla hanno a che fare con l’amore. Lo stalker non vede l’altro, non lo riconosce. Vede solo il suo desiderio, vede solo sé stesso.
«Avvenire» di lunedì 14 ottobre 2024

17 ottobre 2024

La teoria del bellum iustum

di Elio Marinoni
È sorprendente lo sforzo speculativo prodotto dall’intellighenzia romana, soprattutto nell’ultimo secolo della repubblica e in età augustea, per giustificare il processo di espansione dello stato attraverso le guerre di conquista: ne nacquero la teoria della guerra giusta e quella della missione imperiale di Roma, che interpretava la conquista come dominio dei migliori, apportatore di prosperità e di pacificazione alle popolazioni sottomesse. Teorie tutt’altro che superate, se solo pensiamo quante operazioni militari vengano ancor oggi ammantate dal velo del peacekeeping.
L’inarrestabile espansione dello stato romano, dapprima da città stato a potenza italica e poi da questa a impero mondiale, trova una legittimazione nell’elaborazione di due teorie: quella del bellum iustum («guerra giusta») e quella della missione imperiale del popolo romano. La prima, espressa in modo particolarmente chiaro da Cicerone, tende a rappresentare la guerra come un’extrema ratio alla quale ricorrere solo in difesa della propria sicurezza e di quella dei propri alleati, e per porre le condizioni di una pace migliore (De republica, III, 34-35; De officiis, I, 35). Il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire una pace migliore vale anche per la conflittualità all’interno dello stato: «Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra», afferma Cicerone (Filippiche, VII, 16, 9) avendo di mira Antonio. È il principio espresso proverbialmente dal motto Si vis pacem, para bellum, un principio di cui è facile constatare la permanenza in molti stati moderni. La teoria del bellum iustum si estende anche alle modalità di conduzione della guerra: «C’è anche un diritto di guerra, così come in pace» fa dire lo storico augusteo Livio a Furio Camillo (Ab urbe condita, V 27, 6); e al comportamento del vincitore nei confronti dei vinti, che dev’essere ispirato a criteri di giustizia e di moderazione (Cicerone, De officiis, I 35).
L’idea che il popolo romano sia stato chiamato da un’entità superiore a governare i popoli trova una premessa teorica già in Cicerone: «la natura stessa ha assegnato il dominio assoluto ai migliori con grande vantaggio dei deboli» (De republica, III, 37); ma viene compiutamente elaborata dagli autori dell’età augustea. Virgilio fa predire a Giove «un impero senza fine» ai Romani, che saranno «signori del mondo» e con Augusto estenderanno l’impero fino all’Oceano, fino ad assicurare la pacificazione del mondo intero (Eneide, I, vv. 276-294). Il concetto è ribadito nei celeberrimi moniti che l’ombra di Anchise rivolge a Enea: «Tu, o Romano, ricorda di governare con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre l’abitudine alla pace, usare clemenza ai sottomessi e sterminare i superbi» (Eneide, VI, vv. 851-853). Alle virgiliane profezie di Giove e di Anchise fa da pendant in Livio la profezia di Romolo: «Va’, annunzia ai Romani che gli dei vogliono la mia Roma capo del mondo; curino pertanto l’arte militare, e sappiano […] che nessuna umana potenza potrà resistere ai Romani» (Storia di Roma dalla fondazione, I 16).
L’espansione territoriale avvenuta nel corso dei secoli è dunque interpretata come un’opera di pacificazione dei popoli sotto il dominio civilizzatore, giusto e clemente di Roma. Non lo affermano solo i poeti e gli scrittori ma l’imperatore stesso, sia attraverso i rilievi allegorici dell’Ara Pacis Augustae, che raffigurano un mondo prospero e felice pacificato dalle armi romane, sia nell’autobiografia ufficiale, da lui dettata e fatta esporre in pubblico (Res gestae divi Augusti).
Negli anni delle guerre civili succeduti all’assassinio di Cesare, Virgilio e Orazio si erano fatti interpreti dell’ansia di pace e di rinnovamento che attraversava il mondo romano, vagheggiando una nuova età dell’oro a Roma (Ecloga IV di Virgilio) o un’utopica isola dei beati (Epodo 7 di Orazio), ma successivamente questi poeti si fecero portavoce dell’ideologia augustea, che giustificava la guerra sia pure interpretandola come strumento di pacificazione. Un totale ripudio della guerra, soprattutto come scelta di vita individuale, si trova invece nei poeti elegiaci (Tibullo, Properzio, Ovidio), che a essa contrappongono la milizia d’amore (si vedano p. es. Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 53-55; Properzio, Elegie, III, 5, 1-2; Ovidio, Gli amori, III, 2, vv. 49-50).
Il ripudio della guerra si esprime efficacemente nella maledizione all’inventore delle armi che apre l’Elegia I, 10 di Tibullo (e che sarà posta da Ermanno Olmi in epigrafe al suo film Il mestiere delle armi): «Di quale natura fu l’uomo, che per primo produsse le orribili spade? Quanto feroce e veramente di ferro egli fu! Allora sorsero stragi di uomini, sorsero allora battaglie; allora si schiuse una più rapida strada verso la morte funesta» (vv. 1-4). Alla maledizione subentra però, nei versi successivi (7-10), una riflessione sull’avidità come vera causa di tutte le guerre. L’avidità di ricchezza e di potere è additata altresì come l’esclusivo motore della politica romana di espansione nelle denunce dell’imperialismo romano da parte dei capi di popolazioni straniere, di cui la storiografia latina ha lasciato trapelare la voce: dal re del Ponto Mitridate (Sallustio, Storie, IV, 69) al capo gallico Critognato (Cesare, De bello Gallico, VII, 77, 15-16) al calèdone Calgàco, che parla dei Romani in questi termini: «Predatori del mondo intero, […] rubare, massacrare, rapinare, lo chiamano con falsi nomi impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace» (Tacito, Agricola, 30, 4-5). La condanna della guerra è integrata negli elegiaci dall’elogio della pace, associata all’idea di prosperità (p. es. Tibullo, Elegie, I, 10, vv. 45-50). La pace, invocata dai poeti e ufficialmente proclamata dalla stessa propaganda imperiale, non era però un’esigenza largamente condivisa, in particolare da coloro che della guerra campavano. Lo dimostra l’accoglienza riservata dalla truppa, nel 69 d. C., alla predicazione pacifista di Musonio Rufo, un cavaliere romano imbevuto di stoicismo, ritenuta intempestiva da Tacito: «costui, insinuandosi tra le truppe e mettendo in risalto i vantaggi della pace e i pericoli della guerra, andava facendo scuola in mezzo a quella gente d’arme. Fatto […] che ai più dava fastidio, non mancando poi chi avrebbe voluto toglierselo dai piedi e dargliene un sacco, se, piegandosi alle esortazioni dei meno scalmanati e alle minacce degli altri, non l’avesse smessa con quella poco opportuna cattedra di sapienza» (Storie, III 81). Era stato il greco Polibio (II sec. a. C.), a lungo vissuto a Roma, a capire che l’impero romano aveva ormai, nei 53 anni di conquiste territoriali dal 221 al 168 a. C., globalizzato il mondo: «Anteriormente […] le vicende delle varie parti del mondo erano per così dire isolate le une dalle altre […]. Dopo questi avvenimenti invece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario […] e i fatti sembrano tutti coordinarsi a un unico fine» (Storie, I, 1, 1-3).
Allo stesso modo, toccherà a un greco profondamente integrato, l’intellettuale Elio Aristìde, celebrare, alla fine del II sec. d. C., la pax Romana, riconoscendo che «per essere tranquilli basta essere Romani o piuttosto sudditi di Roma» e che i Romani «misurando l’ecumene, aggiogando con ponti d’ogni sorta i fiumi, tagliando i monti per aprire la strada ai carri, riempiendo il deserto di rifornimenti» hanno «messo in tutto il mondo ordine e ricchezza» (Elogio a Roma, 100-101).

03 marzo 2024

Il complesso di Telemaco (M. Recalcati)

di Massimo Recalcati
Quello che qui nomino come “complesso di Telemaco” vuole essere un modo per accostare il nuovo disagio della giovinezza provando a dare una chiave di lettura inedita alla relazione tra genitori e figli in un tempo – quale è il nostro – in cui, come faceva già notare Eugenio Scalfari in un articolo di quindici anni fa intitolato significativamente Il padre che manca alla nostra società (su “la Repubblica” del 27 dicembre 1998), l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è eclissata, è irreversibilmente tramontata. La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva sono noti da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre. Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi non indica una crisi provvisoria della funzione paterna destinata a lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Rilanciare il tema del tramonto dell’imago paterna non significa rimpiangere il mito del padre-padrone. Personalmente non ho nessuna nostalgia per il pater familias. Il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurarne l’antica e perduta potenza simbolica, ma piuttosto quello di interrogare ciò che resta del padre nel tempo della sua dissoluzione. È questo che mi interessa. In tale contesto la figura di Telemaco mi appare un punto-luce. Essa mostra l’impossibilità di separare il movimento dell’ereditare – l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto – dal riconoscimento del proprio essere figli. Senza questo riconoscimento non si dà alcuna filiazione simbolica possibile.
Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre. L’ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna quella dell’invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’auto-accecamento – come marchio indelebile della colpa –, quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio che Telemaco si confonda con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per il padre-eroe è una malattia sempre in agguato. Il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle! Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, padri-papa, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica. Le nuove generazioni sono impegnate – come farà Telemaco – nel realizzare il movimento singolare di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità. Certo, il Telemaco omerico si aspetta di vedere all’orizzonte le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Eppure egli potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. Nel complesso di Telemaco in gioco non è l’esigenza di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone. La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.
Introduzione al volume «Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre», Feltrinelli, Milano 2013, pp. 1-6

01 febbraio 2024

Il cristianesimo tra cancel culture e apologetica. Ma una terza via c’è

Né glorificare, né ripudiare. O distinguere i buoni dai cattivi. Invece, come nei casi di Lutero contro gli ebrei e del “Sillabo”, si può creare uno spazio per storie diverse e per il dibattito
di Pierre Gisel
Anticipiamo alcuni stralci del dossier «La trappola del nuovo inizio», contenuto nel primo numero del 2024 del quindicinale “Il Regno-Attualità”. In esso il teologo Pierre Gisel, docente emerito della Facoltà di Teologia dell’Università di Losanna, mette in guardia dal desiderio di purificazione della storia e di “nuovo inizio” portato avanti da cancel culture e wokismo.
La cancel culture – «cultura dell’annullamento» o «della cancellazione» – ha invaso la scena pubblica. Si tratta di cancellare quel passato che non possiamo più riconoscere come nostro o che non vogliamo più che torni alla ribalta. Questo perché il passato è troppo pieno di colpe o di crimini, di violenza, schiavitù e repressione delle differenze, siano esse di genere, razza o cultura. Colpe e crimini che una storia costruita – quella dei vincitori – ha rimosso e ricoperto di una visione ideale, ma ingannevole e distorta. Questa cancel culture viene ora rafforzata dal woke, il «risveglio» che le minoranze hanno avuto nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti. Un movimento di base che mira a portare davanti ai nostri occhi e alle nostre responsabilità la realtà della schiavitù (e oltre a ciò, d’ogni oppressione e servitù), la realtà delle donne, tra seduttrici fatali e streghe (e oltre a ciò, d’ogni dominazione binaria), la realtà delle culture disprezzate (e oltre a ciò, di tutte le differenze nei modi di vivere lo spazio e il tempo, e le relazioni con il mondo e con gli altri esseri umani), la realtà degli eretici (e oltre a ciò, di tutti i dissidenti o semplici minoranze). Si chiede giustizia, giustamente, e uguaglianza, altrettanto giustamente, ma ciò può aprire la porta a un egualitarismo sul quale è bene interrogarsi.
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)
Come controesempio di quello che la cancel culture comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il Sillabo romano del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)
Il Sillabo tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.
«Avvenire» di martedì 30 gennaio 2024

16 gennaio 2024

Nuovi video

Sul mio canale youtube ho inserito nuovi video legati alla letteratura latina.

Nel dettaglio ti segnalo i video su Ennio, Catone e Terenzio.


Buono studio
Postato il 16 gennaio 2023

07 luglio 2023

Il Genoa di Montale, l'Inter di Sereni: il calcio dei poeti, una passione in versi

L'autore di "Ossi di seppia" ostentatava pubblicamente indifferenza verso il gioco del pallone, ma Luciano Bianciardi sul Guerin Sportivo gli diede del bugiardo: "Mente, ogni domenica aspetta con ansia il risultato del Grifone". E Vittorio Sereni, interista "perso", ammise di star male fisicamente per la sua squadra e di aver deciso, "per viltà" di disertare il derby
di Lorenzo Catania
L’Italia, patria dei campanilismi, anche sportivi, era estranea al poeta Eugenio Montale, che, interrogato su quale squadra di calcio tifasse, rispondeva: "Non tifo per nessuna squadra. Non ho mai visto un incontro di calcio e sono assolutamente contrario ad ogni forma di campanilismo, ivi compreso quello sportivo". Sebbene questa risposta rispecchi il temperamento del poeta degli Ossi di seppia, lo scrittore Luciano Bianciardi, dalle pagine del “Guerin Sportivo”, dove teneva un rubrica di posta con i lettori, gli dava del bugiardo: "Montale è un enorme bugiardo: non è vero che non abbia mai veduto un incontro di calcio, e che sia contrario a ogni forma di campanilismo. Guarda la partita, alla televisione, tutte le domeniche, e aspetta con ansia il risultato del Genoa, perché è tifoso genoano incallito".
Non era tifoso incallito Umberto Saba, autore delle Cinque poesie per il gioco del calcio, andato per caso e per curiosità allo stadio, attratto dal tifo per la squadra della sua città, la Triestina, che negli anni Trenta del Novecento giocava e si difendeva bene nel campionato di serie A. In Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba racconta che nell’autunno del 1933 diventa tifoso grazie a un giovane amico che una domenica gli cede il biglietto per assistere alla partita "fra la potentissima Ambrosiana - così è ribattezzata l’Inter pochi anni dopo l’avvento del fascismo, perché la parola Internazionale non piace al regime - e la vacillante Triestina", che si conclude con un pareggio senza reti. Quel giorno Saba, quando vede i giocatori della squadra cittadina uscire di corsa nel campo, si lascia contagiare subito dalla passione sportiva, dettata dalla corrispondenza fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti e gli "eroi" nel rettangolo verde: "Di corsa usciti in mezzo al campo, date / prima il saluto alle tribune. Poi, / quello che nasce poi / che all’altra parte vi volgete, a quella / che più nera s’accalca, non è cosa /da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome". Lo spettacolo della folla, gli umori e le reazioni che esibisce sulle gradinate, speculare a quello che si svolge sul campo di gioco, offre al poeta l’occasione per accostarsi a una realtà semplice e vitale, di cui sa riprodurre con narrazione epica figure e gesti, che lo aiuta a uscire temporaneamente dalla condizione esistenziale dell’escluso, a essere "come tutti / gli uomini di tutti / i giorni": "Anch’io tra i molti vi saluto, rosso /alabardati, /sputati /dalla terra natìa, da tutto un popolo / amati. // Trepido seguo il vostro gioco. / [...]Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane!".
A differenza di Saba che a cinquant’anni diventa “tifoso” un po’ per caso, il poeta Vittorio Sereni fin da giovane è un assiduo frequentatore della Civica Arena, e poi dello stadio di San Siro. Un interista "perso", al punto di stare fisicamente male per la propria squadra ed essere costretto "per viltà" a disertare il derby dopo un micidiale 4 a 4 del 6 febbraio 1949. Come Saba, Sereni è affascinato dal gioco del calcio inteso come festa popolare dotata di un senso che va oltre il significato sportivo. Spettacolo vibrante di colori e di suoni, come quello che lo spinge a raccontare nella poesia Domenica sportiva una sfida a San Siro tra l’Inter e la Juventus: "Il verde è sommerso in neroazzurri. /Ma le zebre venute da Piemonte /sormontano riscosse a un hallalì/ squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un rame bianconero. /La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. / Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella". Sfida che procura al poeta, aperto alla vita, momenti di gioia che si oppongono alla negatività della storia. Ma quando l’incanto di suoni e di colori viene spezzato dal fischio finale dell’arbitro, chiosa Sereni nello scritto Il fantasma nerazzurro del 1964, il divertimento cede al malumore della festa finita e "un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso" invade l’animo degli spettatori che svuotano le gradinate, sicché "l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo". E tuttavia, scrive ancora il poeta, "Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite nella sua monotonia".
Spesso nel "gruppetto di interisti scelti", guidato da Sereni, che nelle domeniche degli anni Settanta si reca allo stadio, ci sono il musicista Gino Negri e i poeti Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. Quest’ultimo, ispirato dalla squadra del cuore, scrive i versi della poesia intitolata “53”, dove l’inizio della passione calcistica, vissuta dall’autore-bambino come un apprendistato alla vita, e il ricordo dei suoi idoli calcistici (il portiere Giorgio Ghezzi e gli attaccanti Lennart Skoglund, Stefano Nyers e Benito Lorenzi) si mescolano all’amore-nostalgia per il padre suicida: "L’uomo era ancora giovane e indossava /un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il Kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi/ era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva".
«la Repubblica» del 7 luglio 2023

01 maggio 2023

Voglio nascere

di Alessandro D'Avenia
Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza. E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto. Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa?
Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne». Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come? Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola ...
Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».
«Corriere della sera» del 1° maggio 2023

16 dicembre 2022

C'è anche un profitto buono e non si chiama mai usura

di Luigino Bruni
C’era un tempo in Europa quando i Papi emettevano Bolle per risolvere controversie su banche e interessi. Quando "l’economia della salvezza" e "la salvezza dell’economia" erano entrambe al centro dell’impegno dei cristiani, dell’intelligenza dei teologi, dell’osservazione della pubblica opinione. Quando i dibattiti sull’eucarestia e quelli sulla legittimità dell’usura avevano la stessa dignità teologica e umana, perché la Chiesa e la gente sapevano bene che si viveva e si moriva anche per la mancanza di credito o per troppi prestiti cattivi.
Dibattiti talmente accesi che fu necessaria una Bolla papale per chiudere (senza riuscirci del tutto) la lunga controversia attorno ai Monti di Pietà. La querelle riguardava in particolare il prestito a interesse che praticavano quei banchi, che gli avversari consideravano usuraio. Leone X, pur riconoscendo come possibili le ragioni degli oppositori, definì legittimo per quelle banche richiedere il pagamento di un interesse sul prestito, «purché destinato esclusivamente a le spese degli occupati e di altre cose attinenti al mantenimento dell’organizzazione, purché non ne venga ricavato alcun profitto» (Inter Multiplices, 1515). La bolla affermava dunque che i Monti non incorrevano nel peccato di usura («pecunias licite mutuant»), che non erano istituzioni usuraie per il solo fatto di chiedere il pagamento di un interesse (in genere attorno al 5% annuo). La stessa Bolla ribadiva la definizione dell’usura: «Perché questo è il vero significato dell’usura: quando una cosa produce guadagno per il solo uso della cosa stessa ("ex usu rei"), senza alcun lavoro, alcuna spesa o alcun rischio». Alcun lavoro ... alcun rischio.
Il prestito a interesse dei Monti di Pietà venne considerato non usuraio a condizione dunque che l’interesse non fosse espressione di uno scopo di lucro, ma il legittimo rimborso delle spese di funzionamento della banca. Tanto che, nell’ultima sessione della Bolla, Leone X non manca di specificare che l’ideale resta il non-pagamento dell’interesse (almeno parziale) da parte dei poveri, quando fondi pubblici o filantropici potessero coprire le spese di gestione in modo che non farle gravare «interamente sui poveri». Il centro della polemica era dunque lo scopo di quell’interesse, lo "spirito" di quella piccola somma aggiunta al capitale. Lo spirito non doveva essere il lucro, ma la copertura dei costi.
Ma era proprio questo "spirito" a essere messo in questione dagli oppositori dei minori francescani. Tra questi il monaco Nicolò Bariani, piacentino, che nel 1494 pubblicò un libretto che fece molto rumore: De Montis Impietatis. Bariani era agostiniano, quindi formato alla visione biblica e patristica su denaro e interesse. Per lui ogni somma di denaro restituita che eccedeva il capitale prestato era usura, quindi illecita, incluse quelle dei Monti di Pietà. I francescani invece distinguevano. Come? E in base a quale "teoria" potevano distinguere un fiorino usuraio da uno legittimo?
Ciò che è certo è che quel dibattito tra teologi su economia e usura fu molto appassionante, controverso, duro, aspro, fin dal XIII secolo. Ma soprattutto fu geniale, e ci lascia ancora sbigottiti a distanza di molti secoli per l’intelligenza e la ricchezza. I francescani, prima di essere teologi, erano attenti osservatori della realtà, soprattutto quella delle nuove città italiane ed europee; erano meno interessati alle dispute astratte e deduttive (incluse quelle aristoteliche), e molto più alla comprensione dei comportamenti effettivi della gente. Per questo osservavano le prassi dei mercanti, conoscevano i cambiamenti economici e civili in un tempo molto dinamico. E facevano un’operazione essenziale in ogni tentativo di comprensione della realtà complessa: il discernimento. Distinguevano, separavano, facevano ordine tra fenomeni che potevano apparire simili in certe cose ma erano molto diversi in altre, e quali cose-dimensioni erano davvero quelle decisive in quel dato tempo e in quel dato luogo. In quei laboratori che erano le città mercantili dei secoli XIII-XV, capirono, ad esempio, che il mercante che nel contratto include nel prezzo del bene un valore aggiunto per compensarlo dal rischio di imprese molto incerte via mare o terra, o il cambiavalute che a Genova o a Venezia doveva tener conto delle oscillazioni delle monete e delle inflazioni, facevano mestieri diversi dal prestatore professionista di denaro a usura che se ne stava tranquillo e al caldo nel suo banco (come affermava Alessandro d’Alessandria, Tractatus de usuris, inizio XIV sec.). Tutti e tre pagavano o chiedevano interessi sul denaro, è vero, e questo elemento comune era sufficiente a molti monaci predicatori per condannarli tutti come usurai; ma, dicevano i francescani, le tre situazioni erano molto diverse nella sostanza benché simili nella forma. E questo fa emergere qui il gran tema della differenza tra profitto e rendita.
Prima di tutto, però, dobbiamo prendere sul serio una strana amicizia medioevale, quella tra i francescani e i mercanti. Francesco inizia la sua storia in Assisi distinguendosi e rifiutando l’economia di suo padre Bernardone, un mercante; i francescani, poco dopo, si ritrovano alleati dei mercanti nelle città italiane e europee del Duecento e Trecento. Altro paradosso generativo. Intanto c’è, anche qui, un dato concreto: diversamente da altri ordini religiosi, i francescani avevano sviluppato più di altre famiglie religiose, fin dai tempi di Francesco, un ordine secolare: il Terz’Ordine. Avevano dentro la loro comunità carismatica dei laici, e tra questi molti mercanti. Li conoscevano, erano loro fratelli. Prima di giudicarli erano i loro amici, e ne conoscevano il cuore. Non è da escludere che le prime parole buone sul mercato e sul profitto siano nate durante qualche pasto di fraternità, quando qualche mercante-fratello si era confidato con loro parlando del suo mestiere difficile e anche rischioso. E avendo visto l’anima di un mercante quei teologi hanno visto un’anima diversa del mercato. Hanno prima amato e stimato i mercanti poi i mercati. E così li hanno capiti, ieri e oggi, perché non c’è vera conoscenza senza amore-agape. In tutto questo c’è un forte messaggio di teologia cristiana: la storia non è fiction, la Provvidenza parla anche dentro gli avvenimenti concreti, lo Spirito spira pure dentro un contratto di un commerciante e nella bottega di un artigiano.
E così, guardando e amando il mondo, essi si accorsero che quei mercanti non erano usurai, anche quando dovevano chiedere o pagare interessi. Ecco il tema dello spirito di quel lucro, dello spirito di quel capitalismo. E da lì si convinsero che era la stessa idea di condanna formale e astratta dell’interesse sul denaro che andava ripensata, perché non tutti gli interessi erano uguali. C’era un tipo di interesse che era soltanto giusta compensazione per alcuni aspetti inerenti alla stessa attività economica e commerciale. Capirono che se i mercanti non includevano la remunerazione del rischio dentro i loro contratti, quell’attività non si poteva sviluppare, e sarebbe stato un grave danno per le città - i francescani avevano ben chiara la funzione di Bene comune dei mercanti onesti (i "boni" mercanti). Pagare un premio assicurativo per le imprese marittime (foedus nauticus) o a chi prestava i capitali per una lunga missione commerciale in Oriente, era ben diverso dal prendere denaro a usura da un banco. Ciò che era usuraio era lo spirito, non la somma materiale di denaro in sé pagata per interesse, perché qualche volta quel denaro era semplicemente una componente collaterale, necessaria e buona di alcune operazioni imprenditoriali.
Se, poi, quel mercante si trovava nelle condizioni di poter prestare del denaro ad altri mercanti - mercanti e banchieri all’inizio erano attività molto intrecciate -, ecco fare la sua comparsa un’altra buona ragione per chiedere un pagamento di un interesse: il lucro cessante. Se, cioè, il mercante Lapo presta 1.000 fiorini al collega Duccio e così rinuncia lui stesso a usare quei denari, è lecito che Duccio ricompensi con un interesse Lapo per il guadagno che il suo collega non ha potuto ottenere a causa del suo prestito - l’equivalente del moderno "costo opportunità". Questo interesse è dunque buono, a condizione però che chi prestava il denaro fosse un mercante e che quindi l’uso alternativo ipotetico fosse un uso produttivo, non sterile prestito. Ciò che sembrava essere usura, nel caso di buoni mercanti era invece solo il compenso per l’incertezza, per l’inflazione, la variabilità dei mercati. Tanto che in molte città i mercanti erano annoverati tra i pauperes, sebbene non indigenti, perché dipendenti radicalmente dall’incertezza. Eccoci allora alla distinzione decisiva: quella tra profitto e rendita, oggi totalmente dimenticata. Per quei francescani teologi ed economisti se l’interesse ha la natura di profitto del buon mercante è lecito; se invece quella stessa somma di denaro ha la natura di rendita, è usura. Il profitto è la remunerazione per l’attività lecita e rischiosa del mercante, un guadagno che giunge come premio del suo lavoro, rischio, della perizia, dell’innovazione, del suo prezioso mestiere. La rendita invece è un guadagno che giunge per il solo fatto di esercitare una posizione di potere sul denaro, senza lavoro e senza correre alcun vero rischio d’impresa. Ecco perché fra Angelo da Chivasso, discutendo delle penalità pecuniarie che potevano essere aggiunte a un mutuo per tutelarsi dalla ritardata restituzione, afferma che si tratta di una pretesa legittima, a meno che ad avanzare tale richiesta sia una persona che «abitualmente presta a usura».
Ma come si fa a distinguere il tipo di mercante che presta denaro? È qui che i canonisti e teologi francescani diedero il loro meglio, scrivendo lunghe digressioni sulle eccezioni dell’usura e sulle mille casistiche concrete. Un ruolo essenziale lo svolgeva sempre la fama, un giudizio collettivo espresso da una comunità esperta composta dai mercanti onesti. Non capiamo l’etica economica medioevale e della prima modernità senza questa dimensione collettiva del mercato e dei mercanti. Il corpo sociale, con la sua intelligenza diffusa sapeva distinguere un usurario da un mercante. Nell’economia, e in ogni ambito complesso della vita, l’attività economica che uccide e quella che fa vivere si intrecciano ogni giorno, in ogni luogo. Solo chi sa entrare, per amore della propria gente, nelle midolla vive di questo intreccio riesce a servire l’economia e la vita. Il resto è, ieri e oggi, astratto moralismo, che finisce quasi sempre per nuocere alle persone oneste. Tutto questo l’Economia di Francesco lo sapeva, l’Economia di Francesco lo sa.
«Avvenire» del 21 novembre 2020

01 dicembre 2022

Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni

di Elena Dusi
Lo "spirito del tempo" è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d'aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro "spirito del tempo" come orientato verso un progressivo inaridimento.
Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall'università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma siè ripresa dagli anni ' 80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del '900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l' arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni '70.
Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni '80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all'università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all'emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell'aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese.
Per quanto riguarda l'Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un'impressione diversa. «Studiare la frequenza dell'uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L'"Antilingua" descritta da Italo Calvino (l'italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di "terrore semantico"».
Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4 per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibilie l'elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d' autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal» spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l'"umore" degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni '80 usano spesso la parola "io", poco il "noi" e sono sempre più ricche di "odio", "uccidere" e "vaffanculo". Lo spirito del tempo, chiaramente.
«la Repubblica» del 21 marzo 2013

21 settembre 2022

La politica di Sancho Panza

di Alessandro D’Avenia
Quando il duca e la duchessa d’Aragona sentono parlare di don Chisciotte e dello scudiero Sancho Panza vogliono burlarsi di loro e così creano false avventure per i due bizzarri protagonisti del romanzo di Cervantes. Tra questi inganni c’è quello di assegnare a Sancho ciò che ha sempre desiderato e che il suo padrone gli ha promesso per i suoi servigi: un’isola.
E così i duchi affidano a Sancho la fantomatica isola di Barattaria, finzione che lui crede reale perché viene insediato in un sontuoso palazzo — si tratta solo di uno dei palazzi dei duchi in un abitato di mille abitanti — da cui governare ciò che non ha mai visto di persona. L’episodio di Sancho, nella seconda parte del capolavoro di Cervantes, mi è tornato in mente come sintesi di una campagna elettorale fatta di promesse spesso illusorie e di politici che non sono diversi da noi che ce ne lamentiamo sempre, ma rispecchiano, nel bene e nel male, chi e come siamo.
Così un contadino si ritrova governatore di un’isola che è solo la finzione creata dai veri potenti per farsi beffe di lui che si illude di poterla amministrare standosene a palazzo, tanto da scrivere alla moglie: «Tra pochi giorni partirò per il governo, a cui vado con un vivissimo desiderio di far quattrini». L’episodio mette a nudo, con tragica ironia, sia il volto stupido sia quello oppressivo del potere. Come va a finire?
Il potere (come sostantivo) serve a porre altri in condizione di potere (come verbo). Il mio potere di insegnante ha lo scopo di mettere i miei studenti in condizione di poter essere se stessi e procurarsi autonomamente ciò che serve per riuscirci per poi mettersi, con la loro unicità, a servizio della società. Se il potere non ha questo effetto generativo, diventa controllo ed è degenerativo: non rende l’altro se stesso ma lo usa e lo rende impotente, sterile.
La politica è quindi quella parte delle creazioni umane (cultura) che consente di armonizzare l’unicità dei singoli con la società: dà la possibilità di scoprire e mettere al servizio della comunità il modo irripetibile in cui l’umano si realizza in ciascuno di noi. Se questo non accade è perché il potere è tanto tirannico quanto burocratico, cioè per chi lo detiene è «il potere per il potere», il fine è affermare se stessi e la comunità un mezzo, per chi è sottomesso è «il potere di nessuno», che ostacola e blocca l’iniziativa personale perché non ha nessun desiderio che altri abbiano potere.
Se è vero che la politica serve a incoraggiare la creatività e l’azione personali, liberandole da ciò che le blocca, allora oggi la politica conosce una crisi profonda. A scuola, per esempio, ci sono problemi incancreniti da decenni che, seppur evidenti, non vengono affrontati: lo Stato si riduce a un participio passato. Di fronte all’impossibilità di risolvere questi problemi con un po’ di coraggio e buon senso, il popolo si disaffeziona alla politica che appare superflua e diventa propaganda, come dimostra una campagna elettorale ridotta spesso a televendita. Invece il politico, e in generale qualsiasi creatore, è colui la cui immaginazione e opera sono capaci di attivare l’azione assopita degli altri uomini, accendendo focolai creativi: genera perché è generoso.
In queste settimane ho visto pochi atti creativi che metteranno in moto un futuro e molte promesse di «piacere». Il piacere è la strategia della natura per l’autoconservazione, l’azione politica è chiamata invece ad andare oltre il mantenimento dei più forti e a spezzare con il nuovo (dalla ruota alla democrazia, dal fuoco alla letteratura) le catene del «è tutto inutile».
Oltre alla rara presenza di un discorso che esuli dal pragmatismo dell’immediato di stampo quasi esclusivamente economico, non ho ascoltato quasi nulla di «creativo» nei due ambiti culturali su cui misuro la civiltà di una società: ospedali e scuole. I luoghi della cura rendono subito evidente quanto si è capaci di guidare una comunità. Oggi per fare un esame clinico urgente bisogna aspettare mesi, vari studenti hanno iniziato l’anno scolastico senza i professori di alcune materie, diversi alunni con bisogni specifici non hanno l’insegnante di sostegno... Come fa il cittadino a vivere creativamente se è tutto impegnato a sopravvivere?
Al mattino del giorno in cui gli spararono (il 15 settembre 1993), Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo ucciso dalla mafia quando iniziavo il quarto anno, era andato per l’ennesima volta negli uffici del comune a chiedere che, in un quartiere popoloso come Brancaccio di cui era parroco, si aprisse una scuola media nei locali dove la mafia svolgeva attività di spaccio e prostituzione. Quella scuola è stata aperta solo dieci anni dopo perché i politici locali erano collusi con la mafia: c’è voluta la vita di un uomo per aprire un «nuovo» corso. Leggo in queste ore che le opere per evitare le esondazioni del Misa che ha travolto tante vite nelle Marche sono state finanziate nel 1986 ma sono rimaste ferme. È triste ma da noi finché non muore qualcuno la politica non si muove.
«Lasciatemi tornare alla mia antica libertà: lasciatemi andare a ricercare la mia vita passata. Io non sono nato per fare il governatore. Io son fatto più per arare, zappare, potare le viti, che per fare leggi e difendere province e regni. San Pietro sta bene a Roma! Con questo voglio dire che ognuno deve fare il mestiere per cui è nato. Sono venuto senza un soldo e senza un soldo me ne vado; tutto al contrario di come son soliti andarsene i governatori di altre isole. Siccome vado via da qui senza un soldo, questa è la prova più evidente che ho governato come un angelo». Così si pronuncia Sancho Panza dopo il suo fallimento nel governare la finta isola di Barattaria: pochi giorni dopo l’inizio del suo incarico, ammette di aver cercato solo potere e quattrini, ma scopre che per governare servono dedizione e servizio. È onesto con se stesso: va via senza un soldo. Immaginate se un politico dovesse restituire i soldi dello stipendio a fronte della mancata realizzazione di ciò che ha promesso nel programma per cui è stato votato.
Il mio stipendio a scuola è giustificato dal fatto che i miei studenti crescono in cultura e libertà, altrimenti devo andare a fare altro. Nella scuola in cui insegno prendiamo i ragazzi al primo anno di superiori e li portiamo alla maturità, si chiama continuità didattica e permette di fare un progetto educativo paziente e attento in cui al centro c’è il singolo ragazzo e non un cervello senza storia e senza corpo.
Quella della continuità didattica è una scelta «politica»: consente di suscitare l’energia creativa dei ragazzi meglio del continuo cambiamento dei docenti. Quando vedo sbocciare i loro «poteri» faccio politica e non esercito un potere fine a se stesso, burocratico e tirannico. La buona politica genera «essere» negli e dagli altri, perché libera il potere dell’altro, non seduce e non controlla con il piacere o con la violenza. Mi auguro che chi la settimana prossima riceverà il compito di governare il nostro Paese abbia capacità e coraggio per fare ciò che ogni genitore responsabile farebbe per un figlio, e non governi, come Sancho Panza, per far quattrini su un’isola che non ha mai visto e se ne sta in un palazzo che è una tragica finzione ordita dai duchi, che si fanno beffe di un povero contadino e rappresentano il vero potere, che gode della propria autoaffermazione con oppressione, menzogna e disprezzo.
Nel romanzo di Cervantes lo scrittore Milan Kundera vede giustamente l’inizio della modernità: «Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. L’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni». Oggi siamo al capolinea di questi tempi di spartizione, infatti si è esaurito l’umanesimo che li aveva inaugurati sopravvalutando il potere autonomo dell’uomo (da creatura a creatore) e il conseguente stile «onnipotente» di dominio su cose e persone, con effetti evidenti in ogni ambito: dall’ecologia alla politica. Spero che chi ci governerà appartenga a un nuovo umanesimo in cui il potere non è dominio ma creatività, non controllo ma servizio, non monologo ma dialogo, non palazzo ma comunità, e che a differenza dell’isola che non c’è di Sancho governi sulla Penisola che c’è. Lunedì prossimo la rubrica sarà in pausa per dar spazio proprio agli esiti elettorali che guarderemo, silenziosi e speranzosi, dal nostro ultimo banco. Buon voto a tutti.
«Corriere della sera» del 19 settembre 2022

20 luglio 2022

La storia degli uomini che tentarono di uccidere Hitler. E perché l’Operazione Valchiria fallì

Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica
di Carlo Galli
"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.
L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.
Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
«la Repubblica» del 19 luglio 2022

05 giugno 2022

Gli abiti decorosi da avere a scuola

A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del Paese e quindi va rispettata e onorata
di Dacia Maraini
Siamo veramente liberi di vestirci come vogliamo? Credo che in questa asserzione di libertà ci sia un inganno. Noi in realtà non ci vestiamo come ci pare, ma come pare alla moda. Provate a chiederlo a una costumista del cinema. Lei saprà riconoscere un decennio dai vestiti che si usavano all’epoca: gli anni 60, gli anni 80, gli anni 2000, eccetera. Nessuno sfugge alla moda. Come spiegare altrimenti i blue jeans stracciati e bucati che non si sono mai visti primae che ora portano con noncuranza tantissime ragazze e ragazzi,? Come spiegare i tatuaggi sulle braccia, sul collo, sulle gambe in bella vista? Come spiegare i capelli rasati sulle tempie e sbuffanti in alto come un bauletto per i maschi e le pettinature alla madonna, lisci sulle orecchie che finiscono coi riccioli sul collo per le femmine? Come spiegare le scarpe firmate, il colore viola che viene gettato sul mercato un anno e l’anno dopo il colore verde, eccetera?
I vestiti parlano, rappresentano un linguaggio molto evidente e quasi mai riguardano la libertà personale. Di solito suggeriscono linguaggi che vogliono rappresentare la seduzione, ma in maniera semplificata e stereotipata. È il mercato che diffonde l’uso di un abito e noi ci adeguiamo bene o male, perché il conformismo fa parte del nostro comportamento sociale. Nessuno vuole rimanere indietro rispetto alle novità in fatto di abiti e colori. Detto questo anche la moda in qualche modo suggerisce un linguaggio diverso secondo i luoghi che si vogliono frequentare. Non si va in chiesa vestiti come per andare in palestra, così come non si va a un matrimonio con abiti da casa, e non si va in viaggio vestiti come per ballare in un locale notturno, e non ci si presenta a un esame con gli infradito ai piedi.
Che la scuola abbia perso la sua sacralità purtroppo lo dimostra proprio questa idea che la si possa frequentare senza nessun riguardo per quello che rappresenta. E non parlo di compostezza, contegno, pudore, come dice il vocabolario descrivendo la parola «decenza» ma di rispetto per una casa del pensiero dove ogni altro linguaggio dovrebbe tacere per lasciare spazio alla difficile arte dell’apprendimento.
Credere che sia libertà l’adeguarsi a una moda sciatta, cinica che mette sul mercato il corpo femminile come oggetto di predazione è un equivoco purtroppo poco compreso.
La moda non sfugge a una antica idea di divisione dei ruoli sessuali. A volte, quella piu intelligente e personale, gioca col teatro. Lo vediamo nelle sfilate che diventano sempre piu stravaganti e improbabili come abiti da indossare, suggerendo voglie di gioco e di travestimento.
Rimane il fatto che ogni luogo pretende un suo linguaggio. E rispettarlo non significa mancanza di libertà, ma al contrario vuol dire riconoscere la specificità dell’occasione. Tenersi alle regole, anche quelle non scritte, non è segno di conformismo, ma anzi, di grande lealtà verso le istituzioni e di quello che rappresentano. Un paese senza istituzioni va alla deriva, in preda al piu prepotente. Le istituzioni sono alla base della democrazia e non tenerne conto è pericoloso.
La scuola è una istituzione sacra. A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del paese e quindi va rispettata e onorata.
Se però è vero che la preside (preferisco usare questo termine al posto di dirigente, perché credo che la scuola debba formare e non produrre) ha detto le parole riportate dai suoi allievi, non posso che mettermi dalla parte degli studenti. Non si tratta più di «decoro» o «pudore» ma di disprezzo per un corpo fuori dai canoni di bellezza che suggerisce il mercato.
Non si tratta di una questione di «cellulite», di «sederi», di «tette», come si è scritto, ma di pensiero. Il linguaggio di un luogo dedito alla riflessione e alla conoscenza vuole una discrezione che riguarda la serietà dell’impresa di apprendimento e non altro. Anche il pensiero dei dirigenti ha un linguaggio e quello della preside, sempre che sia vero ciò che si riferisce, lo trovo fuori luogo e sprezzante. Non è denigrando la ragazza grassa o la esibizionista con la cellulite che si chiarisce una idea di decoro. La scuola è il luogo della piu grande libertà, ma di una libertà che non riguarda la moda e il mercato, bensì la necessità di imparare a pensare con la propria testa, difendendo la dignità dell’immaginazione, che di solito è ben lontana da quella che suggerisce una moda subdola e vorace.
«Corriere della sera» del 5 giugno 2022

21 gennaio 2022

Nei film di animazione ci sono troppi balletti?

La tendenza a far esibire sempre di più i personaggi in coreografie sembra studiata per i social media e gli adattamenti teatrali: come dimostra Encanto, l'ultimo film Disney. Tutto questo però va a scapito della qualità
di Jason Kehe
Encanto, l'ultimo musical animato di Disney, sarebbe stato un film perfetto, se solo non avesse subito due distinte forme di pressione. La prima, è la pressione di dover avere il finale perfetto. Non un lieto fine, intendiamoci: il lieto fine è accettabile. Il finale perfetto, che accettabile non lo è mai, è quello in cui ogni tipo di delusione, ingiustizia o rimpianto è superato come (o letteralmente) per magia all'ultimo secondo disponibile, privando il pubblico dell'opportunità di accettare con serenità il meraviglioso struggimento a cui si erano preparati per tutto il film. Purtroppo, la pressione del finale perfetto è così totalizzante nell'animazione americana che lamentarsene ora, nel ventunesimo secolo, sembra un esercizio inutile oltre che assurdo. Personalmente, penso sia molto più sofisticato criticare la seconda forma di pressione, molto meno dibattuta, con cui si trova a dover fare i conti un povero film come Encanto, la storia di una famiglia colombiana che perde i suoi poteri magici: la pressione di dover far ballare i suoi personaggi.
Anche meno Esattamente, ballare. Muovere il corpo a tempo di musica, spesso, nel caso dei protagonisti del film, per nessuna altra ragione se non che sono fisicamente in grado di farlo. In La pressione sale, il brano più accattivante di Encanto, una delle sorelle Madrigal, Luisa, canta della pressione - un tema ricorrente - di essere forte per tutta la famiglia. Luisa si riferisce sia alla forza emotiva che fisica, dal momento che il suo superpotere è la forza sovrumana (ma anche perché Lin-Manuel Miranda, che ha scritto la versione originale della canzone, non è un autore particolarmente sottile). "E sale la pressione e non conosce stop, woah - canta Luisa -. Senti questo tic, tic, tic? Presto esploderò, woah". Per buona parte dalla canzone, questa donna adulta decisamente ben piazzata si esibisce in movenze hip hop come una ragazzina smaniosa davanti allo specchio della sua cameretta. "Sembra un balletto di TikTok", mi ha detto un'amica durante la visione. Più tardi quella stessa sera, mi ha mandato un TikTok di un adolescente in carne e ossa che eseguiva gli stessi identici passi.
Una strategia calcolata Ovviamente è probabilmente l'esatto scenario che Disney sperava si verificasse nelle fasi di scrittura della scena: dare alla grande signora triste dei passi accattivanti, mettere sullo sfondo un tormentone con un linguaggio da lettino di uno psicoanalista, e mettersi comodi ad aspettare la pubblicità gratuita. Una mossa di pessimo gusto in qualsiasi circostanza, che diventa però quasi disgustosa nel contesto dell'intrattenimento animato. Tra principali forme d'arte, la danza è l'unica che richiede forza fisica. Tutto il suo fascino, infatti, si basa sulle contorsioni del corpo umano, il sudore, il rischio e il trionfo: Cos'è quella mossa? Come fa a piegarsi così? Perderà il ritmo? I personaggi dei musical dal vivo ballano di continuo, ed è giusto così: fa parte dei manierismi della narrazione. Anche i cartoni animati generati al computer sono liberi di ballare, ma quando lo fanno, emerge la consapevolezza esasperata dei loro movimenti affettati e della motivazione, diegetica o meno, che li spinge a ballare, tanto più quando quei movimenti sembrano essere al servizio di una strategia di social media. I casqué e le giravolte cominciano a sembrare pixel iperprogrammati e inquietanti che eseguono plié e piroette con una precisione perfetta e perturbante. Nella sua forma peggiore, è un insulto alla fisicità della danza. Quindi è meno divertente da guardare. Anzi, gran parte delle volte è semplicemente imbarazzante. Quando Luisa dal niente si mette a ballare, a metà di un film in cui altrimenti non dimostra alcun interesse attivo nelle arti performative, oppure quando un'altra delle sorelle Madrigal canta e si dimena sulle note dell'altro successo formato TikTok di Encanto, Non si nomina Bruno, si percepisce non solo la speranza della Disney che gli spettatori facciano loro queste movenze, ma anche la rinuncia da parte della società, in atto ormai da molti anni, all'animazione come genere a sé. A un film come Encanto non è più concesso di esistere come prodotto isolato, ma deve invece strizzare l'occhio a ogni tipo di possibile crossover, dagli spettacoli sul ghiaccio e le giostre nei parchi a tema fino, in modo ancora più spudorato, ai musical di Broadway.
Lo spartiacque E la 'colpa' è di Frozen. Prima della sua uscita nelle sale nel 2013, la differenza tra un musical di Broadway e un musical Disney era quantomeno oggetto di dibattito. Certo, classici come Il Re Leone, La Bella e la Bestia e La Sirenetta hanno tutti finito con l'essere adattati per Broadway, più o meno in questo ordine decrescente di qualità, ma nessuno di questi film era stato realizzato nella speranza di essere portato a teatro. Innanzitutto, i balletti erano pochissimi, oltre che casuali e goffi. Le parti cantate, poi, erano più contenute e meno appariscenti. Tutto questo è cambiato il giorno in cui Idina Menzel, la cantante che ha prestato la sua impressionante voce ai musical Rent e Wicked, è stata scelta per Frozen (nella versione italiana la parte è stata affidata a Serena Autieri), facendo entrare Disney nell'era della spettacolarizzazione delle canzoni. Da allora, film come Oceania, Coco, Frozen II, e ora Encanto sono tutti sembrati meno pellicole di animazione, quanto piuttosto produzioni teatrali, pronte per essere adattate da un momento all'altro per il palcoscenico. Nel 2018, Frozen ha debuttato a Broadway. Probabilmente lo spettacolo attira spettatori nuovi e più giovani verso un settore in difficoltà. Ma è una ragione sufficiente per giustificare l'infinito circolo vizioso di progetti che non sono pensati per nessuna piattaforma specifica e che uniformano e rendono più superficiale il nostro intrattenimento, frustrando ogni speranza di espressione artistica? Probabilmente no. Se ogni cosa viene fatta per essere trasformata in altro, allora niente può eccellere nell'essere se stesso: la storia dei nostri tempi. Encanto aveva un potenziale enorme. Da qualche parte al suo interno c'è un film che è un piccolo miracolo di sensibilità sul tema del retaggio culturale e del rinnovamento, che viene tristemente fagocitato dalle pressioni aziendali per trasformarlo in qualcosa più, e di meno. Per Disney, oggi l'animazione è un mezzo e non un fine, che comincia con tutti quei traumatici balletti fuori tempo e scollati dalla realtà, propinati a un pubblico confuso e impressionabile. Niente è più al sicuro, nemmeno i finali. Pensateci un attimo: se i personaggi animati non fossero costretti ad agitare il loro corpo digitale al ritmo delle canzoni, ci sarebbe meno pressione per chiudere con il finale perfetto. Se avessero sentimenti reali, i personaggi non avrebbero nulla per cui ballare.
«Wired» del 20 gennaio 2022

10 gennaio 2022

Una scuola senza talento

di Alessandro D’Avenia
La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità». Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa? Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita. Nell’italiano delle origini talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
«Corriere della sera» del 10 gennaio 2022

20 agosto 2021

Videolezioni sul metodo di traduzione dal latino

Un metodo di traduzione dal latino
di Francesco Maria Toscano
Se hai desiderio (o necessità) di ripassare un po' di latino e di far tuo un metodo di traduzione da questa lingua fantastica, ora hai a disposizione una serie di videolezioni con esempi pratici e suggerimenti vari.
Spero ti saranno utili!

1) Un'introduzione
2) La prima e la seconda declinazione
3) Gli aggettivi della prima classe
4) Il 'maledetto' nominativo della terza declinazione.
5) La terza declinazione


Ne seguiranno altri ...

Post del 20 agosto 2021

06 agosto 2021

Addio Pennacchi, la politica in scrittura

L’autore è stato colto da un malore improvviso. Con “Canale Mussolini” aveva vinto il premio Strega
di Fulvio Panzeri
Se ne è andato all’età di 71 anni, Antonio Pennacchi, uno degli scrittori più originali, che ha fatto della sua terra, l’Agro Pontino, lo scenario in cui indagare una storia poco nota, ma assolutamente importante per capire certe vicende 'marginali' dell’Italia nel Novecento.
Pennacchi nasce a Latina nel 1951 e si porta dentro da sempre una predestinazione a dover raccontare la storia della sua terra, anche se ha sempre dichiarato la sua fatica nello scrivere, un modo di essere scrittore per vocazione e non per evasione. Del resto alla scrittura arriva tardi, a cinquant’anni, dopo aver fatto l’operaio in fabbrica ai turni di notte per più di trent’anni e ricordando sempre, con grande senso di riconoscenza, verso i suoi compagni di lavoro, quel periodo, anche dopo essere diventato uno scrittore importante e molto amato dal pubblico. L’esordio avviene con Mammut, nel 1994, che appunto ripercorre il tempo della fabbrica e ricostruisce una grande epopea operaia che aveva scritto già diversi anni prima, nel 1987 e riporta nella letteratura italiana, un tema che era rimasto assente, rispetto all’attenzione dei nostri narratori, dopo l’interesse che aveva avuto negli anni Sessanta (si veda su tutti l’esempio di Ottiero Ottieri). Romanzo dopo romanzo, da Palude (1985) a Una nuvola rossa (1998), arriva ad avere il primo successo di critica e di pubblico con Il Fasciocomunista che nel 2003 vince il Premio Napoli e nel 2007 diventò anche un film cult di quegli anni: Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Lucchetti, storia su una giovinezza italiana, con un protagonista, ribelle di natura, ontologicamente anarchico, che vive le passioni con la ingenuità e l’incanto di chi nella vita non si vuole risparmiare, che vuol mantenere una sua posizione autonoma, senza lasciarsi andare a nessun compromesso, un po’ come Pennacchi è stato come uomo e come scrittore, libero, con il coraggio di sostenere sempre le sue posizioni, non solo per se stesso, ma soprattutto per il bene comune. Diceva infatti che dal dopoguerra «abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare». Forse va in questo senso la necessità di raccontare la sua terra, la sua gente e la sua storia in quello che è il romanzo che gli ha dato popolarità, vincendo a sorpresa, e contraddicendo tutte le previsioni della vigilia, nel 2010 il premio Strega con Canale Mussolini, incentrato sulle storie della famiglia Perruzzi, esempio di quelle migliaia di coloni che vengono fatti insediare in quella terra bonificata da poco dove si trovavano le Paludi Pontine, bonifica il cui asse portante è appunto il Canale Mussolini. Pennacchi racconta un’epopea familiare, che è sostenuta dal carisma e dal coraggio di zio Pericle, che tieni uniti i genitori, i tre fratelli, legati da un affetto profondo fatto di poche parole e di gesti assoluti, di promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro. È un mondo al quale Pennacchi rimane poi legato negli anni, tanto che cinque anni dopo, nel 2015, pubblica sempre da Mondadori, Canale Mussolini. Parte seconda, in cui indaga gli anni che seguono il 25 maggio del 1944, quando finisce la guerra a Littoria, la futura Latina, e il Canale Mussolini, dopo essere stato per mesi la dura linea del fronte di Anzio e Nettuno, torna a essere quello che era, il perno della bonifica pontina da cui inizia la ricostruzione mentre al Nord la guerra continua e coinvolge i Peruzzi su tutti i fronti, repubblichini o partigiani. Un’opera che nella sua mente non forse non sarebbe finita mai, tanto da aver dichiarato di stare già pensando a un terzo Canale Mussolini e forse a un quarto. Intanto ci lascia il suo ultimo romanzo, uscito nell’autunno scorso, La strada del mare, in cui ritornano i protagonisti di questa sua epica dell’Agro Pontino, un’epica che riporta i protagonisti della famiglia Perruzzi, agli anni Cinquanta, in cui la “piccola” storia delle famiglie originarie del Veneto, che erano scese nel basso Lazio alla fine degli anni Venti per colonizzare le terre bonificate dal regime fascista, e che lì erano diventate una comunità, s’intreccia e si mescola con la “grande” Storia italiana e internazionale del dopoguerra.
«Avvenire» del 4 agosto 2021