03 marzo 2024

Il complesso di Telemaco (M. Recalcati)

di Massimo Recalcati
Quello che qui nomino come “complesso di Telemaco” vuole essere un modo per accostare il nuovo disagio della giovinezza provando a dare una chiave di lettura inedita alla relazione tra genitori e figli in un tempo – quale è il nostro – in cui, come faceva già notare Eugenio Scalfari in un articolo di quindici anni fa intitolato significativamente Il padre che manca alla nostra società (su “la Repubblica” del 27 dicembre 1998), l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è eclissata, è irreversibilmente tramontata. La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva sono noti da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre. Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi non indica una crisi provvisoria della funzione paterna destinata a lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Rilanciare il tema del tramonto dell’imago paterna non significa rimpiangere il mito del padre-padrone. Personalmente non ho nessuna nostalgia per il pater familias. Il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurarne l’antica e perduta potenza simbolica, ma piuttosto quello di interrogare ciò che resta del padre nel tempo della sua dissoluzione. È questo che mi interessa. In tale contesto la figura di Telemaco mi appare un punto-luce. Essa mostra l’impossibilità di separare il movimento dell’ereditare – l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto – dal riconoscimento del proprio essere figli. Senza questo riconoscimento non si dà alcuna filiazione simbolica possibile.
Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre. L’ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna quella dell’invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’auto-accecamento – come marchio indelebile della colpa –, quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio che Telemaco si confonda con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per il padre-eroe è una malattia sempre in agguato. Il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle! Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, padri-papa, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica. Le nuove generazioni sono impegnate – come farà Telemaco – nel realizzare il movimento singolare di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità. Certo, il Telemaco omerico si aspetta di vedere all’orizzonte le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Eppure egli potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. Nel complesso di Telemaco in gioco non è l’esigenza di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone. La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.
Introduzione al volume «Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre», Feltrinelli, Milano 2013, pp. 1-6

01 febbraio 2024

Il cristianesimo tra cancel culture e apologetica. Ma una terza via c’è

Né glorificare, né ripudiare. O distinguere i buoni dai cattivi. Invece, come nei casi di Lutero contro gli ebrei e del “Sillabo”, si può creare uno spazio per storie diverse e per il dibattito
di Pierre Gisel
Anticipiamo alcuni stralci del dossier «La trappola del nuovo inizio», contenuto nel primo numero del 2024 del quindicinale “Il Regno-Attualità”. In esso il teologo Pierre Gisel, docente emerito della Facoltà di Teologia dell’Università di Losanna, mette in guardia dal desiderio di purificazione della storia e di “nuovo inizio” portato avanti da cancel culture e wokismo.
La cancel culture – «cultura dell’annullamento» o «della cancellazione» – ha invaso la scena pubblica. Si tratta di cancellare quel passato che non possiamo più riconoscere come nostro o che non vogliamo più che torni alla ribalta. Questo perché il passato è troppo pieno di colpe o di crimini, di violenza, schiavitù e repressione delle differenze, siano esse di genere, razza o cultura. Colpe e crimini che una storia costruita – quella dei vincitori – ha rimosso e ricoperto di una visione ideale, ma ingannevole e distorta. Questa cancel culture viene ora rafforzata dal woke, il «risveglio» che le minoranze hanno avuto nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti. Un movimento di base che mira a portare davanti ai nostri occhi e alle nostre responsabilità la realtà della schiavitù (e oltre a ciò, d’ogni oppressione e servitù), la realtà delle donne, tra seduttrici fatali e streghe (e oltre a ciò, d’ogni dominazione binaria), la realtà delle culture disprezzate (e oltre a ciò, di tutte le differenze nei modi di vivere lo spazio e il tempo, e le relazioni con il mondo e con gli altri esseri umani), la realtà degli eretici (e oltre a ciò, di tutti i dissidenti o semplici minoranze). Si chiede giustizia, giustamente, e uguaglianza, altrettanto giustamente, ma ciò può aprire la porta a un egualitarismo sul quale è bene interrogarsi.
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)
Come controesempio di quello che la cancel culture comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il Sillabo romano del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)
Il Sillabo tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.
«Avvenire» di martedì 30 gennaio 2024

16 gennaio 2024

Nuovi video

Sul mio canale youtube ho inserito nuovi video legati alla letteratura latina.

Nel dettaglio ti segnalo i video su Ennio, Catone e Terenzio.


Buono studio
Postato il 16 gennaio 2023

07 luglio 2023

Il Genoa di Montale, l'Inter di Sereni: il calcio dei poeti, una passione in versi

L'autore di "Ossi di seppia" ostentatava pubblicamente indifferenza verso il gioco del pallone, ma Luciano Bianciardi sul Guerin Sportivo gli diede del bugiardo: "Mente, ogni domenica aspetta con ansia il risultato del Grifone". E Vittorio Sereni, interista "perso", ammise di star male fisicamente per la sua squadra e di aver deciso, "per viltà" di disertare il derby
di Lorenzo Catania
L’Italia, patria dei campanilismi, anche sportivi, era estranea al poeta Eugenio Montale, che, interrogato su quale squadra di calcio tifasse, rispondeva: "Non tifo per nessuna squadra. Non ho mai visto un incontro di calcio e sono assolutamente contrario ad ogni forma di campanilismo, ivi compreso quello sportivo". Sebbene questa risposta rispecchi il temperamento del poeta degli Ossi di seppia, lo scrittore Luciano Bianciardi, dalle pagine del “Guerin Sportivo”, dove teneva un rubrica di posta con i lettori, gli dava del bugiardo: "Montale è un enorme bugiardo: non è vero che non abbia mai veduto un incontro di calcio, e che sia contrario a ogni forma di campanilismo. Guarda la partita, alla televisione, tutte le domeniche, e aspetta con ansia il risultato del Genoa, perché è tifoso genoano incallito".
Non era tifoso incallito Umberto Saba, autore delle Cinque poesie per il gioco del calcio, andato per caso e per curiosità allo stadio, attratto dal tifo per la squadra della sua città, la Triestina, che negli anni Trenta del Novecento giocava e si difendeva bene nel campionato di serie A. In Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba racconta che nell’autunno del 1933 diventa tifoso grazie a un giovane amico che una domenica gli cede il biglietto per assistere alla partita "fra la potentissima Ambrosiana - così è ribattezzata l’Inter pochi anni dopo l’avvento del fascismo, perché la parola Internazionale non piace al regime - e la vacillante Triestina", che si conclude con un pareggio senza reti. Quel giorno Saba, quando vede i giocatori della squadra cittadina uscire di corsa nel campo, si lascia contagiare subito dalla passione sportiva, dettata dalla corrispondenza fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti e gli "eroi" nel rettangolo verde: "Di corsa usciti in mezzo al campo, date / prima il saluto alle tribune. Poi, / quello che nasce poi / che all’altra parte vi volgete, a quella / che più nera s’accalca, non è cosa /da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome". Lo spettacolo della folla, gli umori e le reazioni che esibisce sulle gradinate, speculare a quello che si svolge sul campo di gioco, offre al poeta l’occasione per accostarsi a una realtà semplice e vitale, di cui sa riprodurre con narrazione epica figure e gesti, che lo aiuta a uscire temporaneamente dalla condizione esistenziale dell’escluso, a essere "come tutti / gli uomini di tutti / i giorni": "Anch’io tra i molti vi saluto, rosso /alabardati, /sputati /dalla terra natìa, da tutto un popolo / amati. // Trepido seguo il vostro gioco. / [...]Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane!".
A differenza di Saba che a cinquant’anni diventa “tifoso” un po’ per caso, il poeta Vittorio Sereni fin da giovane è un assiduo frequentatore della Civica Arena, e poi dello stadio di San Siro. Un interista "perso", al punto di stare fisicamente male per la propria squadra ed essere costretto "per viltà" a disertare il derby dopo un micidiale 4 a 4 del 6 febbraio 1949. Come Saba, Sereni è affascinato dal gioco del calcio inteso come festa popolare dotata di un senso che va oltre il significato sportivo. Spettacolo vibrante di colori e di suoni, come quello che lo spinge a raccontare nella poesia Domenica sportiva una sfida a San Siro tra l’Inter e la Juventus: "Il verde è sommerso in neroazzurri. /Ma le zebre venute da Piemonte /sormontano riscosse a un hallalì/ squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un rame bianconero. /La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. / Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella". Sfida che procura al poeta, aperto alla vita, momenti di gioia che si oppongono alla negatività della storia. Ma quando l’incanto di suoni e di colori viene spezzato dal fischio finale dell’arbitro, chiosa Sereni nello scritto Il fantasma nerazzurro del 1964, il divertimento cede al malumore della festa finita e "un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso" invade l’animo degli spettatori che svuotano le gradinate, sicché "l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo". E tuttavia, scrive ancora il poeta, "Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite nella sua monotonia".
Spesso nel "gruppetto di interisti scelti", guidato da Sereni, che nelle domeniche degli anni Settanta si reca allo stadio, ci sono il musicista Gino Negri e i poeti Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. Quest’ultimo, ispirato dalla squadra del cuore, scrive i versi della poesia intitolata “53”, dove l’inizio della passione calcistica, vissuta dall’autore-bambino come un apprendistato alla vita, e il ricordo dei suoi idoli calcistici (il portiere Giorgio Ghezzi e gli attaccanti Lennart Skoglund, Stefano Nyers e Benito Lorenzi) si mescolano all’amore-nostalgia per il padre suicida: "L’uomo era ancora giovane e indossava /un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il Kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi/ era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva".
«la Repubblica» del 7 luglio 2023

01 maggio 2023

Voglio nascere

di Alessandro D'Avenia
Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza. E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto. Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa?
Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne». Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come? Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola ...
Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».
«Corriere della sera» del 1° maggio 2023

16 dicembre 2022

C'è anche un profitto buono e non si chiama mai usura

di Luigino Bruni
C’era un tempo in Europa quando i Papi emettevano Bolle per risolvere controversie su banche e interessi. Quando "l’economia della salvezza" e "la salvezza dell’economia" erano entrambe al centro dell’impegno dei cristiani, dell’intelligenza dei teologi, dell’osservazione della pubblica opinione. Quando i dibattiti sull’eucarestia e quelli sulla legittimità dell’usura avevano la stessa dignità teologica e umana, perché la Chiesa e la gente sapevano bene che si viveva e si moriva anche per la mancanza di credito o per troppi prestiti cattivi.
Dibattiti talmente accesi che fu necessaria una Bolla papale per chiudere (senza riuscirci del tutto) la lunga controversia attorno ai Monti di Pietà. La querelle riguardava in particolare il prestito a interesse che praticavano quei banchi, che gli avversari consideravano usuraio. Leone X, pur riconoscendo come possibili le ragioni degli oppositori, definì legittimo per quelle banche richiedere il pagamento di un interesse sul prestito, «purché destinato esclusivamente a le spese degli occupati e di altre cose attinenti al mantenimento dell’organizzazione, purché non ne venga ricavato alcun profitto» (Inter Multiplices, 1515). La bolla affermava dunque che i Monti non incorrevano nel peccato di usura («pecunias licite mutuant»), che non erano istituzioni usuraie per il solo fatto di chiedere il pagamento di un interesse (in genere attorno al 5% annuo). La stessa Bolla ribadiva la definizione dell’usura: «Perché questo è il vero significato dell’usura: quando una cosa produce guadagno per il solo uso della cosa stessa ("ex usu rei"), senza alcun lavoro, alcuna spesa o alcun rischio». Alcun lavoro ... alcun rischio.
Il prestito a interesse dei Monti di Pietà venne considerato non usuraio a condizione dunque che l’interesse non fosse espressione di uno scopo di lucro, ma il legittimo rimborso delle spese di funzionamento della banca. Tanto che, nell’ultima sessione della Bolla, Leone X non manca di specificare che l’ideale resta il non-pagamento dell’interesse (almeno parziale) da parte dei poveri, quando fondi pubblici o filantropici potessero coprire le spese di gestione in modo che non farle gravare «interamente sui poveri». Il centro della polemica era dunque lo scopo di quell’interesse, lo "spirito" di quella piccola somma aggiunta al capitale. Lo spirito non doveva essere il lucro, ma la copertura dei costi.
Ma era proprio questo "spirito" a essere messo in questione dagli oppositori dei minori francescani. Tra questi il monaco Nicolò Bariani, piacentino, che nel 1494 pubblicò un libretto che fece molto rumore: De Montis Impietatis. Bariani era agostiniano, quindi formato alla visione biblica e patristica su denaro e interesse. Per lui ogni somma di denaro restituita che eccedeva il capitale prestato era usura, quindi illecita, incluse quelle dei Monti di Pietà. I francescani invece distinguevano. Come? E in base a quale "teoria" potevano distinguere un fiorino usuraio da uno legittimo?
Ciò che è certo è che quel dibattito tra teologi su economia e usura fu molto appassionante, controverso, duro, aspro, fin dal XIII secolo. Ma soprattutto fu geniale, e ci lascia ancora sbigottiti a distanza di molti secoli per l’intelligenza e la ricchezza. I francescani, prima di essere teologi, erano attenti osservatori della realtà, soprattutto quella delle nuove città italiane ed europee; erano meno interessati alle dispute astratte e deduttive (incluse quelle aristoteliche), e molto più alla comprensione dei comportamenti effettivi della gente. Per questo osservavano le prassi dei mercanti, conoscevano i cambiamenti economici e civili in un tempo molto dinamico. E facevano un’operazione essenziale in ogni tentativo di comprensione della realtà complessa: il discernimento. Distinguevano, separavano, facevano ordine tra fenomeni che potevano apparire simili in certe cose ma erano molto diversi in altre, e quali cose-dimensioni erano davvero quelle decisive in quel dato tempo e in quel dato luogo. In quei laboratori che erano le città mercantili dei secoli XIII-XV, capirono, ad esempio, che il mercante che nel contratto include nel prezzo del bene un valore aggiunto per compensarlo dal rischio di imprese molto incerte via mare o terra, o il cambiavalute che a Genova o a Venezia doveva tener conto delle oscillazioni delle monete e delle inflazioni, facevano mestieri diversi dal prestatore professionista di denaro a usura che se ne stava tranquillo e al caldo nel suo banco (come affermava Alessandro d’Alessandria, Tractatus de usuris, inizio XIV sec.). Tutti e tre pagavano o chiedevano interessi sul denaro, è vero, e questo elemento comune era sufficiente a molti monaci predicatori per condannarli tutti come usurai; ma, dicevano i francescani, le tre situazioni erano molto diverse nella sostanza benché simili nella forma. E questo fa emergere qui il gran tema della differenza tra profitto e rendita.
Prima di tutto, però, dobbiamo prendere sul serio una strana amicizia medioevale, quella tra i francescani e i mercanti. Francesco inizia la sua storia in Assisi distinguendosi e rifiutando l’economia di suo padre Bernardone, un mercante; i francescani, poco dopo, si ritrovano alleati dei mercanti nelle città italiane e europee del Duecento e Trecento. Altro paradosso generativo. Intanto c’è, anche qui, un dato concreto: diversamente da altri ordini religiosi, i francescani avevano sviluppato più di altre famiglie religiose, fin dai tempi di Francesco, un ordine secolare: il Terz’Ordine. Avevano dentro la loro comunità carismatica dei laici, e tra questi molti mercanti. Li conoscevano, erano loro fratelli. Prima di giudicarli erano i loro amici, e ne conoscevano il cuore. Non è da escludere che le prime parole buone sul mercato e sul profitto siano nate durante qualche pasto di fraternità, quando qualche mercante-fratello si era confidato con loro parlando del suo mestiere difficile e anche rischioso. E avendo visto l’anima di un mercante quei teologi hanno visto un’anima diversa del mercato. Hanno prima amato e stimato i mercanti poi i mercati. E così li hanno capiti, ieri e oggi, perché non c’è vera conoscenza senza amore-agape. In tutto questo c’è un forte messaggio di teologia cristiana: la storia non è fiction, la Provvidenza parla anche dentro gli avvenimenti concreti, lo Spirito spira pure dentro un contratto di un commerciante e nella bottega di un artigiano.
E così, guardando e amando il mondo, essi si accorsero che quei mercanti non erano usurai, anche quando dovevano chiedere o pagare interessi. Ecco il tema dello spirito di quel lucro, dello spirito di quel capitalismo. E da lì si convinsero che era la stessa idea di condanna formale e astratta dell’interesse sul denaro che andava ripensata, perché non tutti gli interessi erano uguali. C’era un tipo di interesse che era soltanto giusta compensazione per alcuni aspetti inerenti alla stessa attività economica e commerciale. Capirono che se i mercanti non includevano la remunerazione del rischio dentro i loro contratti, quell’attività non si poteva sviluppare, e sarebbe stato un grave danno per le città - i francescani avevano ben chiara la funzione di Bene comune dei mercanti onesti (i "boni" mercanti). Pagare un premio assicurativo per le imprese marittime (foedus nauticus) o a chi prestava i capitali per una lunga missione commerciale in Oriente, era ben diverso dal prendere denaro a usura da un banco. Ciò che era usuraio era lo spirito, non la somma materiale di denaro in sé pagata per interesse, perché qualche volta quel denaro era semplicemente una componente collaterale, necessaria e buona di alcune operazioni imprenditoriali.
Se, poi, quel mercante si trovava nelle condizioni di poter prestare del denaro ad altri mercanti - mercanti e banchieri all’inizio erano attività molto intrecciate -, ecco fare la sua comparsa un’altra buona ragione per chiedere un pagamento di un interesse: il lucro cessante. Se, cioè, il mercante Lapo presta 1.000 fiorini al collega Duccio e così rinuncia lui stesso a usare quei denari, è lecito che Duccio ricompensi con un interesse Lapo per il guadagno che il suo collega non ha potuto ottenere a causa del suo prestito - l’equivalente del moderno "costo opportunità". Questo interesse è dunque buono, a condizione però che chi prestava il denaro fosse un mercante e che quindi l’uso alternativo ipotetico fosse un uso produttivo, non sterile prestito. Ciò che sembrava essere usura, nel caso di buoni mercanti era invece solo il compenso per l’incertezza, per l’inflazione, la variabilità dei mercati. Tanto che in molte città i mercanti erano annoverati tra i pauperes, sebbene non indigenti, perché dipendenti radicalmente dall’incertezza. Eccoci allora alla distinzione decisiva: quella tra profitto e rendita, oggi totalmente dimenticata. Per quei francescani teologi ed economisti se l’interesse ha la natura di profitto del buon mercante è lecito; se invece quella stessa somma di denaro ha la natura di rendita, è usura. Il profitto è la remunerazione per l’attività lecita e rischiosa del mercante, un guadagno che giunge come premio del suo lavoro, rischio, della perizia, dell’innovazione, del suo prezioso mestiere. La rendita invece è un guadagno che giunge per il solo fatto di esercitare una posizione di potere sul denaro, senza lavoro e senza correre alcun vero rischio d’impresa. Ecco perché fra Angelo da Chivasso, discutendo delle penalità pecuniarie che potevano essere aggiunte a un mutuo per tutelarsi dalla ritardata restituzione, afferma che si tratta di una pretesa legittima, a meno che ad avanzare tale richiesta sia una persona che «abitualmente presta a usura».
Ma come si fa a distinguere il tipo di mercante che presta denaro? È qui che i canonisti e teologi francescani diedero il loro meglio, scrivendo lunghe digressioni sulle eccezioni dell’usura e sulle mille casistiche concrete. Un ruolo essenziale lo svolgeva sempre la fama, un giudizio collettivo espresso da una comunità esperta composta dai mercanti onesti. Non capiamo l’etica economica medioevale e della prima modernità senza questa dimensione collettiva del mercato e dei mercanti. Il corpo sociale, con la sua intelligenza diffusa sapeva distinguere un usurario da un mercante. Nell’economia, e in ogni ambito complesso della vita, l’attività economica che uccide e quella che fa vivere si intrecciano ogni giorno, in ogni luogo. Solo chi sa entrare, per amore della propria gente, nelle midolla vive di questo intreccio riesce a servire l’economia e la vita. Il resto è, ieri e oggi, astratto moralismo, che finisce quasi sempre per nuocere alle persone oneste. Tutto questo l’Economia di Francesco lo sapeva, l’Economia di Francesco lo sa.
«Avvenire» del 21 novembre 2020

01 dicembre 2022

Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni

di Elena Dusi
Lo "spirito del tempo" è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d'aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro "spirito del tempo" come orientato verso un progressivo inaridimento.
Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall'università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma siè ripresa dagli anni ' 80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del '900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l' arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni '70.
Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni '80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all'università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all'emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell'aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese.
Per quanto riguarda l'Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un'impressione diversa. «Studiare la frequenza dell'uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L'"Antilingua" descritta da Italo Calvino (l'italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di "terrore semantico"».
Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4 per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibilie l'elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d' autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal» spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l'"umore" degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni '80 usano spesso la parola "io", poco il "noi" e sono sempre più ricche di "odio", "uccidere" e "vaffanculo". Lo spirito del tempo, chiaramente.
«la Repubblica» del 21 marzo 2013

21 settembre 2022

La politica di Sancho Panza

di Alessandro D’Avenia
Quando il duca e la duchessa d’Aragona sentono parlare di don Chisciotte e dello scudiero Sancho Panza vogliono burlarsi di loro e così creano false avventure per i due bizzarri protagonisti del romanzo di Cervantes. Tra questi inganni c’è quello di assegnare a Sancho ciò che ha sempre desiderato e che il suo padrone gli ha promesso per i suoi servigi: un’isola.
E così i duchi affidano a Sancho la fantomatica isola di Barattaria, finzione che lui crede reale perché viene insediato in un sontuoso palazzo — si tratta solo di uno dei palazzi dei duchi in un abitato di mille abitanti — da cui governare ciò che non ha mai visto di persona. L’episodio di Sancho, nella seconda parte del capolavoro di Cervantes, mi è tornato in mente come sintesi di una campagna elettorale fatta di promesse spesso illusorie e di politici che non sono diversi da noi che ce ne lamentiamo sempre, ma rispecchiano, nel bene e nel male, chi e come siamo.
Così un contadino si ritrova governatore di un’isola che è solo la finzione creata dai veri potenti per farsi beffe di lui che si illude di poterla amministrare standosene a palazzo, tanto da scrivere alla moglie: «Tra pochi giorni partirò per il governo, a cui vado con un vivissimo desiderio di far quattrini». L’episodio mette a nudo, con tragica ironia, sia il volto stupido sia quello oppressivo del potere. Come va a finire?
Il potere (come sostantivo) serve a porre altri in condizione di potere (come verbo). Il mio potere di insegnante ha lo scopo di mettere i miei studenti in condizione di poter essere se stessi e procurarsi autonomamente ciò che serve per riuscirci per poi mettersi, con la loro unicità, a servizio della società. Se il potere non ha questo effetto generativo, diventa controllo ed è degenerativo: non rende l’altro se stesso ma lo usa e lo rende impotente, sterile.
La politica è quindi quella parte delle creazioni umane (cultura) che consente di armonizzare l’unicità dei singoli con la società: dà la possibilità di scoprire e mettere al servizio della comunità il modo irripetibile in cui l’umano si realizza in ciascuno di noi. Se questo non accade è perché il potere è tanto tirannico quanto burocratico, cioè per chi lo detiene è «il potere per il potere», il fine è affermare se stessi e la comunità un mezzo, per chi è sottomesso è «il potere di nessuno», che ostacola e blocca l’iniziativa personale perché non ha nessun desiderio che altri abbiano potere.
Se è vero che la politica serve a incoraggiare la creatività e l’azione personali, liberandole da ciò che le blocca, allora oggi la politica conosce una crisi profonda. A scuola, per esempio, ci sono problemi incancreniti da decenni che, seppur evidenti, non vengono affrontati: lo Stato si riduce a un participio passato. Di fronte all’impossibilità di risolvere questi problemi con un po’ di coraggio e buon senso, il popolo si disaffeziona alla politica che appare superflua e diventa propaganda, come dimostra una campagna elettorale ridotta spesso a televendita. Invece il politico, e in generale qualsiasi creatore, è colui la cui immaginazione e opera sono capaci di attivare l’azione assopita degli altri uomini, accendendo focolai creativi: genera perché è generoso.
In queste settimane ho visto pochi atti creativi che metteranno in moto un futuro e molte promesse di «piacere». Il piacere è la strategia della natura per l’autoconservazione, l’azione politica è chiamata invece ad andare oltre il mantenimento dei più forti e a spezzare con il nuovo (dalla ruota alla democrazia, dal fuoco alla letteratura) le catene del «è tutto inutile».
Oltre alla rara presenza di un discorso che esuli dal pragmatismo dell’immediato di stampo quasi esclusivamente economico, non ho ascoltato quasi nulla di «creativo» nei due ambiti culturali su cui misuro la civiltà di una società: ospedali e scuole. I luoghi della cura rendono subito evidente quanto si è capaci di guidare una comunità. Oggi per fare un esame clinico urgente bisogna aspettare mesi, vari studenti hanno iniziato l’anno scolastico senza i professori di alcune materie, diversi alunni con bisogni specifici non hanno l’insegnante di sostegno... Come fa il cittadino a vivere creativamente se è tutto impegnato a sopravvivere?
Al mattino del giorno in cui gli spararono (il 15 settembre 1993), Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo ucciso dalla mafia quando iniziavo il quarto anno, era andato per l’ennesima volta negli uffici del comune a chiedere che, in un quartiere popoloso come Brancaccio di cui era parroco, si aprisse una scuola media nei locali dove la mafia svolgeva attività di spaccio e prostituzione. Quella scuola è stata aperta solo dieci anni dopo perché i politici locali erano collusi con la mafia: c’è voluta la vita di un uomo per aprire un «nuovo» corso. Leggo in queste ore che le opere per evitare le esondazioni del Misa che ha travolto tante vite nelle Marche sono state finanziate nel 1986 ma sono rimaste ferme. È triste ma da noi finché non muore qualcuno la politica non si muove.
«Lasciatemi tornare alla mia antica libertà: lasciatemi andare a ricercare la mia vita passata. Io non sono nato per fare il governatore. Io son fatto più per arare, zappare, potare le viti, che per fare leggi e difendere province e regni. San Pietro sta bene a Roma! Con questo voglio dire che ognuno deve fare il mestiere per cui è nato. Sono venuto senza un soldo e senza un soldo me ne vado; tutto al contrario di come son soliti andarsene i governatori di altre isole. Siccome vado via da qui senza un soldo, questa è la prova più evidente che ho governato come un angelo». Così si pronuncia Sancho Panza dopo il suo fallimento nel governare la finta isola di Barattaria: pochi giorni dopo l’inizio del suo incarico, ammette di aver cercato solo potere e quattrini, ma scopre che per governare servono dedizione e servizio. È onesto con se stesso: va via senza un soldo. Immaginate se un politico dovesse restituire i soldi dello stipendio a fronte della mancata realizzazione di ciò che ha promesso nel programma per cui è stato votato.
Il mio stipendio a scuola è giustificato dal fatto che i miei studenti crescono in cultura e libertà, altrimenti devo andare a fare altro. Nella scuola in cui insegno prendiamo i ragazzi al primo anno di superiori e li portiamo alla maturità, si chiama continuità didattica e permette di fare un progetto educativo paziente e attento in cui al centro c’è il singolo ragazzo e non un cervello senza storia e senza corpo.
Quella della continuità didattica è una scelta «politica»: consente di suscitare l’energia creativa dei ragazzi meglio del continuo cambiamento dei docenti. Quando vedo sbocciare i loro «poteri» faccio politica e non esercito un potere fine a se stesso, burocratico e tirannico. La buona politica genera «essere» negli e dagli altri, perché libera il potere dell’altro, non seduce e non controlla con il piacere o con la violenza. Mi auguro che chi la settimana prossima riceverà il compito di governare il nostro Paese abbia capacità e coraggio per fare ciò che ogni genitore responsabile farebbe per un figlio, e non governi, come Sancho Panza, per far quattrini su un’isola che non ha mai visto e se ne sta in un palazzo che è una tragica finzione ordita dai duchi, che si fanno beffe di un povero contadino e rappresentano il vero potere, che gode della propria autoaffermazione con oppressione, menzogna e disprezzo.
Nel romanzo di Cervantes lo scrittore Milan Kundera vede giustamente l’inizio della modernità: «Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. L’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni». Oggi siamo al capolinea di questi tempi di spartizione, infatti si è esaurito l’umanesimo che li aveva inaugurati sopravvalutando il potere autonomo dell’uomo (da creatura a creatore) e il conseguente stile «onnipotente» di dominio su cose e persone, con effetti evidenti in ogni ambito: dall’ecologia alla politica. Spero che chi ci governerà appartenga a un nuovo umanesimo in cui il potere non è dominio ma creatività, non controllo ma servizio, non monologo ma dialogo, non palazzo ma comunità, e che a differenza dell’isola che non c’è di Sancho governi sulla Penisola che c’è. Lunedì prossimo la rubrica sarà in pausa per dar spazio proprio agli esiti elettorali che guarderemo, silenziosi e speranzosi, dal nostro ultimo banco. Buon voto a tutti.
«Corriere della sera» del 19 settembre 2022

20 luglio 2022

La storia degli uomini che tentarono di uccidere Hitler. E perché l’Operazione Valchiria fallì

Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica
di Carlo Galli
"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.
L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.
Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
«la Repubblica» del 19 luglio 2022

05 giugno 2022

Gli abiti decorosi da avere a scuola

A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del Paese e quindi va rispettata e onorata
di Dacia Maraini
Siamo veramente liberi di vestirci come vogliamo? Credo che in questa asserzione di libertà ci sia un inganno. Noi in realtà non ci vestiamo come ci pare, ma come pare alla moda. Provate a chiederlo a una costumista del cinema. Lei saprà riconoscere un decennio dai vestiti che si usavano all’epoca: gli anni 60, gli anni 80, gli anni 2000, eccetera. Nessuno sfugge alla moda. Come spiegare altrimenti i blue jeans stracciati e bucati che non si sono mai visti primae che ora portano con noncuranza tantissime ragazze e ragazzi,? Come spiegare i tatuaggi sulle braccia, sul collo, sulle gambe in bella vista? Come spiegare i capelli rasati sulle tempie e sbuffanti in alto come un bauletto per i maschi e le pettinature alla madonna, lisci sulle orecchie che finiscono coi riccioli sul collo per le femmine? Come spiegare le scarpe firmate, il colore viola che viene gettato sul mercato un anno e l’anno dopo il colore verde, eccetera?
I vestiti parlano, rappresentano un linguaggio molto evidente e quasi mai riguardano la libertà personale. Di solito suggeriscono linguaggi che vogliono rappresentare la seduzione, ma in maniera semplificata e stereotipata. È il mercato che diffonde l’uso di un abito e noi ci adeguiamo bene o male, perché il conformismo fa parte del nostro comportamento sociale. Nessuno vuole rimanere indietro rispetto alle novità in fatto di abiti e colori. Detto questo anche la moda in qualche modo suggerisce un linguaggio diverso secondo i luoghi che si vogliono frequentare. Non si va in chiesa vestiti come per andare in palestra, così come non si va a un matrimonio con abiti da casa, e non si va in viaggio vestiti come per ballare in un locale notturno, e non ci si presenta a un esame con gli infradito ai piedi.
Che la scuola abbia perso la sua sacralità purtroppo lo dimostra proprio questa idea che la si possa frequentare senza nessun riguardo per quello che rappresenta. E non parlo di compostezza, contegno, pudore, come dice il vocabolario descrivendo la parola «decenza» ma di rispetto per una casa del pensiero dove ogni altro linguaggio dovrebbe tacere per lasciare spazio alla difficile arte dell’apprendimento.
Credere che sia libertà l’adeguarsi a una moda sciatta, cinica che mette sul mercato il corpo femminile come oggetto di predazione è un equivoco purtroppo poco compreso.
La moda non sfugge a una antica idea di divisione dei ruoli sessuali. A volte, quella piu intelligente e personale, gioca col teatro. Lo vediamo nelle sfilate che diventano sempre piu stravaganti e improbabili come abiti da indossare, suggerendo voglie di gioco e di travestimento.
Rimane il fatto che ogni luogo pretende un suo linguaggio. E rispettarlo non significa mancanza di libertà, ma al contrario vuol dire riconoscere la specificità dell’occasione. Tenersi alle regole, anche quelle non scritte, non è segno di conformismo, ma anzi, di grande lealtà verso le istituzioni e di quello che rappresentano. Un paese senza istituzioni va alla deriva, in preda al piu prepotente. Le istituzioni sono alla base della democrazia e non tenerne conto è pericoloso.
La scuola è una istituzione sacra. A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del paese e quindi va rispettata e onorata.
Se però è vero che la preside (preferisco usare questo termine al posto di dirigente, perché credo che la scuola debba formare e non produrre) ha detto le parole riportate dai suoi allievi, non posso che mettermi dalla parte degli studenti. Non si tratta più di «decoro» o «pudore» ma di disprezzo per un corpo fuori dai canoni di bellezza che suggerisce il mercato.
Non si tratta di una questione di «cellulite», di «sederi», di «tette», come si è scritto, ma di pensiero. Il linguaggio di un luogo dedito alla riflessione e alla conoscenza vuole una discrezione che riguarda la serietà dell’impresa di apprendimento e non altro. Anche il pensiero dei dirigenti ha un linguaggio e quello della preside, sempre che sia vero ciò che si riferisce, lo trovo fuori luogo e sprezzante. Non è denigrando la ragazza grassa o la esibizionista con la cellulite che si chiarisce una idea di decoro. La scuola è il luogo della piu grande libertà, ma di una libertà che non riguarda la moda e il mercato, bensì la necessità di imparare a pensare con la propria testa, difendendo la dignità dell’immaginazione, che di solito è ben lontana da quella che suggerisce una moda subdola e vorace.
«Corriere della sera» del 5 giugno 2022

21 gennaio 2022

Nei film di animazione ci sono troppi balletti?

La tendenza a far esibire sempre di più i personaggi in coreografie sembra studiata per i social media e gli adattamenti teatrali: come dimostra Encanto, l'ultimo film Disney. Tutto questo però va a scapito della qualità
di Jason Kehe
Encanto, l'ultimo musical animato di Disney, sarebbe stato un film perfetto, se solo non avesse subito due distinte forme di pressione. La prima, è la pressione di dover avere il finale perfetto. Non un lieto fine, intendiamoci: il lieto fine è accettabile. Il finale perfetto, che accettabile non lo è mai, è quello in cui ogni tipo di delusione, ingiustizia o rimpianto è superato come (o letteralmente) per magia all'ultimo secondo disponibile, privando il pubblico dell'opportunità di accettare con serenità il meraviglioso struggimento a cui si erano preparati per tutto il film. Purtroppo, la pressione del finale perfetto è così totalizzante nell'animazione americana che lamentarsene ora, nel ventunesimo secolo, sembra un esercizio inutile oltre che assurdo. Personalmente, penso sia molto più sofisticato criticare la seconda forma di pressione, molto meno dibattuta, con cui si trova a dover fare i conti un povero film come Encanto, la storia di una famiglia colombiana che perde i suoi poteri magici: la pressione di dover far ballare i suoi personaggi.
Anche meno Esattamente, ballare. Muovere il corpo a tempo di musica, spesso, nel caso dei protagonisti del film, per nessuna altra ragione se non che sono fisicamente in grado di farlo. In La pressione sale, il brano più accattivante di Encanto, una delle sorelle Madrigal, Luisa, canta della pressione - un tema ricorrente - di essere forte per tutta la famiglia. Luisa si riferisce sia alla forza emotiva che fisica, dal momento che il suo superpotere è la forza sovrumana (ma anche perché Lin-Manuel Miranda, che ha scritto la versione originale della canzone, non è un autore particolarmente sottile). "E sale la pressione e non conosce stop, woah - canta Luisa -. Senti questo tic, tic, tic? Presto esploderò, woah". Per buona parte dalla canzone, questa donna adulta decisamente ben piazzata si esibisce in movenze hip hop come una ragazzina smaniosa davanti allo specchio della sua cameretta. "Sembra un balletto di TikTok", mi ha detto un'amica durante la visione. Più tardi quella stessa sera, mi ha mandato un TikTok di un adolescente in carne e ossa che eseguiva gli stessi identici passi.
Una strategia calcolata Ovviamente è probabilmente l'esatto scenario che Disney sperava si verificasse nelle fasi di scrittura della scena: dare alla grande signora triste dei passi accattivanti, mettere sullo sfondo un tormentone con un linguaggio da lettino di uno psicoanalista, e mettersi comodi ad aspettare la pubblicità gratuita. Una mossa di pessimo gusto in qualsiasi circostanza, che diventa però quasi disgustosa nel contesto dell'intrattenimento animato. Tra principali forme d'arte, la danza è l'unica che richiede forza fisica. Tutto il suo fascino, infatti, si basa sulle contorsioni del corpo umano, il sudore, il rischio e il trionfo: Cos'è quella mossa? Come fa a piegarsi così? Perderà il ritmo? I personaggi dei musical dal vivo ballano di continuo, ed è giusto così: fa parte dei manierismi della narrazione. Anche i cartoni animati generati al computer sono liberi di ballare, ma quando lo fanno, emerge la consapevolezza esasperata dei loro movimenti affettati e della motivazione, diegetica o meno, che li spinge a ballare, tanto più quando quei movimenti sembrano essere al servizio di una strategia di social media. I casqué e le giravolte cominciano a sembrare pixel iperprogrammati e inquietanti che eseguono plié e piroette con una precisione perfetta e perturbante. Nella sua forma peggiore, è un insulto alla fisicità della danza. Quindi è meno divertente da guardare. Anzi, gran parte delle volte è semplicemente imbarazzante. Quando Luisa dal niente si mette a ballare, a metà di un film in cui altrimenti non dimostra alcun interesse attivo nelle arti performative, oppure quando un'altra delle sorelle Madrigal canta e si dimena sulle note dell'altro successo formato TikTok di Encanto, Non si nomina Bruno, si percepisce non solo la speranza della Disney che gli spettatori facciano loro queste movenze, ma anche la rinuncia da parte della società, in atto ormai da molti anni, all'animazione come genere a sé. A un film come Encanto non è più concesso di esistere come prodotto isolato, ma deve invece strizzare l'occhio a ogni tipo di possibile crossover, dagli spettacoli sul ghiaccio e le giostre nei parchi a tema fino, in modo ancora più spudorato, ai musical di Broadway.
Lo spartiacque E la 'colpa' è di Frozen. Prima della sua uscita nelle sale nel 2013, la differenza tra un musical di Broadway e un musical Disney era quantomeno oggetto di dibattito. Certo, classici come Il Re Leone, La Bella e la Bestia e La Sirenetta hanno tutti finito con l'essere adattati per Broadway, più o meno in questo ordine decrescente di qualità, ma nessuno di questi film era stato realizzato nella speranza di essere portato a teatro. Innanzitutto, i balletti erano pochissimi, oltre che casuali e goffi. Le parti cantate, poi, erano più contenute e meno appariscenti. Tutto questo è cambiato il giorno in cui Idina Menzel, la cantante che ha prestato la sua impressionante voce ai musical Rent e Wicked, è stata scelta per Frozen (nella versione italiana la parte è stata affidata a Serena Autieri), facendo entrare Disney nell'era della spettacolarizzazione delle canzoni. Da allora, film come Oceania, Coco, Frozen II, e ora Encanto sono tutti sembrati meno pellicole di animazione, quanto piuttosto produzioni teatrali, pronte per essere adattate da un momento all'altro per il palcoscenico. Nel 2018, Frozen ha debuttato a Broadway. Probabilmente lo spettacolo attira spettatori nuovi e più giovani verso un settore in difficoltà. Ma è una ragione sufficiente per giustificare l'infinito circolo vizioso di progetti che non sono pensati per nessuna piattaforma specifica e che uniformano e rendono più superficiale il nostro intrattenimento, frustrando ogni speranza di espressione artistica? Probabilmente no. Se ogni cosa viene fatta per essere trasformata in altro, allora niente può eccellere nell'essere se stesso: la storia dei nostri tempi. Encanto aveva un potenziale enorme. Da qualche parte al suo interno c'è un film che è un piccolo miracolo di sensibilità sul tema del retaggio culturale e del rinnovamento, che viene tristemente fagocitato dalle pressioni aziendali per trasformarlo in qualcosa più, e di meno. Per Disney, oggi l'animazione è un mezzo e non un fine, che comincia con tutti quei traumatici balletti fuori tempo e scollati dalla realtà, propinati a un pubblico confuso e impressionabile. Niente è più al sicuro, nemmeno i finali. Pensateci un attimo: se i personaggi animati non fossero costretti ad agitare il loro corpo digitale al ritmo delle canzoni, ci sarebbe meno pressione per chiudere con il finale perfetto. Se avessero sentimenti reali, i personaggi non avrebbero nulla per cui ballare.
«Wired» del 20 gennaio 2022

10 gennaio 2022

Una scuola senza talento

di Alessandro D’Avenia
La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità». Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della performance che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa? Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita. Nell’italiano delle origini talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
«Corriere della sera» del 10 gennaio 2022

20 agosto 2021

Videolezioni sul metodo di traduzione dal latino

Un metodo di traduzione dal latino
di Francesco Maria Toscano
Se hai desiderio (o necessità) di ripassare un po' di latino e di far tuo un metodo di traduzione da questa lingua fantastica, ora hai a disposizione una serie di videolezioni con esempi pratici e suggerimenti vari.
Spero ti saranno utili!

1) Un'introduzione
2) La prima e la seconda declinazione
3) Gli aggettivi della prima classe
4) Il 'maledetto' nominativo della terza declinazione.
5) La terza declinazione


Ne seguiranno altri ...

Post del 20 agosto 2021

06 agosto 2021

Addio Pennacchi, la politica in scrittura

L’autore è stato colto da un malore improvviso. Con “Canale Mussolini” aveva vinto il premio Strega
di Fulvio Panzeri
Se ne è andato all’età di 71 anni, Antonio Pennacchi, uno degli scrittori più originali, che ha fatto della sua terra, l’Agro Pontino, lo scenario in cui indagare una storia poco nota, ma assolutamente importante per capire certe vicende 'marginali' dell’Italia nel Novecento.
Pennacchi nasce a Latina nel 1951 e si porta dentro da sempre una predestinazione a dover raccontare la storia della sua terra, anche se ha sempre dichiarato la sua fatica nello scrivere, un modo di essere scrittore per vocazione e non per evasione. Del resto alla scrittura arriva tardi, a cinquant’anni, dopo aver fatto l’operaio in fabbrica ai turni di notte per più di trent’anni e ricordando sempre, con grande senso di riconoscenza, verso i suoi compagni di lavoro, quel periodo, anche dopo essere diventato uno scrittore importante e molto amato dal pubblico. L’esordio avviene con Mammut, nel 1994, che appunto ripercorre il tempo della fabbrica e ricostruisce una grande epopea operaia che aveva scritto già diversi anni prima, nel 1987 e riporta nella letteratura italiana, un tema che era rimasto assente, rispetto all’attenzione dei nostri narratori, dopo l’interesse che aveva avuto negli anni Sessanta (si veda su tutti l’esempio di Ottiero Ottieri). Romanzo dopo romanzo, da Palude (1985) a Una nuvola rossa (1998), arriva ad avere il primo successo di critica e di pubblico con Il Fasciocomunista che nel 2003 vince il Premio Napoli e nel 2007 diventò anche un film cult di quegli anni: Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Lucchetti, storia su una giovinezza italiana, con un protagonista, ribelle di natura, ontologicamente anarchico, che vive le passioni con la ingenuità e l’incanto di chi nella vita non si vuole risparmiare, che vuol mantenere una sua posizione autonoma, senza lasciarsi andare a nessun compromesso, un po’ come Pennacchi è stato come uomo e come scrittore, libero, con il coraggio di sostenere sempre le sue posizioni, non solo per se stesso, ma soprattutto per il bene comune. Diceva infatti che dal dopoguerra «abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare». Forse va in questo senso la necessità di raccontare la sua terra, la sua gente e la sua storia in quello che è il romanzo che gli ha dato popolarità, vincendo a sorpresa, e contraddicendo tutte le previsioni della vigilia, nel 2010 il premio Strega con Canale Mussolini, incentrato sulle storie della famiglia Perruzzi, esempio di quelle migliaia di coloni che vengono fatti insediare in quella terra bonificata da poco dove si trovavano le Paludi Pontine, bonifica il cui asse portante è appunto il Canale Mussolini. Pennacchi racconta un’epopea familiare, che è sostenuta dal carisma e dal coraggio di zio Pericle, che tieni uniti i genitori, i tre fratelli, legati da un affetto profondo fatto di poche parole e di gesti assoluti, di promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro. È un mondo al quale Pennacchi rimane poi legato negli anni, tanto che cinque anni dopo, nel 2015, pubblica sempre da Mondadori, Canale Mussolini. Parte seconda, in cui indaga gli anni che seguono il 25 maggio del 1944, quando finisce la guerra a Littoria, la futura Latina, e il Canale Mussolini, dopo essere stato per mesi la dura linea del fronte di Anzio e Nettuno, torna a essere quello che era, il perno della bonifica pontina da cui inizia la ricostruzione mentre al Nord la guerra continua e coinvolge i Peruzzi su tutti i fronti, repubblichini o partigiani. Un’opera che nella sua mente non forse non sarebbe finita mai, tanto da aver dichiarato di stare già pensando a un terzo Canale Mussolini e forse a un quarto. Intanto ci lascia il suo ultimo romanzo, uscito nell’autunno scorso, La strada del mare, in cui ritornano i protagonisti di questa sua epica dell’Agro Pontino, un’epica che riporta i protagonisti della famiglia Perruzzi, agli anni Cinquanta, in cui la “piccola” storia delle famiglie originarie del Veneto, che erano scese nel basso Lazio alla fine degli anni Venti per colonizzare le terre bonificate dal regime fascista, e che lì erano diventate una comunità, s’intreccia e si mescola con la “grande” Storia italiana e internazionale del dopoguerra.
«Avvenire» del 4 agosto 2021

La tematica Lgbt nel cinema e l'eccesso di sessualizzazione

Dal Festival di Cannes indicazioni e conferme di una tendenza in atto
di Armando Fumagalli
Si è da poco concluso il Festival di Cannes con un verdetto (specialmente per la Palma d’Oro a Titane della regista Julia Ducournau) da molti considerato assai discutibile. C’è chi – probabilmente con qualche ragione – ha voluto vedere una forzatura in omaggio al politically correct la Palma d’Oro a una regista donna (la seconda volta in 74 anni, dopo la Jane Campion di Lezioni di piano ...), in un film che occhieggia alla fluidità sessuale e propone strani ibridi fra uomo e macchina. Tutti temi “di moda”, in un film che però ha avuto giudizi negativi quasi unanimi dai critici, seguiti però da questo ambitissimo premio conferito da una giuria “inclusiva” presieduta da Spike Lee. Era il festival della ripartenza, anche per il mercato del cinema francese, il più forte d’Europa, e il sostegno delle istituzioni francesi al loro cinema ancora una volta si è fatto sentire, con una forte presenza di film d’Oltralpe non solo in competizione, ma anche nelle ampie sezioni collaterali. La pattuglia italiana, nonostante il nulla di fatto per il film di Moretti, ha avuto alcune soddisfazioni: primo di tutti il premio al bel film di Jonas Carpignano, A Chiara, un intenso dramma famigliare ambientato a Gioia Tauro, con protagonista una quindicenne che scopre che il padre è coinvolto nelle attività della ’ndrangheta. Carpignano per interpretare i cinque membri della famiglia ha scelto una famiglia vera, quindi tutti attori non professionisti, ed è riuscito a dare un forte senso di verità alla messa in scena, costruendo comunque un dramma che dopo qualche lungaggine iniziale, nella seconda metà diventa asciutto e potente. Presentato alla Quinzaine des Realizateurs ha vinto il Premio come miglior film europeo di quella sezione. Alcuni giornali hanno fatto notare – chi con soddisfazione, chi in modo negativo – la forte presenza di film con tema e/o personaggi omosessuali, transessuali o dalla identità incerta: non si è trattato solo di Titane (non a caso la regista nelle sue dichiarazioni ha inneggiato alla fluidità di genere), ma anche di molti altri film, in concorso e no. Per esempio entrambi i film in cui era impegnata la nostra Valeria Bruni Tedeschi (La fracture, e Les amours d’Anais) vedevano il suo personaggio in relazioni lesbiche; c’è stato poi il progettato scandalo del film di Verhoeven, Benedetta, accolto però da risate alla proiezione in sala ... In concorso c’era anche Les Olympiades di Jacques Audiard, con tre ragazze bianche e un ragazzo nero che si uniscono in varie combinazioni sessuali; non è al centro della storia, ma anche uno dei personaggi di Stillwater, in concreto la figlia di Matt Damon, aveva una relazione lesbica. Ma anche solo scorrendo le sinossi dei film delle sezioni collaterali, la sensazione è che ormai fosse quasi difficile trovare un film senza una storia d’amore omosessuale. Pare proprio che si sia innescato un circolo (vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista) per cui gli autori sanno che se c’è un certo tema, questo film verrà privilegiato dai selezionatori: ecco che sceneggiatori e registi (e produttori) vengono spinti sin dalla concezione a inserire ruoli omosessuali per avere una chance in più di entrare nei selezionati, con un effetto paradossale: quella che doveva essere una minoranza da rappresentare in senso anti discriminatorio sembra ormai diventata una maggioranza egemonica, almeno in alcuni contesti festivalieri. Deve essere forse successo qualcosa di simile nella scrittura di Piccolo corpo, bel film di Laura Samani presentato alla Semaine de la Critique, dove la presenza di un personaggio dalla identità sessuale ambigua è totalmente staccato dal focus del film (sul rapporto fra una madre e una bimba morta) e questa dimensione sembra proprio un omaggio al politically correct. Se si andrà confermando la totale fluidità sessuale nei racconti che troviamo sugli schermi, una delle non poche conseguenze sarà quella di cancellare le dimensioni dell’amicizia più normale, specialmente fra adolescenti e fra giovani: verrà immediatamente tutto sessualizzato. Non è un caso che alcuni recensori americani abbiano interpretato in chiave Lgbt il film della Pixar Luca, che è invece una semplicissima storia di amicizia maschile fra due ragazzini (fra l’altro ispirata alla storia vera dell’amicizia dello stesso regista con un suo compagno di scuola). Altri temi “caldi” del festival sono stati l’eutanasia e il “diritto a morire” (il film di Ozon con Sophie Marceau), così come una certa presenza di temi ed episodi che riguardano l’aborto (è centrato sul diritto ad abortire il film in concorso Lingui, ambientato in Ciad, ma ci sono episodi di aborto anche in altri film, come Les amours d’Anais, dove l’aborto viene trattato come una breve e innocua pratica da sbrigare). Per fortuna ci sono stati documentari interessanti come Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, dove si dà voce a giovani italiani che si fanno domande sul futuro, e il documentario di Oliver Stone sull’omicidio Kennedy, Through the looking glass, che fa il punto sulle acquisizioni – inquietanti– degli ultimi tre decenni, sulla differenza fra la verità “ufficiale” e le numerose prove emerse in questi ultimi decenni che la smentiscono. Succedono poi cose un po’ paradossali nell’impegno “affermativo” che sembra aver preso piede nel mondo del cinema e della Tv contemporanea. Nel Marché du film, che accompagna il festival, era in distribuzione un numero speciale di Deadline, una testata hollywoodiana abbastanza recente, ma che negli ultimi anni si è ben sistemata accanto ai più blasonati Variety e The Hollywood Reporter. In un elenco di profili e interviste a disruptors, grandi innovatori, ce n’era uno dedicato a Ryan Murphy, che riportava una sua riflessione di quando in una riunione con altri showrunner si rese conto di essere l’unico gay nella sala: «Devo fare qualcosa per aumentare la nostra presenza », si disse. Non è chiaro a che anno si riferiva Murphy, che nella decina di serie Tv che ha creato (da Nip/Tuck a Glee a Pose) ha poi sempre portato avanti la promozione della cultura gay ... Ma è ironico che solo poche pagine prima c’era il profilo di Greg Berlanti, celebrato perché nelle 15 serie che sta direttamente o indirettamente dirigendo, sta portando avanti la stessa battaglia culturale ... Ma l’elenco sarebbe potuto continuare a lungo, con Alan Ball (American Beauty, Six Feet Under), Kevin Williamson (Dawson’s Creek, The Vampire Diaries e molte altre), Darren Starr (Beverly Hills 90210, Sex and the City, Emily in Paris ecc.). Insomma, non si capisce bene a quale riunione abbia partecipato a suo tempo Murphy per sentirsi così solo ...
«Avvenire» del 27 luglio 2021

16 luglio 2021

Cuba nella nebbia

di Massimo Gramellini
Un avventore del Caffè si domanda perché influencer e intellettuali nostrani non aprano bocca su quanto sta accadendo a Cuba. E aggiunge, non a torto, che se gli assalti ai forni e gli arresti di massa avessero la Budapest di Orbán come teatro, qui sarebbe tutto un fiorire di petizioni & indignazioni. Invece per chi detta l’agenda universale del bene e del male la dittatura cubana resta sempre un po’ meno dittatoriale delle altre, persino adesso che è passata dalla morsa inflessibile ma professionale dei fratelli Castro a quella di un certo Diaz Canel, a cui Che Guevara non avrebbe neanche lasciato spolverare il sellino della moto. La tesi difensiva del regime è che al popolo non manca la libertà ma il pane, e il pane manca per colpa dell’embargo americano che Biden si guarda bene dall’ammorbidire. In realtà la libertà manca eccome: è che a pancia vuota la sua assenza si avverte ancora di più. Ma di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito. Anzi, non c’è proprio il dibattito. La ragione ideologica del silenzio degli «impegnati»è nota, ma è possibile azzardarne anche una psicologica. Per i più giovani Cuba non significa nulla, mentre per i più anziani tutto. Significa la difesa dell’utopia della loro giovinezza: che il comunismo al potere sarebbe riuscito a cambiare la natura individualista dell’essere umano. La dolce nebbia dei ricordi continua ad avvolgere i contorni di un’isola che è sempre stato più rassicurante immaginarsi che vedere per com’era davvero.
«Corriere della sera» del 15 luglio 2021

29 giugno 2021

Leggere la Commedia sulle lapidi di Firenze

di Riccardo Michelucci
Il dantista Seriacopi ci guida nelle strade fiorentine dove le pietre parlano delle famiglie della città, spesso in lotta tra loro, che il Poeta celebra nelle tre Cantiche
«Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva». Basta alzare lo sguardo lungo il Corso, nel pieno centro di Firenze, per scorgere la lapide con i versi della Divina Commedia che descrivono il primo incontro tra Dante e Beatrice. Sono incisi nel marmo della facciata dell’antico palazzo dove un tempo sorgevano le case dei Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice. Siamo nel XXX canto del Purgatorio e il sommo poeta sta assistendo a una processione con carri e canti di lode circondato da angeli e anime pie, quando vede una donna con un velo bianco sulla testa, una corona d’ulivo, una veste rossa e un manto verde. «I colori indossati da Beatrice sono un’allegoria delle virtù teologali, il bianco della fede, il rosso della carità e il verde della speranza, ai quali si somma la sapienza simboleggiata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva», ci spiega il dantista Massimo Seriacopi, che ci accompagna in un percorso attraverso i luoghi fiorentini di Dante solcati dalle lapidi del suo poema monumentale. Sull’interpretazione allegorica di Beatrice sono state ideate e smontate molte teorie fino ad arrivare alla doppia concezione della donna: da una parte l’ideale stilnovista della bellezza che muove il cuore del poeta, dall’altra la rappresentazione della teologia cristiana. Nella Divina Commedia Beatrice sarà 'portatrice di Cristo' e la bellezza che si manifesta pienamente nella sua natura rivelatrice della verità e della carità è per Dante la via per accedere a Dio. Ripercorrere le strade e i vicoli della Firenze medievale è un modo per andare alla riscoperta dei più famosi luoghi danteschi e la partenza da via del Corso non è casuale perché qui si concentra il più alto numero di lapidi, gran parte delle quali raccontano le famiglie della Firenze del tempo di Dante. Quella degli Adimari con Filippo Argenti che sguazza nel fango della palude nel cerchio degli iracondi ( VIII canto dell’Inferno), quella dei Donati con Forese, che predice la futura rovina del fratello Corso Donati capo dei Guelfi neri - nel XXIV canto del Purgatorio, infine quella dedicata alla famiglia dei Cerchi (XVI canto del Paradiso). Basta fare pochi passi in direzione opposta rispetto al Duomo per imbattersi nei resti dell’antica chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, risalente all’XI secolo, meglio nota come 'chiesa di Dante'. Qui, nel 1285, il poeta sposò Gemma Donati e si ritiene che alcuni anni prima, proprio al cospetto dell’altare, abbia visto per la prima volta la sua Beatrice.
«In questa chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre della giovane, e altri membri della sua famiglia ma è assai controversa l’ipotesi che vi sia anche il sepolcro di Beatrice, che più verosimilmente fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, i Bardi, nel chiostro grande della basilica di Santa Croce», spiega Seriacopi, che è autore tra l’altro del recente saggio Dante tra poesia e teologia (ed. Setteponti). All’estremità opposta di via Santa Margherita si apre un piccolo slargo dove si trova la Casa di Dante, all’interno della replica ottocentesca di un’antica casa-torre. Istituita nel 1965 in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, oggi ospita il museo omonimo che ne documenta la vita e le opere. Svoltato l’angolo siamo in via Alighieri, e una lapide indica il punto dove si presume sorgesse la vera casa natale del poeta. «Io fui nato e cresciuto / Sopra ’l bel fiume d’Arno alla gran villa», recita la pietra, riportando una citazione dal XXIII canto dell’Inferno.
Sono versi che trasudano nostalgia: furono scritti dal poeta durante il sofferto esilio che lo tenne lontano da Firenze fino alla sua morte. Le strade e i vicoli medievali che separano il Battistero di San Giovanni e l’attuale piazza della Signoria furono il palcoscenico dell’infanzia e della giovinezza di Dante, oltre che il collegamento naturale tra il potere religioso e quello politico della città. A unire i due punti c’è via de’ Calzaioli al cui limitare, superata l’antica chiesa di Orsanmichele, una lapide è quasi nascosta in mezzo alle insegne luminose dei negozi. «Cita un verso dal X canto dell’Inferno - precisa Seriacopi -. Qui Dante dialoga con Cavalcante, padre di colui che nella Vita Nova aveva definito il suo primo amico, ovvero Guido Cavalcanti. Era anch’egli un grande poeta e se non fosse morto così presto avrebbe potuto oscurare lo stesso Dante». Proprio negli anni in cui veniva scritta la Divina Commedia, in piazza della Signoria era in corso la realizzazione di Palazzo Vecchio, che venne costruito sulle rovine dei palazzi di proprietà della famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata da Firenze nel 1266. E proprio agli Uberti sono dedicate due delle tre lapidi dantesche affisse all’interno del cosiddetto 'primo cortile' di Palazzo Vecchio. Dante si trova adesso nel XVI canto del Paradiso e descrive la superbia che portò quella famiglia alla rovina, oltre a nuocere alla grandezza di Firenze («Oh quali io vidi che son disfatti / per lor superbia!»).
«L’altra lapide - prosegue Seriacopi - cita invece l’episodio in cui il famoso capo ghibellino Farinata degli Uberti, rinchiuso tra gli epicurei nel sesto cerchio del-l’Inferno, racconta al poeta di aver difeso Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 1260, opponendosi poi ai ghibellini senesi che erano intenzionati a distruggerla». Nessuno meglio di Dante riuscì a incarnare appieno lo spirito del suo tempo, quello di un’Italia drammaticamente divisa e faziosa, impegnata in lotte fratricide all’interno degli stessi comuni, e a portare alla luce delitti, passioni e storie oscure di quell’epoca, che altrimenti sarebbero finite nell’oblio. E nella Commedia non perde occasione per scagliarsi contro la civiltà fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale. È quanto fa ancora più avanti, in via del Proconsolo, sulla lapide incisa accanto all’antica chiesa della Badia fiorentina, e poi di nuovo in via del Corso insieme a Cacciaguida, l’avo che incontra in Paradiso, tra le anime dei combattenti per la fede. «Dante era un uomo del Medioevo cristiano che riprendeva l’etica di Aristotele, per il quale la virtù consisteva nel giusto mezzo - conclude Seriacopi -. E Cacciaguida, che fu un guerriero della seconda crociata al seguito dell’imperatore Corrado III, riveste qui un’importante funzione morale. Attraverso di lui Dante esprime tutto il suo sdegno nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze, rievocando la purezza dei costumi antichi'».

«Avvenire» del 21 febbraio 2021