Le passioni umane alimentano la narrativa
di Claudio Magris
A Palermo Goethe scopre - o crede di scoprire - la Urpflanze, la «pianta originaria»; modello, struttura, quasi cellula primaria della molteplicità vegetale, espressione a suo avviso di quella forza divina e naturale, il DioNatura, che tiene unito il Tutto nell'innumerevole varietà delle sue forme. Ne parla con entusiasmo a Schiller, definendola «un'esperienza», al che Schiller gli replica: «Non è un'esperienza, è un'idea». Irritato, Goethe risponde che gli piacerebbe avere delle idee e magari anche vederle; più tardi dirà che quello screzio, quello scarto fra idea ed esperienza aveva segnato una precisa frontiera tra lui e Schiller e anche tra lui e la maggioranza degli altri, scrittori, scienziati e filosofi.
Non solo l'ideologia, che gli era verosimilmente ignota e probabilmente non sapeva cosa fosse, ma anche già l'idea è per Goethe una parola sospetta. Per tutta la vita e con sempre maggiore insistenza egli si accanirà a difendere la Anschaulichkeit, l'evidenza sensibile - fatti, cose, colori, odori - contro l'astrazione cui gli sembravano tendere sempre più la scienza, la filosofia, la stessa concezione del mondo che andavano affermandosi. Il più grande esempio è la sua appassionata, sbagliata ma a suo modo geniale e creativa polemica contro Newton a proposito della luce e dei colori, che lo induce a scrivere quella Teoria dei colori, basata su esperimenti, che egli considerava erroneamente il suo capolavoro. In tale aspra polemica Goethe ha torto, ma anche in parte ragione. È Newton che descrive giustamente come la luce arrivi alla nostra corteccia cerebrale e come i colori che noi vediamo corrispondano a diverse frequenze e lunghezze d'onda della luce, che il nostro cervello, vecchio grande filologo, traduce in rosso, blu, giallo, a seconda di quelle frequenze e lunghezze. Ma è vero, concretamente e inoppugnabilmente vero, che noi non vediamo i numeri e le frazioni matematiche indicanti quelle misure, bensì rosso, verde, azzurro e anche percepiamo (con gli occhi, con la mente, col cuore) la passione di quel rosso, la nostalgia di quell'azzurro. È almeno discutibile che perfino la scienza, come pretendeva Goethe, debba occuparsi di quel verde o di quel giallo piuttosto che dei loro numeri; è tuttavia indiscutibile che l'arte e la poesia, se si incantano davanti ai papaveri o ai fiordalisi, s'incantano per quei colori e per ciò che essi evocano o significano per l'animo umano più che per i rapporti matematici che creano quei colori o per la classe di vegetali cui appartengono quei fiori, cespugli o alberi variopinti.
Nella strada intrapresa dalla cultura occidentale alla sua epoca, Goethe vedeva una pericolosa perdita dell'esperienza concreta e sensibile, dell'evidenza, del particolare fisicamente tangibile, della stessa esperienza, parola che gli era cara come poche altre e che egli sentiva indissolubile dall'arte, dalla poesia, da ogni espressione creativa. Versatile scienziato egli stesso - scoprì l'osso intermascellare - e non solo cantore, ma anche instancabile e rigoroso osservatore della natura, Goethe avrebbe visto probabilmente perfino già in Galileo il primo attentatore all'evidenza sensibile della natura, in quanto convinto che il gran libro della natura sia scritto in triangoli, cerchi e altre figure geometriche.
Ma quei triangoli e cerchi non impediscono a Galileo di essere non solo un grande scienziato, bensì pure un grande, asciutto e poetico scrittore, al quale si devono pagine immortali che fanno toccare i cieli non meno delle poesie di Goethe. E anche il grande amico di quest'ultimo, Schiller, che insieme a lui crea e governa l'ultima stagione classica, l'ultima classicità della cultura occidentale, era la prova vivente che pure le «idee», i principi e i sentimenti morali e civili, le passioni politiche possono alimentare, anzi diventare grande e creativa poesia. L'Inno alla gioia di Schiller e la Nona sinfonia di Beethoven, che la mette in musica quale culmine del messaggio universale di libertà agli uomini, sono anche idea, certo fusa col sentimento e divenuta sentimento poetico; sono anche, almeno in parte e originariamente, ideologia, ideologia della libertà e di una rivoluzione universale di libertà.
Non solo l'ideologia, che gli era verosimilmente ignota e probabilmente non sapeva cosa fosse, ma anche già l'idea è per Goethe una parola sospetta. Per tutta la vita e con sempre maggiore insistenza egli si accanirà a difendere la Anschaulichkeit, l'evidenza sensibile - fatti, cose, colori, odori - contro l'astrazione cui gli sembravano tendere sempre più la scienza, la filosofia, la stessa concezione del mondo che andavano affermandosi. Il più grande esempio è la sua appassionata, sbagliata ma a suo modo geniale e creativa polemica contro Newton a proposito della luce e dei colori, che lo induce a scrivere quella Teoria dei colori, basata su esperimenti, che egli considerava erroneamente il suo capolavoro. In tale aspra polemica Goethe ha torto, ma anche in parte ragione. È Newton che descrive giustamente come la luce arrivi alla nostra corteccia cerebrale e come i colori che noi vediamo corrispondano a diverse frequenze e lunghezze d'onda della luce, che il nostro cervello, vecchio grande filologo, traduce in rosso, blu, giallo, a seconda di quelle frequenze e lunghezze. Ma è vero, concretamente e inoppugnabilmente vero, che noi non vediamo i numeri e le frazioni matematiche indicanti quelle misure, bensì rosso, verde, azzurro e anche percepiamo (con gli occhi, con la mente, col cuore) la passione di quel rosso, la nostalgia di quell'azzurro. È almeno discutibile che perfino la scienza, come pretendeva Goethe, debba occuparsi di quel verde o di quel giallo piuttosto che dei loro numeri; è tuttavia indiscutibile che l'arte e la poesia, se si incantano davanti ai papaveri o ai fiordalisi, s'incantano per quei colori e per ciò che essi evocano o significano per l'animo umano più che per i rapporti matematici che creano quei colori o per la classe di vegetali cui appartengono quei fiori, cespugli o alberi variopinti.
Nella strada intrapresa dalla cultura occidentale alla sua epoca, Goethe vedeva una pericolosa perdita dell'esperienza concreta e sensibile, dell'evidenza, del particolare fisicamente tangibile, della stessa esperienza, parola che gli era cara come poche altre e che egli sentiva indissolubile dall'arte, dalla poesia, da ogni espressione creativa. Versatile scienziato egli stesso - scoprì l'osso intermascellare - e non solo cantore, ma anche instancabile e rigoroso osservatore della natura, Goethe avrebbe visto probabilmente perfino già in Galileo il primo attentatore all'evidenza sensibile della natura, in quanto convinto che il gran libro della natura sia scritto in triangoli, cerchi e altre figure geometriche.
Ma quei triangoli e cerchi non impediscono a Galileo di essere non solo un grande scienziato, bensì pure un grande, asciutto e poetico scrittore, al quale si devono pagine immortali che fanno toccare i cieli non meno delle poesie di Goethe. E anche il grande amico di quest'ultimo, Schiller, che insieme a lui crea e governa l'ultima stagione classica, l'ultima classicità della cultura occidentale, era la prova vivente che pure le «idee», i principi e i sentimenti morali e civili, le passioni politiche possono alimentare, anzi diventare grande e creativa poesia. L'Inno alla gioia di Schiller e la Nona sinfonia di Beethoven, che la mette in musica quale culmine del messaggio universale di libertà agli uomini, sono anche idea, certo fusa col sentimento e divenuta sentimento poetico; sono anche, almeno in parte e originariamente, ideologia, ideologia della libertà e di una rivoluzione universale di libertà.
«Corriere della Sera» - Supplemento "La lettura" del febbraio 2012
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