30 novembre 2009

La diffusione delle notizie e il ruolo dei social network

di Piero Macrì
Siamo tradizionalmente portati a credere che sono i giornali che fanno e faranno l'informazione online. Si discute di un modello di business sostenibile, dell'introduzione di micro-pagamenti, di una formula redazionale che possa rendere più efficiente il processo di creazione e produzione delle notizie su carta e web.
Ma è pur vero che una nuova forma di distribuzione delle notizie è possibile solo attraverso piattaforme tecnologiche ereditate da internet. Motori di ricerca come Google e servizi come Google News rappresentano un modo attraverso il quale avere una sorta di impaginazione delle notizie in stile elettronico. Un ruolo altrettanto complementare potrebbe essere esercitato dai siti di social network come Facebook e MySpace.
Mentre i giornali cercano di evolvere, portando le notizie sui propri portali e configurando i propri spazi per essere il più possibile attraenti nei confronti dei lettori, grazie anche all'innesto di ingredienti multimediali,i grandi aggregatori di notizie, nati attorno alla logica del web, forniscono i mezzi affinchè l'informazione dispersa sulla rete possa essere assemblata secondo i desideri del lettore. Le piattaforme tecnologiche non creano le notizie le catalogano e le assemblano, un servizio che, per quanto possa essere contestato per non riconoscere un valore a coloro che le notizie le creano, potrebbe in qualche modo essere definito come un servizio di pubblica utilità.
Ma accanto alla logica dei motori di ricerca, vi è un altro contesto nato nell'universo di internet che potrebbe modificare radicalmente il mondo dell'informazione. Sono i social network, luoghi dove gli utenti possono condividere esperienze, informazioni e conoscenza. E' il caso di Facebook e Myspace, per citare i più noti., il primo ancor indipendente, il secondo di proprietà di Murdoch. Il loro punto di forza è essere utilizzati da milioni di persone in tutto il mondo e il loro obiettivo è monetizzare o valorizzare economicamente i sottoscirttori del servizio . Facebook ha raggiunto i 300 milioni di utenti . In Italia il tasso di penetrazione del servizio, in rapporto al numero di utenti internet attivi (fonte CIA World Factbook) , è del 26,4% (più o meno 8 milioni di utenti). La crescita trimestrale media nell'ultimo anno è stata di 50 milioni di persone, dimostrando una capacità di attrazione senza uguali.
E poiché nel mondo di internet le notizie, per essere valorizzate e diffuse, hanno necessariamente bisogno di audience di grandi numeri, c'è chi si chiede, come Ben La Mothe, nell'articolo pubblicato su Econsultancy, se Facebook non sia nelle condizioni per diventare il nuovo publisher dell'informazione. La Mothe parte dalla considerazione che la maggioranza degli utenti di Facebook ha un'età compresa tra i 18 e 34 anni, tipicamente persone abituate a ricercare le notizie online, persone che sono abituate all'idea che siano le notizie a trovare loro e non il contrario come vorrebbe la logica della stampa tradizionale. Di fatto già adesso Facebook permette di condividere notizie articoli. Come ampiamente dimostrato Facebook può avere un notevole effetto di propagazione della notizia, basta che venga inserito in rete perché un video, un articolo o altro possa essere visto o letto in base a un meccanismo virale. Ma una risposta, è già nei fatti. Quando Murdoch nel 2005 acquisì Myspace, l'intenzione era sfruttare il potenziale di aggregazione e audience del social network per diffondere contenuti prodotti da News Corp. Tanto è vero che Murdoch in quell'occasione così si espresse:"We have the experience, the brands, the resources, and the know-how to get it done. We have unique content to differentiate ourselves in a world where news is becoming increasingly commoditized."
Certo, Facebook potrebbe evolvere come piattaforma di condivisione dell'informazione, lo è già per sua stessa natura, ma succede in modo spontaneo senza che vi sia ancora una reale strategia orientata in questo senso. Potrebbe prendere in considerazione l'idea di acquisire un giornale, come già era successo per Google, intenzione poi immediatamente rientrata , oppure prestarsi per essere un aggregatore di notizie, mettendo a punto una sorta di servizi alla Google News. Tutti meccansimi che però riprodurrebbero il contenzioso già in atto tra Google ed editori.
Ma l'idea di LaMothe quando si avventura nell'ipotizzare una struttura redazionale in grado di produrre essa stessa, in una sorta di giornalismo dal basso, un'informazione alternativa o complementare ai canali tradizionali, ingaggiando giornalisti professionisti che sono stati in questi ultimi anni estromessi dai giornali, appare poco probabile, se non inverosimile. Le piattaforme tecnologiche nei confronti della nuova informazione prodotta e veicolata su internet sono un mezzo non un fine. Non possono sostituirsi ai giornali ma possono avere delle straordinarie potenzialità per contribuire a una più ampia diffusione dell'informazione a beneficio e vantaggio della stessa stampa tradizionale. L'importante è trovare il meccanismo che possa creare una relazione, anche in termini economici, che soddisfi entrambe le parti.
«Osservatorio europeo di giornalismo» del 16 ottobre 2009

Google e l'edicola ai tempi del web

di Piero Macrì
Nonostante le minacce reiterate da parte di Murdoch e le diffuse contestazioni da parte di gran parte degli editori, questi ultimii sanno benissimo che non possono fare a meno di un meccanismo quale quello fornito dai motori di ricerca o dagli aggregatori di notizie in stile Google News o Newsnow.
Perché? Per un semplice fatto. Per riuscire a ottenere un alto numero di lettori i quotidiani online non possono fare affidamento solo ed esclusivamente nel pubblico che visita direttamente il proprio sito. Sarebbe come riprodurre in rete il vecchio modello di fruizione e acquisizione dell'informazione, attraverso il quale ciascuno si reca in edicola e acquista il proprio quotidiano preferito.
Se si riproducesse in rete questa logica il numero dei lettori sarebbe incoerente con il sistema con cui è parametrato l'investimento pubblicitario su Web. Attualmente si calcola infatti che i ricavi pubblicitari corrispondano a una cifra variabile tra i 10 e i 25 centesimi per utente unico al mese, una cifra che per garantire una minima sostenibilità economica deve potere contare su un traffico il più elevato possibile.
Ciò significa che se il traffico di un sito non fosse alimentato da fonti esterne, l'audience complessivo non sarebbe superiore a quello del giornale stesso, il che vorrebbe dire diminuire drasticamente il valore e le potenzialità di crescita del numero dei lettori. La logica del link è quindi indispensabile ed è funzionale al consumo delle notizie via web.
Al di là delle minacce quello a cui si tende, in realtà, è un sistema di compensazione, ovvero che i ricavi ottenuti da Google, aggregatori o succedanei, preveda una quota da girare a colui che ha prodotto e pubblicato quella notizia.
Si dovrebbe in qualche modo ri-considerare il vecchio sistema di distribuzione dei giornali e adattarlo al web. Nel sistema tradizionale l'editore sostiene un costo di distribuzione, riconosce un compenso al proprietario del punto vendita e riceve una contribuzione da parte del lettore. In una logica di rete distribuzione e vendita sono ruoli svolti dal sistema di aggregazione delle notizie. Paradossalmente, quindi, sarebbe l'editore che dovrebbe pagare il sistema di agggregazione, poiché quest'ultimo esercita una distribuzione, al pari di un'edicola, ed è in qualche modo responsabile della creazione del traffico sui siti dei quotidiani e, in generale, sui siti di informazione. Ma poiché l'attività è esercitata a fini di lucro, ovvero l'aggregatore di notizie ha l'obiettivo di guadagnare dalla pubblicità che riesce a convogliare sul proprio sito, e la materia prima che consente questo guadagno sono notizie prodotte da altri soggetti, a questo punto la situazione si capovolge. E' l'aggregatore di notizie che deve corrispondere una percentuale dei propri ricavi a colui che quelle notizie le ha create.
Quello appena esposto è un ragionamento che può valere sia in assenza o in presenza di un pagamento per la fruizione delle notizie. Si tratta “soltanto” di regolarizzare il ruolo in rete esercitato da operatori di natura diversa, ciascuno dei quali ha una sua importanza e rilevanza.
«Osservatorio europeo di giornalismo» dell'11 novembre 2009

I re magi, questi sconosciuti

di Umberto Eco
Perché è necessario, al di là di ogni considerazione religiosa, che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni Quasi per caso mi è accaduto di assistere negli ultimi giorni a due episodi, una quindicenne che sfogliava molto interessata un libro di riproduzioni d'arte, e altri due quindicenni che stavano visitando (affascinati) il Louvre. Tutti e tre erano nati ed erano stati educati in paesi rigorosamente laici e in famiglie di non credenti. Questo faceva sì che vedendo 'La zattera della Medusa' capissero che alcuni sventurati erano appena sfuggiti a un naufragio, o che i due personaggi dell'Hayez che si vedono a Brera fossero due innamorati, ma non riuscivano a realizzare perché l'Angelico avesse rappresentato una ragazza a colloquio con una checca alata o perché un signore sciamannato discendesse a balzelloni da una montagna portandosi addosso due lastre di pietra pesantissime ed emanando raggi luminosi dalle corna.
Naturalmente i ragazzi riconoscevano qualcosa in una natività o in una crocifissione, perché avevano già visto qualcosa di simile ma, se nel presepe si inserivano tre signori con mantello e corona, già non sapevano chi fossero e da dove venissero. È vero che questo succedeva anche a Matteo, ma non è questo il punto.
È impossibile capire diciamo i tre quarti dell'arte occidentale se non si conoscono i fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento e le storie dei santi. Chi è una ragazza con gli occhi su un piattino, viene dalla notte dei morti viventi? E un cavaliere che taglia in due un capo di abbigliamento fa una campagna anti-Armani?
Quindi succede che, in molte situazioni culturali, ragazzi e ragazze imparano a scuola tutto sulla morte di Ettore ma niente su quella di San Sebastiano, tutto magari sulle nozze di Cadmo e Armonia ma niente sulle nozze di Cana. In certi paesi c'è una forte tradizione di lettura della Bibbia, e i bambini sanno tutto sul vitello d'oro, ma niente sul
lupo di San Francesco. In altri posti li si è imbottiti di vie crucis e li si è tenuti all'oscuro della 'mulier amicta solis' dell'Apocalisse.
Ma il peggio avviene ovviamente quando un occidentale (e non solo i quindicenni) ha a che fare con rappresentazioni di altre culture - tanto più invadenti oggi quando la gente viaggia in paesi esotici mentre gli abitanti di quei paesi vengono a installarsi da noi. Non parlo delle reazioni perplesse di un occidentale di fronte a una maschera africana, o delle sue risate davanti a dei Buddha oppressi dalla cellulite (tra l'altro costoro, interrogati, sono pronti a rispondere che Buddha è il dio degli orientali così come Maometto è il dio dei musulmani); è che molti dei nostri vicini di casa sarebbero disposti a pensare che la facciata di un tempio indiano è stata disegnata dai comunisti per rappresentare quello che avveniva a Villa Certosa, e scuotono la testa quando vedono che gli stessi indiani prendono sul serio un signore accovacciato con la testa di elefante, senza rendersi conto che loro non trovano niente da ridire in una persona divina rappresentata come colomba.
Pertanto, al di là di ogni considerazione religiosa, e anche dal punto di vista più laico del mondo, occorre che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni. Pensare che non sia necessario equivale a dire che non bisogna insegnargli chi fossero Giove o Minerva perché erano solo fole per le vecchiette del Pireo.
Ora il voler risolvere l'educazione alle religioni con l'educazione a una singola religione (tanto per fare un esempio, quella cattolica in Italia) è culturalmente pericoloso perché, da un lato, non si può impedire ad alunni non credenti o figli di non credenti, di non assistere a quell'ora, così perdendo anche un minimo di elementi culturali fondamentali; e dall'altro viene esclusa dall'educazione scolastica ogni accenno ad altre tradizioni religiose. Non solo, ma anche l'ora di religione cattolica potrebbe risolversi in uno spazio di discussione etica, rispettabilissima, sui doveri verso i nostri simili o su cosa sia la fede, trascurando quelle notizie che ci permettono di distinguere una Fornarina da una Maddalena pentita.
È pur vero che quelli della mia generazione hanno studiato tutto su Omero e niente sul Pentateuco, e abbiamo avuto anche pessime lezioni di storia dell'arte al liceo, così come ci insegnavano tutto sul Burchiello e niente su Shakespeare - e nonostante questo ce la siamo cavata, perché evidentemente c'era qualcosa nell'ambiente che ci faceva pervenire sollecitazioni e notizie. Ma quei tre quindicenni di cui dicevo, che non sapevano riconoscere i Re Magi, mi suggeriscono che anche l'ambiente di informazioni utili ne trasmetta sempre meno, e molte invece d'inutilissime.
Che i Re Magi ci tengano le loro sei sante mani sulla testa.
«L'Espresso» del 26 novembre 2009

Missili e campanili

di Franco Cardini
Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.
Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.
«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?
Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?
Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?
C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.
«La Stampa» del 30 novembre 2009

I miti, fedeli compagni di solitudine

Giuseppe Conte, autore estraneo all’"impegno" (quindi alle cordate intellettuali) ma non alla "civiltà", traccia un autoritratto spirituale. Una mappa che rivaluta la tradizione come motore della modernità
di Stenio Solinas
All’inizio degli anni Sessanta un sedicenne fragile e orgoglioso se ne andò in Inghilterra con lo scopo dichiarato di imparare la lingua e quello inconfessato di perdere la verginità. «Non aver ancora toccato una donna mi pesava intollerabilmente, come se il mio sangue fosse cemento appena impastato, e ogni giorno che passava si solidificasse sempre di più, minacciando che niente vi avrebbe più potuto aprire una breccia, far sgorgare ancora il liquido vitale». Se ne stava appoggiato al bancone dei pub, avendo di fronte due bicchieri di Martini, uno per sé e l’altro per l’eventuale ragazza che ne avesse ricambiato il sorriso. Consumava inutili serate in locali da ballo sordidi come solo sanno esserlo quelli della provincia inglese, si ostinava in pedinamenti notturni dietro volti e corpi su cui aveva fantasticato, sempre nell’attesa che l’imprevisto lavorasse per lui: la timidezza salvata dal Fato...
Ci sono adolescenze solitarie e sprezzanti, «pochi atteggiamenti auto-consolatori sono in realtà più tormentosi e infelici», alle quali la normalità è preclusa per troppa sete di assoluto. Vogliono troppo, pensano troppo, si illudono troppo. Fosse stato il sesso una semplice partita da sbrigare, un fatto tecnico come per la maggior parte dei suoi coetanei, quel sedicenne non sarebbe stato così infelice e così incapace. Ma lì dove gli altri vedevano un atto fisico o una tecnica, lui vedeva, confusamente certo, eppure in modo nitido, un mistero e una sacralità, un’ossessione poetica, una scintilla divina in grado di ancorarlo al Tutto, di dare un senso a un’esistenza altrimenti incomprensibile. «L’adolescenza è anche questo: un’incubatrice del destino, un magma di pura potenzialità e di desideri mutevoli: per questo le contraddizioni che la agitano sono le più lancinanti e le più dimenticate».
Alla fine il caso, ovvero il Fato, ebbe compassione, si incarnò in una insegnante ventitreenne e il risultato fu «una sensazione di liberazione, di sgretolamento e di ricostruzione, di energia che scorre, di sangue che schizza come aghi di pino in un vortice che si alza verso il culmine della gioia come la marea verso la luna, una certezza di continuità, di rinnovamento - di avere radici, di avere germogli - di vita, delle chiavi più segrete e più manifeste della vita; se avessi potuto fermare quell’attimo, mi sarebbe toccata un’eternità di piacere fisico e disincantato, travolgente e leggero, forse perfetto». Non so a quanti sia dato ricordare così la loro prima volta...
In questo «ritratto dell’artista da giovane» c’è tutto quello che poi Giuseppe Conte sarebbe diventato, il poeta e il romanziere, il mitografo e il viaggiatore: e non è un caso che Terre del mito (Longanesi, pagg. 329, euro 18,60), il suo nuovo libro, racconti una vocazione e un apprendistato, una scelta e in qualche modo una missione, l’eterna meraviglia di chi a ogni passo si accorge che c’è qualcosa da scoprire, qualcosa per cui vale la pena gioire, combattere e soffrire.
Conte è una figura anomala nel panorama letterario italiano: è uno scrittore «civile», termine preferibile all’usurato e ambiguo «impegnato», ma lo è in perfetta solitudine, senza rete di cordate intellettuali compiacenti; un narratore puro, ovvero un raccontatore di storie, ma con alle spalle il nocciolo duro di una concezione del mondo epica e tragica, un macinatore di chilometri e di continenti che ha però scelto di vivere in provincia. «Ci sono stati periodi in cui, dovunque avessi casa, non ci passavo più di due giorni la settimana», frutto forse «di una strana paura della stasi, dei muri di casa, della stessa continuità del vivere». Infine, e soprattutto, è un mistico fatto di carne.
Terre del mito è all’apparenza un libro di viaggi, ma «libro», ci ricorda Conte, «è in origine la “pellicola tra il legno e la scorza degli alberi”, si scriveva su di essa, prima della scoperta del papiro: dunque nella parola “libro” c’è il ricordo lontanissimo, confuso, della pioggia e del fuoco, delle radici e del cielo, dei venti e dei nidi degli uccelli, della luna e del sole, del buio e della luce». Così, Terre del mito è principalmente «un pozzo delle correnti di tutti i mari, vetrina cosmica, palazzo di Minosse, magazzino della scorta, torretta, fortezza, abbraccio, colpo di pugnale, carezza, clessidra e infinito». Che vada alle isole Aran o alle Orcadi, nell’India del sud o nel Nuovo Messico, il suo è sempre un mischiare l’alto e il basso, l’approfondimento e l’annotazione, la storia e la quotidianità, il ricordo e il presente, la gravitas e l’ironia...
Allo stesso modo, il mito che ne percorre le pagine non è solo o tanto una storia o una memoria, un’eco del passato o una passione intellettuale, ma una sorta di energia spirituale ancora viva in un mondo che sembra averla disintegrata o dimenticata. Di fronte alle rovine celtiche di Dùn Aengus, «una dimora barbarica e nuda», Conte ha la sensazione che «la divinità, il principio stesso della divinità è sempre giovane e insieme arcaico, carezzevole e insieme atroce. Ebbi per la prima volta la certezza che ci fu un tempo in cui noi, dal cuore della nostra angoscia nebbiosa di mortali, comunicavamo, avevamo commercio con gli dèi».
Come tutti i politeisti esuli in un mondo monoteista a loro estraneo e per molti versi ostile, Conte sa bene che ormai l’essenziale è invisibile agli occhi e l’unica strada percorribile è quella dell’ascolto: una specie di respiro cosmico da cui lasciarsi avvolgere. In India, dove la densità delle divinità è sterminata, ciò è a fatica forse ancora possibile, e uno spirito religioso può lì ancora cogliere il terreno privilegiato degli archetipi, del mito: il sacro nella sua dimensione notturna, laddove, decretata la morte di Dio e trasformata la religione in istituzione, ciò che altrimenti gli resta è disperazione e/o rassegnazione. Qualcosa del genere è avvertibile anche nelle riserve indiane del Nuovo Messico e non è un caso che il Conte ragazzo avesse nella sua camera una foto di Capo Giuseppe, dei Nez-Pércès, l’eroe di Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, il sacerdote-guerriero che diceva: «La Terra e io siamo dello stesso parere». E non è sempre un caso se «quella foto c’è ancora. Non ho avuto niente di cui pentirmi al contrario di tanti miei coetanei che sembrano essersi neppure pentiti, ma dimenticati di aver idolatrato Stalin, Lenin, Mao, Ho Chi Min, Giap, Pol Pot, Castro e che devono aver passato la tarda giovinezza a portare ritratti in cantina».
Eppure, e lo dico da panteista superstite di un mondo greco-latino scomparso, ciò che più mi commuove nella queste di Terre del mito è l’amaro vagabondare del suo autore sulle tracce di Afrodite, in una Cipro devastata dall’edilizia selvaggia, l’incuria, il turismo colpevolmente straccione. Alla fine, nelle rovine di Paphos, la «Casa di Dioniso» gli offre due sbiadite iscrizioni in greco: Anche tu recita la prima, Abbi gioia, la seconda. Un saluto e un augurio. «Le ripeto a me stesso mentre seguo i custodi verso l’uscita, e rivedo il sole tramontante di là delle stoppie e del Faro; e mai come in questi momenti ho avvertito, della gioia la parte di struggimento doloroso e mortale». Sembra la chiusa del baudelariano Voyage à Cythère: «Dans ton île, ô Vénus! je n’ai trouvé debout/ Qu’un gibet symbolique où pendait mon image.../ - Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage/ De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!». Soltanto chi mette il proprio cuore a nudo può farlo sanguinare senza timore.
«Il Giornale» del 30 novembre 2009

Anche le fedi preferiscono il "libero mercato"

Il sociologo Stark: per ogni chiesa la condizione di monopolio è dannosa, meglio la concorrenza. I monoteismi hanno avuto la meglio sul politeismo perché il prodotto che "vendevano" era più affidabile
di Rino Cammilleri
Rodney Stark è uno dei massimi sociologi delle religioni viventi. Docente di Scienze sociali alla Baylor University, Texas, da noi è noto anche per il fondamentale La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza (Lindau) e, col collega Massimo Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente (Piemme).
Stark applica con successo le teorie economiche allo sviluppo e diffusione delle religioni, partendo dalla semplice constatazione che sia l’economia che i culti hanno lo stesso soggetto: l’uomo e la sua psicologia. Dunque, dati alla mano, osserva che la condizione di «libero mercato» è l’ideale per le fedi. Come la concorrenza costringe gli imprenditori ad aguzzare l’ingegno per produrre beni migliori a minor costo, così la condizione di monopolio è in ultima istanza dannosa per una chiesa, i cui uomini si adagiano sugli allori e finiscono per non dedicarsi più al proselitismo. Questo fenomeno lo si coglie bene a proposito delle «chiese di Stato», come quelle protestanti dell’Europa settentrionale, le quali sono sull’orlo della sparizione: esistenti sulla carta (e sulla dichiarazione dei redditi, giacché è lo stato a occuparsi del loro mantenimento) sono ormai vuoti simulacri quasi del tutto privi di seguito.
L’ultima fatica di Stark tradotta in italiano è Un unico vero Dio. Le conseguenze storiche del monoteismo (Lindau, pagg. 374, euro 24,50). L’inizio è una onesta ammissione: «Fino a pochissimo tempo fa praticamente quasi tutti gli studiosi di scienze sociali che si occupavano di religione lo facevano a partire da motivazioni antireligiose e pre-fondavano la loro opera sull’ateismo. Molti lo fanno ancora». Poi, Stark passa a esaminare il motivo per cui i monoteismi hanno vinto o addirittura soppiantato i politeismi. È praticamente uno solo: il «prodotto» offerto dal monoteismo (una divinità creatrice e onnipotente) è migliore di una selva di dèi, ciascuno con poteri ridotti e generalmente poco interessati ai problemi umani.
La maggior parte del libro, tuttavia, è dedicata, come dice il sottotitolo, alle conseguenze storiche della vittoria del monoteismo. Le pagine più interessanti sono quelle in cui Stark dimostra che ogni monoteismo è, contrariamente a quel che si crede, tollerante con i dissenzienti e perfino con gli altri monoteismi. Sebbene ogni monoteismo affermi con forza l’unicità e la giustezza del suo credo (il che significa che gli altri sono falsi), non si attiva per la repressione delle devianze se non quando si sente minacciato. Cioè, storicamente, quando un monoteismo «entra in guerra» con un altro. In tal caso, è costretto a serrare i ranghi e non sopporta al suo interno possibili «quinte colonne» di qualunque genere. Lo si vede, per esempio, nel singolare silenzio delle eresie tra il V-VI secolo e l’epoca delle crociate. Non che non ci fossero, ma i cristiani le tollerarono fino a quando il loro mondo non fu minacciato dall’Islam. Stark dimostra che lo stesso fenomeno si riscontra all’interno di quest’ultimo. Ciò vale anche per gli ebrei, che la cristianità, pur potendo farlo, non pensò mai di estirpare radicalmente dal suo seno. Solo in tempi di crociate si scatenarono i pogrom e, per giunta, quasi tutti localizzati nel bacino del Reno, dove l’autorità sia civile che ecclesiastica era debolissima a causa della frammentazione. Né le cose andavano meglio tra i musulmani: nel 1148 agli ebrei di Cordova fu ordinato di convertirsi all’Islam, pena la morte, o andarsene. La famiglia del famoso Maimonide passò all’Islam; altri («raramente viene ricordato») preferirono emigrare nei regni cristiani. Quando, nel 1260, i mongoli (ancora pagani) conquistarono la Persia, la popolazione musulmana si avventò sugli ebrei in ogni città.
Stark sostiene, pure, che Costantino non fu una vera benedizione per il cristianesimo, perché di fatto aprì la strada al monopolio, mentre, come sappiamo, solo la concorrenza è benefica. È un punto a mio avviso da discutere. Speriamo che Stark lo faccia in un prossimo libro.
«Il Giornale» del 30 novembre 2009

Se a scoprire il Nuovo mondo fossero stati gli antichi romani

Una nuova trilogia di Mario Farneti, il maestro italiano dell’ucronia Grazie a una profezia, fu l’imperatore Giuliano ad arrivare in America. I romanzi di "fantastoria", da una decina d'anni, hanno sempre più successo
di Gianfranco de Turris
Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà detto «Ah se non avessi fatto questo o quello le cose sarebbero andate diversamente»: se avessi dato una risposta invece di un’altra, se fossi partito un’ora prima o solo cinque minuti dopo, se avessi o non avessi incontrato quella persona, se fossi o non fossi entrato in quel luogo, se avessi o non avessi comprato quella cosa, se fossi arrivato in anticipo o in ritardo a un appuntamento, se mi fossi o non mi fossi fermato al semaforo, e così via. La nostra vita è determinata spessissimo non da unici e determinanti eventi, ma da una serie pressoché infinita di piccole scelte, una sola delle quali è sufficiente a decidere l’indirizzo della nostra esistenza: in una lunga sequenza del film Lo strano caso di Benjamin Button di David Fincher (2008) si assiste a una serie di minuti eventi che potevano e non potevano benissimo accadere, ma che una volta accaduti hanno come conclusione un incidente (un taxi investe una donna) che avrebbe potuto non verificarsi se solo uno dei precedenti fatti non si fosse a sua volta verificato interrompendo la catena (una telefonata, una scarpa slacciata, un semaforo rosso ecc.). Lo stesso accade in sintesi nel precedente Sliding Doors di Peter Howitt (1998), dove prendere o perdere una corsa della metropolitana cambia completamente l’esistenza della protagonista.
Se questo accade nella vita di ognuno di noi, figuriamoci quel che accade nella complessa trama della Storia: basta che una piccolissima decisione, parola, fatto non avvenga o avvenga in un modo diverso perché le cose possano andare diversamente. E Se la storia fosse andata diversamente è proprio il titolo dato nel 1999 dal Corbaccio per la traduzione della prima storica antologia di questo tipo (What if? del 1931) da me curata e che ha fatto scoprire in Italia ai lettori e ai critici non specialisti l’esistenza di un particolare genere di narrativa, la storia alternativa o anche ipotetica o anche controfattuale, che ha però anche un nome più altisonante: ucronia (non-tempo, come utopia è non-luogo) coniato nel 1859 da Charles Renouvier, un filosofo francese totalmente inviso a Benedetto Croce e invece apprezzatissimo da un anticrociano come Adriano Tilgher.
Il perché è presto detto: l’ucronia mette in discussione il fine predeterminato della Storia, il suo avere uno scopo intrinseco (e in ogni caso positivo), un suo finalismo imperscrutabile, l’accettazione dunque del Fatto Compiuto inteso come il leibniziano «migliore dei mondi possibili». Se invece un piccolissimo evento (un «sì» o un «no», l’aver girato a destra o a sinistra, l’aver detto una parola interpretata male eccetera) può modificare radicalmente il corso della Storia con la «S» maiuscola, non vuol dire altro che questa ineluttabilità intrinseca della Storia medesima non esiste, ed essa non può essere più in quanto Fatto Compiuto un feticcio da adorare secondo la filosofia hegeliano-marxista.
Ora, nell’ultimo decennio la storia alternativa ha avuto in Italia un’ampia diffusione con romanzi e antologie, specie se ambientata nel Bel Paese: troppo gustoso poter cambiare le nostre vicende nazionali, molto lontane e molto vicine, per non essere allettati dall’idea. Ma scrivere storia alternativa non è così semplice come può sembrare d’acchitto: per non cadere nella faciloneria o nella demagogia, nel grottesco o nel ridicolo non si può andare a ruota libera, ma occorre invece (non paia un controsenso) seguire da presso la Storia, quella vera, per poi allontanarsene in modo verosimile: la ricostruzione dell’ambiente e di personaggi «veri» è essenziale: le assurdità fanno altrimenti cadere miseramente la trama.
Uno degli autori italiani che con maggiori risultati si è dedicato a questo genere è Mario Farneti il quale, partendo da un suo racconto del 1999 ha sviluppato una trilogia di romanzi (Occidente, 2001; Attacco all’Occidente, 2003; Nuovo Impero d’Occidente, 2006, tutti editi dalla Nord) che in milleduecento pagine complessive riscrive la storia italiana e occidentale dal 1972 al 2012 con l’Italia che non è entrata nel secondo conflitto mondiale ed è diventata la nazione egemone come oggi sono gli Stati Uniti. Ora Farneti torna in libreria con il primo romanzo di una diversa trilogia: Imperium Solis (Nord, pagg. 454, euro 18,60) che abbandona la contemporaneità e porta il lettore nell’antico mondo mediterraneo del IV secolo d.C. quando, durante la battaglia di Ctesifonte (26 giugno del 363), s’infranse il sogno imperiale di Flavio Claudio Giuliano ucciso nel corso di una battaglia contro i Parti, in una desertica piana dell’attuale Irak. Questo ci dice la Storia, mentre nell’ucronia di Mario Farneti l’imperatore Giuliano non muore, viene creduto (e si fa credere) morto e intraprende una vera e propria missione divina: andar lì dove il Sol Invictus di cui è devoto va a concludere il suo splendente tragitto giornaliero. Egli parte dunque verso l’Estremo Occidente con le sue navi e le sue legioni, ma anche con i suoi sacerdoti, filosofi, scienziati, geografi e storici, per approdare sulle sponde della leggendaria, immensa isola di Meropide. Si troverà al cospetto di quelle che mille e cento anni dopo Cristoforo Colombo chiamerà le Indie Occidentali, che ovviamente acquisirà all’Impero di Roma facendo prendere alla Storia del mondo in generale e dell’Europa in particolare un corso diverso, come anche si vedrà nei romanzi che seguiranno.
La trama che Farneti, bravissimo in ciò, offre al lettore non è ovviamente così lineare: anzi è molto complessa, ricca di trovate, colpi di scena, personaggi maggiori e minori che appaiono e scompaiono, nonché di veri tour de force linguistici con originalissime soluzioni. In Imperium Solis si mescolano avventura e storia, religione e magia, ipotesi plausibili anche se improbabili ma non impossibili, al punto che ci si chiede perché in fondo gli eventi non siano andati effettivamente come Farneti ce li racconta. Inoltre, alcune dettagliate cartine ci aiutano a capire gli spostamenti, certe volte frenetici, dei principali personaggi nel Vecchio e Nuovo Mondo.
Non mancano l’ironia e l’autoironia quando l’autore legge in filigrana la Storia reale e il lettore avveduto, accorgendosene, non potrà che sorprendersi. Magari penserà in alcuni momenti che si tratti di esagerazioni, ma è sufficiente andare a controllare la conclusiva «Nota dell’Autore» per rendersi conto che molti particolari che pensava totali invenzioni in realtà hanno punti di riferimento storici o scientifici ben saldi. Spesso sconosciuti o inaspettati, ma documentatissimi. Infatti solo una vasta opera di informazione, come dimostra la bibliografia del romanzo, poteva evitare clamorosi errori.
L’arrivo degli antichi romani in America era stato descritto anche da romanzieri statunitensi, ma ne erano usciti romanzetti di poco spessore: con Imperium Solis ci troviamo invece di fronte a un vasto affresco, quasi onnicomprensivo, che tenendo conto delle specificità dei popoli all’epoca esistenti nel Nuovo Mondo e della specificità della gens romana, riesce a darci una storia leggibilissima e avventurosa, divertente e seria, affatto superficiale e ricca di spunti culturali che ci fanno riflettere.
«Il Giornale» del 30 novembre 2009

Quanto pesa l'onestà? 200 grammi (di cervello)

Scoperta di uno studio con tecniche d' imaging su 26 criminali
di Cesare Peccarisi
Un rischio da scongiurare: che le anomalie cerebrali possano diventare un marchio di infamia. E l'«intelligenza morale» funziona meglio nelle donne. In chi commette reati gravi sarebbero meno sviluppate le aree cerebrali del controllo degli impulsi
Cesare Lombroso, il medico torinese fondatore della moderna criminologia, elaborò nell' 800 il concetto di "pazzia epilettica" che, secondo i suoi studi, costituiva il denominatore comune della personalità criminale. Le sue teorie, poi sconfessate dai progressi della medicina, hanno ricevuto il colpo di grazia all' ultimo congresso Società italiana di neurologia, appena concluso a Padova. Qui è infatti arrivata la definitiva prova anatomica degli errori di Lombroso: la sua unica intuizione corretta è stata l' aver associato la tendenza criminale a un substrato cerebrale, che però con l' epilessia non ha nulla a che vedere. Uno studio, presentato da Giovanni Frisoni del Fatebenefratelli di Brescia, ha valutato, insieme a neurologi italiani, finlandesi e americani, 26 detenuti con gravi problemi di giustizia: in quelli con tratti antisociali di tipo psicopatico (personalità rintracciabile nel 20% circa di chi è in carcere e caratterizzata da scarsa empatia interpersonale, amoralità con ridotto senso di colpa e di rimorso, impulsività e incapacità di regolare il proprio comportamento secondo gli standard sociali) la risonanza magnetica tridimensionale ad alta risoluzione ha evidenziato insolite caratteristiche strutturali della corteccia cerebrale, assenti invece nei 25 soggetti normali di controllo. Risultano interessate le aree coinvolte nel controllo degli impulsi (polo temporale destro, paraippocampo, cingolo e corteccia orbito-frontale) che, meno sviluppate del 15 per cento, privano queste persone di quasi due etti di materia grigia. «In questi soggetti sarebbero ipoattive sia le strutture che elaborano le emozioni - dice Frisoni, dal 2008 nel comitato per le tecniche di neuroimaging delle Società di neurologia italiana ed europea - sia quelle delle cortecce frontali che garantiscono l' inibizione dei comportamenti istintivi». La scoperta espone al rischio che queste anomalie possano diventare un marchio di infamia. Ma può accadere anche il contrario, vista la recentissima prima perizia nella storia della medicina forense che - come anche questo giornale ha riferito -, con dati di neuroimaging funzionale e genetica molecolare, ha indotto la Corte d' Assise di Trieste a ridurre la pena a un omicida. «Quella perizia - ricorda Giuseppe Sartori, docente di neuroscienze cognitive all' Università di Padova (che ne è autore con Piero Pietrini dell' Università di Pisa) non ha giustificato deterministicamente il comportamento deviante, ma ha detto che si può avere un cervello "senza sicura", ovvero con predisposizione genetica, e col "colpo in canna", ovvero con alterazioni cerebrali conseguenti. Se però non arriva un dito a premere il grilletto (particolari eventi della vita) la psicopatologia non si manifesta». E non c' è nemmeno bisogno di prendere casi estremi per rendersi conto di quanto sia diverso il modo di reagire di ognuno di noi. Un altro studio su 50 uomini e 50 donne pubblicato sulla rivista Cognitive Processing da Alberto Priori, direttore del Centro per la Neurostimolazione della Fondazione Policlinico-Università di Milano, suggerisce estrema cautela, perché anche nelle normali persone "a piede libero" la moralità è un concetto assai variabile già solo fra i due sessi: è un po' come se il cervello degli uomini fosse predisposto a comportamenti morali meno etici. Basterebbero le lievi differenze "normali" fra cervello maschile e femminile (in media 150 grammi di materia grigia in più nella testa degli uomini) a indurre giudizi etici assai differenti, con risposte diverse di fronte a dilemmi morali appositamente studiati (v. box). Risposte che possono cambiare addirittura nella stessa persona. Lo studio è infatti andato anche oltre, dimostrando quanto basti poco a mutare i nostri comportamenti etici. Dopo la stimolazione transcranica dell' area frontale inferiore, una procedura non invasiva basata sull' invio di microimpulsi elettrici dall' esterno del cranio, i giudizi morali subiscono infatti un radicale cambiamento e, ancora una volta, in maniera diversa fra maschi e femmine. Per quanto si tratti di dati preliminari, presentati al Congresso di Neuroscienze svoltosi il mese scorso a Milano, ciò indicherebbe che, senza chiamare in causa variazioni genetiche patologiche, anche in chi non è un tipo da galera l' organizzazione anatomo-funzionale del "cervello morale" è diversa fra i due sessi, un risultato che rispecchia la diversa frequenza di criminali fra donne e uomini: ecco insomma, perché ci sono sempre stati più Clyde e meno Bonnie. Cesare Peccarisi RIPRODUZIONE RISERVATA * * * Il test Davvero l' uomo è più cattivo? Per evidenziare le differenze fra "cervello morale" maschile e femminile, Priori ha usato il test con cui il ricercatore americano Jeffrey Green della Virginia University ha scoperto che il giudizio morale attiva il sistema affettivo, mentre il sistema cognitivo è legato soprattutto a conflitti interpersonali: una decisione che può ledere il prossimo a nostro vantaggio avvia forti conflitti emotivi soprattutto nei maschi, che tendono a scelte utilitaristiche. Ecco due delle domande che più hanno evidenziato le differenze fra i due sessi. Provate anche voi. IL VACCINO Un' epidemia virale si è diffusa uccidendo milioni di persone. Hai creato 2 sostanze nel tuo laboratorio. Sai che una è un vaccino, l' altra è mortale, ma non sai qual è delle due. Ci sono con te 2 persone, il solo modo per identificare il vaccino è di iniettare in ogni persona una delle 2 sostanze. Uccideresti una di queste persone per identificare il vaccino che salverà milioni di persone? LA SCIALUPPA Sei su una nave da crociera, scoppia un incendio e la nave deve essere abbandonata. Le scialuppe di salvataggio stanno trasportando molte più persone di quelle che potrebbero. La scialuppa su cui ti trovi è pericolosamente a filo dell' acqua; le onde sono alte; se non si fa nulla affonderà e tutte le persone a bordo moriranno. Tuttavia, c' è una persona ferita che non sopravviverà in ogni caso. Se la getti fuori bordo, la scialuppa rimarrà a galla. Getteresti questa persona fuori bordo per salvare le vite degli altri passeggeri?
«Corriere della Sera» del 29 novembre 2009

29 novembre 2009

Una piccola polemica letteraria di fine 1200

Durante la lezione di sabato scorso, 28 novembre 2009, abbiamo esaminato un sonetto di Cavalcanti, che Claudio aveva trovato in internet: è la risposta ad un altro sonetto che Dante aveva scritto e inserito nella Vita Nova al capitolo III.
Li ripropongo per una lettura ed un approfondimento personale:
DANTE
A ciascun'alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l'ore
del tempo che onne stella n'è lucente,
quando m'apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d'esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
CAVALCANTI
Vedeste, al mio parere, onne valore
e tutto gioco e quanto bene om sente,
se foste in prova del segnor valente
che segnoreggia il mondo de l'onore,
poi vive in parte dove noia more
e ten ragion nel casser de la mente:
sì va soave per sonni a la gente,
che i cor ne porta sanza far dolore.
Di voi lo core ne portò, veggendo
che vostra donna la morte chedea;
nodrilla de lo cor, di ciò temendo.
Quando v'appare che ne gia dogliendo,
fu dolce sonno ch'allor si compiea,
ché 'l su' contraro lo venia vincendo.
Dopo il commento, che è nato in classe lì per lì, con l'approssimazione propria di una lezione laboratoriale, Ilaria Ventura azzardava la domanda: "Ma nessun'altro ha risposto a Dante?".
Mi sono documentato un po' e ho trovato altri due sonetti in risposta ...

CINO DA PISTOIA (O TERINO DA CASTELFIORENTINO)
Naturalmente chere ogni amadore
di suo cor la sua donna far saccente,
e questo per la vision presente
intese di mostrare a te l'Amore
in ciò che de lo tuo ardente core
pascea la tua donna umilemente,
che lungamente stata era dormente,
involta in drappo, d'ogne pena fore.
Allegro si mostrò Amor, venendo
a te per darti ciò che 'l cor chiedea,
insieme due coraggi comprendendo;
e l'amorosa pena conoscendo
che ne la donna conceputo avea,
per pietà di lei pianse partendo.

Ma ancor più divertente (se lo loggi, capirai il perché) è il seguente:

DANTE DA MAIANO
Di ciò che stato sei dimandatore,
guardando, ti rispondo brevemente,
amico meo di poco conoscente,
mostrandoti del ver lo suo sentore.
Al tuo mistier così son parlatore:
se san ti truovi e fermo de la mente,
che lavi la tua coglia largamente,
a ciò che stinga e passi lo vapore
lo qual ti fa favoleggiar loquendo;
e se gravato sei d'infertà rea,
sol c'hai farneticato, sappie, intendo.
Così riscritto el meo parer ti rendo;
né cangio mai d'esta sentenza mea,
fin che tua acqua al medico no stendo.
... come a dire: "Dante, se c'hai 'sti bollori, vatte a fa' 'na doccia!".

Mio post del 29 novembre 2009

Scrittori: il mondo delle lettere è già uno solo

Prima l’Europa, oggi l’intero globo: non esistono più scritture «nazionali» o divisioni tra centro e periferia, ma un unico grande dialogo tra culture Dove il passato viene di continuo reinterpretato e «meticciato», i valori riscoperti e rivitalizzati
di Ezio Raimondi
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci de L’esperienza letteraria: un dialogo delle culture, il contributo dello storico e critico della letteratura Ezio Raimondi al nuovo numero della rivista 'Palazzo Sanvitale', il quadrimestrale di letteratura diretto da Guido Conti. Nato in un piccolo centro dell’Appennino bolognese nel 1924, Raimondi intraprese la carriera accademica nel 1955; dopo varie esperienze in Italia e negli Stati Uniti, dal 1975 insegnò presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna, dove tenne a lungo la cattedra di Letteratura italiana.
Nella sua vasta opera critica, Raimondi ha unito la ricerca filologica e documentaria con la sperimentazione dei più moderni metodi interpretativi, spaziando da Dante a Machiavelli, da Tasso a Manzoni, da D’Annunzio a Gadda. Tra le uscite più recenti, Leggere, come io l’intendo (Bruno Mondadori 2009), Il senso della letteratura (Il Mulino 2008), Un’etica del lettore (Il Mulino 2007) e Camminare nel tempo (Aliberti 2006).
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All’inizio del Novecento, poco prima che l’Italia si destasse dai sogni rosei della Belle époque nell’incubo insanguinato del primo conflitto mondiale, Renato Serra, nel volgere lo sguardo a Carducci, un protagonista della vita culturale che non aveva mai cessato di testimoniare il passato, aveva già la chiara percezione del distacco irrimediabile che separava le «lettere» novecentesche dalla tradizione, proprio mentre rilevava la necessità di continuare a ricercare il confronto con un tempo lungo alle nostre spalle per non cedere alle facili liquidazioni del passato che la «volgarità» del «nuovo a ogni costo» sembrava imporre. Alla maniera di Karl Kraus e Walter Benjamin , avvertiva la pericolosa inerzia di una lettura ridotta a consumo, del libro come attualità commerciale, e della lingua avvilita nella frase fatta, in particolare dalla parola dei giornali (i mass media di allora) che tende alla violenza dell’istante senza più concedere spazio al silenzio, e quindi a una possibile conversazione. Come la sua, anche altre intuizioni negli stessi anni videro che la tradizione non poteva essere l’oggetto di un superamento o di una liquidazione, quanto piuttosto un luogo di confronto, anche per via dei crescenti contatti del mondo occidentale con gruppi umani per i quali essa è una forza viva, ancora vigorosamente in azione. In verità tutte le rivoluzioni, anche quelle scientifiche e tecnologiche, pongono in un modo o nell’altro il problema della tradizione e del passato, e del resto dallo stesso orizzonte franto del moderno – lo testimoniano scrittori come James Joyce , Thomas S. Eliot , Paul Valéry, Hugo von Hofmannsthal – veniva il richiamo ai segni del passato nell’archivio dei tempi, fra nomi, concetti, figure cui restava legato un senso più alto. La scelta del viaggio verso i padri poteva valere tanto un’iniziazione a un magistero formale, quanto un’iniziativa assunta in nome di un nuovo presente, da pionieri di un nuovo giorno della cultura. Anche quando la tradizione si frantumava in un museo di rovine, non si cessava ancora di inventarla: certo essa non aveva nulla d’uniforme o d’inerte, e nel suo strutturarsi in una spazialità orizzontale definiva in sostanza lo sfondo su cui si stagliavano, più nitide e intense, le figure fuori serie dell’originalità e dell’anomalia. Se la tradizione può dunque essere in determinate circostanze ricordo fedele ma anche lacerante rottura, non già a segno di una contraddizione, ma coerentemente a un’idea di memoria come 'energia', aperta nella sua stessa omogeneità a un flusso erratico di urti, fratture, antagonismi, si capisce perciò come il passato tenda ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica. Questa è la concezione che emerge, poco prima della metà del secolo, dalle pagine di Ernst Robert Curtius , il grande studioso appartenente alla generazione di Gottfried Benn, che nella cultura della retorica, ossia la teoria delle forme profondamente radicata nella tradizione letteraria, veniva scoprendo una «morfologia della tradizione letteraria» che era insieme una «biologia della letteratura», simile, per esempio, alla «immaginazione creatrice» di Henri Bergson, allo studio della sopravvivenza di stereotipi figurativi pagani nei nuovi cicli della cultura occidentale di Aby Warburg, e alle «immagini arcaiche originarie dell’inconscio collettivo» rivelate dalla psicologia del profondo di Carl Gustav Jung. Attraverso tali pagine cominciava ad affermarsi la percezione che la cosiddetta «letteratura nazionale» avesse bisogno di una prospettiva più ampia entro cui darsi ragioni più complesse: quella stessa Europa di cui parlava Thomas Mann nelle Storie di Giuseppe , allorché evocava l’immagine del «pozzo del passato». Era insomma un’Europa che veniva dalla solidarietà di generazioni francesi, italiane, inglesi e tedesche e da una trama di significati condivisi, non troppo lontana dal quadro della Weltliteratur proposta da Johann W. Goethe , perché proprio già in essa si dava l’ampliamento della significatività e della forza espressiva come una sorta di dilatazione dell’orizzonte, nella quale ogni voce, ogni tradizione e ogni testo, pur restando se stesso, attraverso il confronto sapeva diventare anche altro.
Tra Otto e Novecento la storia letteraria poteva ancora essere definita da una dimensione nazionale specifica; oggi dobbiamo invece iscriverla in un insieme più ampio, in un confronto interculturale e interstorico che muove di continuo di esperienza in esperienza, di ragione in ragione, come un grande dialogo che si svolge nel tempo con protagonisti sempre diversi e in cui gli scambi sono straordinariamente vivi e frequenti. E può essere che nel nostro compito nuovo, di fronte a un sistema letterario che anche dietro la spinta del mercato si costituisce strutturalmente all’incrocio fra mondo globale e mondi locali, finiamo col riconoscere motivi e caratteri che hanno radici lontane. Forse anche una letteratura come quella italiana, se interrogata in modo adeguato, alla luce dei nuovi problemi e delle nuove prospettive, potrebbe insegnare come un certo dialogo fra le tradizioni sia stato possibile anche in altri tempi. Pensiamo alla Divina Commedia : è chiaro che nel suo quadro prodigiosamente organico si determina una sorta di impulso all’universalità, in cui affluiscono, al positivo e al negativo, diverse culture e diversi codici mentali. È un poema dove l’enciclopedia del sapere rinvia alla vita universitaria di Parigi così come, sebbene implicitamente, all’Inghilterra, e dove addirittura è compresente il mondo musulmano con ragioni, come è stato ipotizzato, che forse entrano persino nella stessa costruzione dell’opera, nel suo disegno vertiginoso dal razionale al metarazionale. In verità, è sempre avvenuto che le letterature si siano mescolate tra loro, come emerge palese quando ci si metta in rapporto anche con altre letterature nazionali. Certo oggi il fenomeno si presenta in forme molto più radicali, su una scala incomparabilmente più vasta, in cui entrano in gioco tanto il mondo latino-americano quanto il mondo orientale, con l’India, l’Australia, la Cina, il Giappone, per tacere di Israele, dei Paesi arabi o del Sudafrica. E sono proprio quelle che, in un lessico tradizionale, chiameremmo le periferie. Ma anche la dialettica tra centro e periferia, oggi, esige di essere rivista nel profondo, col riconoscimento dei processi fluidi che modificano di continuo le relazioni date e le dignità precostituite, tanto più nel contatto ineludibile con gruppi umani per i quali la tradizione autoctona continua a costituire una forza viva, entro i ritmi di un divenire che non si può adeguatamente intendere secondo il metro dello sviluppo occidentale.
E' un dato di fatto, come ha riconosciuto più di uno scrittore, che la letteratura oggi trova espressioni talora più vitali proprio alle periferie, che nell’atto stesso di riscoprire la letteratura e la sua tradizione le investono con il senso vivo dei propri problemi e con la freschezza delle proprie esperienze. È come una metamorfosi di prospettive, ove il presente di popoli un tempo conquistati e oppressi, con il dramma di una cultura vinta, assume la letteratura e la sua tradizione come strumento di riscatto della propria identità e della propria dignità per poi farvi deflagrare la vitalità sovversiva e la forza di metamorfosi di una esperienza inalienabilmente originale, che chiede di essere riconosciuta nella sua differenza e nella sua eccentricità. Così, in un singolare movimento, gli scrittori delle periferie, che conoscono bene la letteratura istituzionalizzata e che talvolta si servono di una lingua altra da quella d’origine, si portano sin dentro il centro e lo traducono nella propria periferia, rivitalizzandolo a contatto con un universo di cose nuove da testimoniare e di nuove parole da trattenere. Più che di periferie, a questo punto, si deve parlare di nuovi centri, diversi da quelli tradizionali. Il policentrismo si rivela più che mai un’altra faccia del nostro universo globale e plurale. Ma è poi vero, anche in questo caso, che la memoria del passato continua a rifluire nel presente. Quando si legge un romanzo come Paradiso del cubano Lezama Lima, quasi non si riesce più a distinguere tra medioevo, barocco e il presente dilacerato della realtà postcoloniale dei Caraibi. È tutta la letteratura che viene messa in gioco. Ma questo, in un ordine più generale, è anche uno dei caratteri della letteratura del Novecento, che nel momento stesso in cui qualche volta sembra rompere drasticamente con il passato, lo mette in gioco per intero. Si è parlato, a questo proposito, di nuove opere-mondo.
Diciamo piuttosto che il passato tende sempre più ad assumere la figura di una pluralità mobile e sincronica, ordinandosi non più secondo paradigmi selettivi e teleologici, ma alla stregua di una biblioteca o di un’enciclopedia paradossalmente aperta, forse anche di un grande bazar. Vero è che le tradizioni singole non si riescono più a isolare, sono inestricabilmente intrecciate fra loro, proprio come poliglottismo e creolizzazione definiscono i fenomeni emergenti nel nuovo ordine antropologico della società multietnica.
Certo anche questa diversa «giovinezza» delle tradizioni e delle letterature deve diventare una parte della nostra esperienza. Si tratta di un compito straordinariamente arduo che va poi definito e assolto, fuori da ogni enfasi, nella dimensione umile e paziente del lavoro quotidiano, là dove si determina nel concreto il nostro modo di porci di fronte al mondo, ossia dinanzi agli uomini. Va da sé che il multiculturalismo susciti poi nuovi problemi: qualcuno parla di relativismo totale, altri invece, forse più a ragione, invitano a riconoscere che il multiculturalismo non significa relativismo dei valori, perché alla fine determina proprio dei valori umani comuni, differenziati ma insieme solidali. Come è stato acutamente osservato, proponendosi come un assoluto il relativismo non può alla fine che negare se stesso, perché se fosse valore assoluto non sarebbe più relativismo.
Nell’universo contemporaneo della complessità rientra senza dubbio il fenomeno di una sconfinata molteplicità di tradizioni che si trovano a convivere in un mondo che, per un altro dei paradossi del nostro presente, sentiamo più vasto e nello stesso tempo, con i nuovi strumenti informativi, straordinariamente rimpicciolito. Ma l’economia planetaria non elimina il dissidio anche sanguinoso degli interessi e delle visioni del mondo, l’ansia travagliata e talvolta intransigente dell’identità. Ciò che si profila è dunque un sistema culturale strutturalmente aperto e fluttuante, in cui confluiscono canoni, valori, comportamenti anche molto differenti e spesso in conflitto e in cui non si può fare a meno di un pluralismo autentico, fondato sullo scrupolo pensoso di ritornare di continuo sulla propria prospettiva parziale, senza abdicare alla propria singolarità ma impegnandola al confronto con il diverso, al gioco molteplice e spregiudicato delle relazioni, arricchita anche attraverso il dissenso.
In un libro dedicato alla 'società individualizzata', a quella che altri definisce 'società orizzontale', un sociologo di severa e penetrante acutezza come Zygmunt Bauman può osservare che con la globalizzazione e la trasmissione elettronica dell’informazione si produce una 'svalutazione del luogo', una perdita di significato dello spazio, mentre alla prospettiva dello 'stanziale' sembra sostituirsi quella del 'nomade'. Ma più che un’alternativa irreversibile questo significa un nuovo rapporto tra 'globale' e 'locale', come afferma Roland Robertson , un veterano in materia, per il quale la globalizzazione produce non solo l’'uniforme' ma anche il 'diverso' e diviene il contesto necessario entro cui si colloca anche la cultura differenziata del 'luogo'. Ne nasce allora la consapevolezza attiva di una pluralità di storie e tradizioni, il principio negoziato del confronto, la costruzione di un’identità attraverso la presenza dialogante dell’altro. Ora la letteratura, con il suo spazio di figure visibili e invisibili, introduce ed educa esattamente a questa conoscenza, a questa compresenza di verità differenti nella pluralità libera delle coscienze. E il tema dell’altro, oggi così vivo nel discorso filosofico e in tante riflessioni avvertite di ordine sociologico, viene ineludibilmente in primo piano, nella vocazione della letteratura a riconoscere e a capire la diversità, ad assimilarla senza cancellarla o farle violenza. Ed anche la scuola, nel mondo della multiculturalità e della globalizzazione che crea, come sappiamo, nuove forme di etnia, ha il compito di salvaguardare il senso profondo della parola come dialogo, come rapporto tra un soggetto e un altro dove è l’altro che conta, in quanto è colui attraverso il quale anche il soggetto scopre qualcosa di sé.
«Multiculturalismo non significa relativismo dei valori, perché alla fine determina proprio dei valori umani comuni, differenziati ma insieme solidali»
«Ciò che si profila è dunque un sistema culturale strutturalmente aperto e fluttuante, in cui confluiscono canoni, valori, comportamenti anche molto differenti e spesso in conflitto, in cui non si può fare a meno di un pluralismo autentico»
«Avvenire» del 29 novembre 2009

Le sciocchezze di Corrado Augias

Rassegna e confutazione di alcune tesi clamorosamente false di un dilettante che si avventura in campi dov’è incompetente. Copiando anche interi brani da Internet
di Francesco Agnoli
La corazzata mediatica del quotidiano Repubblica continua a sfornare, tramite i suoi giornalisti, libri e libelli contro la Chiesa. Sembra la sentano come un dovere morale irrefrenabile. Dopo la presunta inchiesta di Curzio Maltese, La questua, zeppa di imprecisioni e maldicenze, sono venuti il poderoso e inconcludente La chiesa del no, del vaticanista Marco Politi (con prefazione di Emma Bonino), ed il pamphlet ottocentesco di Claudia Rendina, La santa casta della Chiesa, incentrato su tutte le malvagità vere o presunte di uomini di Chiesa e credenti in generale.
Ma soprattutto, tra le opere più aggressive e più fortunate, quanto a pubblico, si segnalano i tre libri di Corrado Augias: Inchiesta su Gesù, Inchiesta sul Cristianesimo, e, infine, Disputa su Dio, dialogo a due voci con Vito Mancuso. Augias, è bene ricordarlo, è anche un presentatore televisivo, un volta noto al grande pubblico. Chiaramente ne approfitta, per gettarsi a capofitto anche in campi che non conosce e in cui ammette, en passant, di essere un vero dilettante. Questo non gli impedisce di proporre le sue opinioni, infondate, come verità certe e consolidate. In realtà, sempre, dietro le sue ricostruzioni, vi è l’ideologia, il pregiudizio di chi ritiene che l’uomo sia equiparabile ad un ammasso casuale di atomi, senza scopo e senza significato. Interessanti, per capire la sua visione antropologica, due dichiarazioni presenti in Disputa su Dio. Nella prima paragona l’anima ad un computer futuro, nulla più, «in grado di manifestare sentimenti e di elaborare in modo autonomo forme di autoapprendimento» (p. 123); nella seconda equipara l’uomo ad una scimmia, volendo desumerne la negazione dell’esistenza di Dio e dell’anima immortale: «Una volta, allo zoo, ho sentito fortissima la tentazione di abbracciare il povero corpo peloso, lubrico, inconsapevole di uno scimmione, e che lui abbracciasse me, annullando in tal gesto di goffa fraternità i milioni di anni che ci separano» (p. 242).
Alla luce di queste affermazioni si capisce perché, al di là della sua produzione libraria, Augias dedichi numerose sue risposte su Repubblica, nella pagina dei lettori, ai temi della bioetica, difendendo a spada tratta aborto, contraccezione, eutanasia, Ru 486 ecc. con sordo rancore, con vero astio verso le posizioni dei cattolici, che per lui, poco democraticamente, sono sempre e immancabilmente «intollerabili».
L’idea di Augias, infatti, è che in una democrazia non vi possano essere «principi non negoziabili», che non mutano, che non possono essere calpestati da chicchessia. Il perché non è dato capirlo, dal momento che tutta la storia del Novecento, con le sue guerre, i suoi lager, gulag e laogai, dimostra proprio quanto i valori intangibili siano indispensabili per impedire alla legge, all’auctoritas, di diventare tirannica, dittatoriale e prevaricatrice. Hitler, Lenin, Stalin, Mao, e Pol Pot, per intenderci, non riconoscevano valori non negoziabili, e neppure valori spirituali: il risultato si è visto.
Augias, si diceva, contrasta il pensiero cattolico soprattutto nel campo della bioetica, deciso come è ad affermare l’assoluta possibilità di ogni singolo uomo di autodeterminarsi, come fosse il padrone della vita, propria e altrui. Su Repubblica del 10 marzo 2006 ebbe a scrivere al suo direttore: «sto per acquistare il kit della “Buona morte” in vendita a Bruxelles e credo anche in Olanda. Il prezzo è contenuto, meno di cento euro. C’è nel suicidio consapevole responsabilmente esercitato una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di restare padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare».
Tornando ai suoi libri sul cristianesimo, Augias propone le sue verità «inconfutabili»: Gesù non si sarebbe mai proclamato Dio e avrebbe creato una Chiesa, ma solo come «comunità messianica», «realtà escatologica», per il «giorno del giudizio»! Dopo simili, grottesche affermazioni, Augias — omettendo volutamente di parlare dei primi 300 anni in cui papi, sacerdoti e semplici fedeli vennero uccisi negli anfiteatri romani, bruciati nei giardini di Nerone, depredati dei loro beni e delle loro proprietà, pur di mantenere la loro fede — spiega che l’affermazione del cristianesimo fu dovuta essenzialmente all’intervento dell’imperatore Costantino. Costui, d’altra parte, si sarebbe convertito solamente per interesse, per fare della religione cattolica uno strumento di potere, trovando subito l’alleanza di una istituzione, la Chiesa appunto, sempre pronta a fare i suoi sporchi interessi politici ed economici. Come sempre Augias propone ogni sua stramberia come un dogma inconfutabile, avvalorato, a suo dire, dal giudizio unanime di non meglio precisati «storici». Da una parte cioè vi sarebbero i cattolici, sciocchi e creduloni, ancora disposti ad andare dietro alle favole delle conversioni, e dall’altra coloro che invece hanno il coraggio di guardare in faccia alla realtà.
La verità è completamente un’altra. Chi vuole può limitarsi a sfogliare la storiografia attuale, in gran parte laica, su Costantino. Vedrà come si può vendere fumo, dare per accertate tesi che non lo sono affatto, con la più grande naturalezza. A sostenere la veridicità della conversione di Costatino, il graduale cammino di avvicinamento sincero che quest’uomo fece alla religione di Cristo, sono tutti i più grandi conoscitori di quell’epoca. Cito solo Guido Clemente, titolare della cattedra di storia romana all’università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana (Mondadori); Augusto Fraschetti, docente di storia economica e sociale del mondo antico a La Sapienza di Roma, autore di La conversione. Da Roma a Roma cristiana (Laterza); Arnaldo Marcone docente di Storia romana all’Università di Udine e autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino (Laterza); Robin Lane Fox, docente di Storia antica al New College di Oxford, autore di Pagani e cristiani (Laterza), e tantissimi altri titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de’ Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi, Klaus Bringmann... Tra costoro segnalo solo, per mancanza di spazio, il grande archeologo Paul Veyne, di formazione laica e comunista. Veyne sostiene con sicurezza l’autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con J.B. Bury, che la sua «rivoluzione fu forse l’atto più audace mai commesso da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi». È innegabile, infatti, che all’epoca di questo imperatore, che pose fine alle persecuzioni dei cristiani, essi non erano per nulla appetibili come forza politica e sociale: costituivano solo il 5—10 % della popolazione, mentre Senato, aristocrazia romana ed esercito erano in stragrande maggioranza pagani. Il cristianesimo, continua Veyne, si impose allora «perché offriva qualcosa di diverso e nuovo», perché era «religione dell’amore», non certo grazie alla forza ed al potere.
La stessa faciloneria e malizia con cui Augias liquida Costantino caratterizza anche la gran parte delle altre sue argomentazioni: quando afferma erroneamente che le opere di Darwin furono condannate dalla Chiesa; quando copia interi brani di E. O. Wilson, tratti dalla rete, senza citare la fonte e spacciandoli per suoi; quando definisce sbrigativamente Eluana un «cadavere vivente» quando colloca il filosofo Spinoza e Freud tra i grandi scienziati e racconta che la Chiesa li avrebbe scomunicati; quando spiega che la Chiesa, che ha creato l’istituzione ospedaliera, avrebbe ostacolato l’uso degli antidolorifici per un macabro gusto del dolore […]. Sempre, ogni sciocchezza è detta con l’aria di chi la sa lunga. E il lettore ingenuo non può che credere al volto noto e suadente...

Bibliografia

Francesco Agnoli, Perché non possiamo essere atei. Il fallimento dell’ideologia che ha rifiutato Dio, Piemme, 2009.
Paul Veyne, Quando l’Europa diventò cristiana
, Garzanti, 2008.
Marco Fasol, I vangeli di Giuda, Fede & Cultura, 2007.

«Il Timone» del sett-ott 2009

L'avvento della società spiona

di Ilvo Diamanti
Pochi giorni fa l'amministrazione di una località in provincia di Mantova, governata da una coalizione Lega-Pdl, ha invitato i cittadini, con manifesti eloquenti, a denunciare i clandestini che risiedono entro i confini comunali. D'altronde, un'esortazione analoga era stata rivolta ai medici ospedalieri, in una versione preliminare del "pacchetto sicurezza" presentata dal governo. Segni di una marcia inarrestabile, che conduce - anzi: ci ha già immersi - in un mondo nuovo. La società spiona. Che tutti sono chiamati a costruire, rafforzare, estendere. In nome della sicurezza.
È strano, questo orientamento, perché contrasta con il pensiero unico dell'epoca, che ha come riferimenti la libertà e l'individuo. Riassunti nella libertà individuale. Ancora oggi, reclamata come valore irrinunciabile della nostra civiltà. Liberale (appunto) e liberata da ogni totalitarismo. Tanto più dopo il passaggio dalla comunità tradizionale alla metropoli. Fino alla nascita della "società in rete", di cui parla Manuel Castells. Dove le relazioni avvengono a distanza, senza vincoli di spazio e di tempo. A dispetto di ciò, oggi il paradigma dominante si ispira alla sicurezza. Reclama il controllo sociale. Affidato non più alla comunità, ma agli individui stessi. Oppure allo stato. O ancora: al mercato.
Ciascuno è, dunque, chiamato a difendere se stesso, la famiglia: dagli altri, da ogni altro. Mentre, fra i cittadini, c'è ampia disponibilità a delegare alle istituzioni pubbliche e ad agenzie private il compito di difenderli. A costo di cedere porzioni crescenti della nostra libertà personale. D'altronde, il territorio desertificato delle nostre infinite periferie urbane è controllato dai sistemi di videosorveglianza.
Telecamere dovunque, che registrano i nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e filmano tutti, dappertutto. Davanti agli sportelli bancari, nei supermercati, nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all'aperto. Senza sollevare grandi timori, fra i cittadini. Al contrario. Come rileva un'indagine di Demos-Unipolis, condotta nelle scorse settimane (per l'Osservatorio su "Sicurezza, percezione e informazione"), circa nove italiani su dieci sono favorevoli ad "aumentare la sorveglianza con telecamere in strada e nei luoghi pubblici". Circa uno su due: a "consentire al governo di monitorare le transazioni bancarie". Infine, uno su tre: a "rendere più facile per le autorità leggere la posta, le e-mail o intercettare le telefonate senza il consenso delle persone".
Insomma, spioni e spiati, senza troppa angoscia, senza troppi dubbi. È il clima del tempo. Favorito dai media e dalle tecnologie. Evocare Orwell è fin troppo facile. Visto che il Grande Fratello è divenuto un format televisivo di successo globale. Archetipo di tutti i reality show. Il GF, dove i concorrenti stanno rinchiusi in una casa, ciascuno da solo contro tutti gli altri, come ha osservato Bauman. Mentre il mondo fuori li spia, a (tele) comando. Una società allo specchio, fatta di spettatori che apprendono l'arte di arrangiarsi, di guardare e di guardarsi. Dagli altri. Non a caso 7 italiani su 10 dicono che occorre cautela nel rapporto con gli altri; che ti potrebbero fregare (sondaggio Demos, novembre 2009). Dunque: ciascuno per proprio conto. Sottoposto a un "controllo continuo", in un presente istantaneo e dilatato (per evocare Deleuze).
D'altronde, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile ogni intrusione nel privato, immediatamente (senza mediazione). E lo rendono, anzi, di pubblico dominio. Ogni cellulare è dotato di videocamera e di apparecchio fotografico. Per cui ciascuno può riprendere chiunque, in ogni luogo. Riversarne le immagini in rete. In tempo reale. E tutti possono essere spiati e ascoltati ovunque, da soggetti pubblici ma anche privati. Per motivi di sicurezza, ma anche di interesse. Visto che le informazioni private e personali hanno un valore di mercato crescente.
Così avviene il paradosso della perdita di libertà prodotta dalla conquista della libertà. Perché la comunicazione è libertà, Internet è libertà. Come è possibile ribellarsi, opporsi, semplicemente criticare: senza apparire "nemici" della libertà? Nostalgici del tempo passato? Tuttavia, lo sconfinamento fra società della comunicazione e della sorveglianza; fra società in rete e spiona: è continuo e pervasivo. Questa tendenza ha da tempo contaminato la politica. Basta pensare, per ultimi, ai grandi "affaires" degli ultimi mesi. Berlusconi, Marrazzo. Fino alle indiscrezioni sulla Mussolini. Filmati, video, telefonate, servizi fotografici.
Chissà quanti altri capitoli in preparazione o già predisposti, sul punto di irrompere, in questa saga della società spiona. Che ha, da tempo, un organo ufficiale autorevole, pubblicato - ovviamente - in rete, la cui testata recita - ovviamente - DagoSpia. Così rischiamo di scivolare, rapidamente, lungo la deriva delatoria senza accorgercene. E di subirla senza quasi combattere. Assuefatti, più che sopraffatti.
Spinti dalla "società spiona", dove i confini tra privato e pubblico, fra noi e gli altri si confondono, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno si rinchiude nel (e si maschera da) privato anche in pubblico; quando è con gli altri. Dove ciascuno è osservato dagli altri e sorvegliato dal pubblico, anche nel privato. Quando si illude di essere solo. Dove tutti - o quasi - indossano occhiali scuri. Non per difendersi dalla luce abbagliante. (Molti li portano anche di sera, perfino di notte). Ma dagli altri. Per guardare senza essere guardati. Per puntare gli occhi sugli altri senza che gli altri possano vedere i nostri occhi. La società spiona: in nome della sicurezza rischia di trasformarci in nemici. Non solo degli Altri. Ma anche di noi stessi.
«La Repubblica» del 29 novembre 2009

Così l’Associazione Italia-Urss agiva su mandato di Mosca

Nei documenti inediti del ministero dell’Interno, gli intrighi propagandistici della «nota emanazione del Pci». I convegni celavano l’apologia del regime
di Gennaro Sangiuliano
«All’associazione e alla sua normale attività partecipano formalmente persone di nazionalità italiana. Gli elementi di nazionalità russa se ne tengono apparentemente estranei; sennonché l’interesse che vi portano le autorità sovietiche risulta evidente dal loro intervento alle manifestazioni più importanti dell’organizzazione e dal contributo finanziario dell’ambasciata sovietica, come si dirà appresso». È un brano che compare a pagina 2 di un riservatissimo documento di complessive sei pagine, intestato ministero dell’Interno e firmato «il capo della Polizia». È conservato all’Archivio di Stato (riferimento Min. Int., P.S., Cat. G., 1944-1986, n. 287), in un faldone che riguarda le attività dell’Associazione Italia-Urss, che un altro documento di Polizia degli anni Settanta definisce «nota emanazione del Pci».
Il rapporto più interessante è intestato «Gabinetto del Ministro» ed è datato 29 dicembre 1951, quando il titolare del Viminale era Mario Scelba, il politico democristiano allievo di don Sturzo che guidò il delicatissimo ministero dal 1947 al 1953, negli anni in cui settori del Pci ancora meditavano la conquista armata del potere.
L’Associazione Italia-Urss nacque nel 1945, e la sede centrale, come scrivono i rapporti riservati, era a Roma in via XX Settembre, con sedi distaccate in tutte le principali province italiane, soprattutto del Centro Nord. Polizia e Ministero dell’Interno fanno un accurato monitoraggio delle adesioni. Dai documenti si evince che, negli anni Settanta della presidenza dell’Associazione fanno parte Eduardo De Filippo, Renato Guttuso, Cesare Zavattini, Giancarlo Pajetta, Pietro Bucalossi. Il segretario generale è Paolo Alatri. Nel primo documento dell’Interno dedicato al sodalizio si scrive che «in realtà i suoi fini sono diretti ad “agganciare” elementi del ceto medio ed a creare proseliti per il Pci negli ambienti intellettuali». Infatti, tra i membri proliferano gli intellettuali: Giovanni Berlinguer, Paolo Dell’Anno, Ambrogio Donini, Cesare Musatti, il fisico Edoardo Caianiello, l’editore Giulio Einaudi, la scrittrice Renata Viganò, il direttore del teatro stabile di Torino Gianfranco De Bosio, il direttore della mostra del cinema di Venezia Luigi Chiarini, il critico cinematografico Ferdinando Di Giammatteo, il chimico Corrado Rossi, lo storico Rosario Villari, il critico Walter Pedullà, l’editore Vito Laterza. Vi è iscritto anche il bibliotecario della Camera dei Deputati, Paolo Padovani.
L’Associazione è divisa in commissioni. Il capo della Polizia ne traccia una dettagliata mappa, tornando spesso con preoccupazione sul tema dei finanziamenti provenienti dall’Urss e descrivendo il centralismo che muove i meccanismi poiché «ogni commissione controlla il settore ad essa affidato in stretto collegamento con la segreteria generale», mentre quanto alle attività poste in essere si obietta che «si fa promotrice di convegni nazionali di carattere scientifico, sotto la parvenza dell’apoliticità, per convertirli poi, a mezzo di convegni, a propri affiliati e in riunioni di propaganda filosovietica».
Il dopoguerra italiano è tormentato. Nel «triangolo rosso» dell’Emilia si continuano a uccidere ex fascisti, ma anche sacerdoti e democristiani. In quegli anni il vicesegretario del Pci Piero Secchia ancora teorizzava l’insurrezione armata e come responsabile dell’organizzazione interna teneva in piedi il cosiddetto «parapartito», una struttura clandestina fondata su cellule attive e armate di ex partigiani.
L’Associazione continuerà a essere attentamente «osservata» per tutto il dopoguerra. Sugli stessi nomi torna un rapporto riservato della Questura di Roma che cita una presenza molto particolare: l’esponente democristiano Fiorentino Sullo. Il ministero dell’Interno si mostra anche perplesso a causa dell’organizzazione di corsi di lingua russa, al punto da far attivare i prefetti sui provveditori agli studi al fine di «scoraggiare» la collaborazione da parte dei docenti. Tra le attività, la pubblicazione di alcune riviste, la principale delle quali è Italia-Urss, diretta da Arminio Savioli, redattore dell’Unità, insieme a Realtà Sovietica e Rassegna della stampa sovietica.
I documenti del ministero dell’Interno, fra le righe, gettano alcune ombre sul collateralismo pan-sovietico dell’Associazione. «Aderisce a tutte le iniziative politiche estremiste, quali la campagna contro il patto atlantico...», riporta la nota del capo della Polizia sempre a pagina 2. Le attenzioni del Viminale si focalizzano soprattutto sui rapporti diretti con l’Urss: al congresso di Torino dell’ottobre 1949 è presente l’ambasciatore sovietico, insieme a «due delegazioni di cittadini sovietici, proveniente una da Roma l’altra da Mosca». L’ambasciatore è anche a Firenze, al convegno di informazione sugli studi sovietici, nel novembre del 1950, con due segretari e tre funzionari della sede diplomatica. Il 4 febbraio del 1950, l’Associazione tiene una grande manifestazione al teatro Adriano di Roma. Presente non solo l’ambasciatore sovietico, ma anche quelli di tutti i Paesi del Patto di Varsavia. A Siena, invece, per un convegno di «pedagogia sovietica» viene inviato solo il primo segretario d’ambasciata. «D’altra parte», scrive il gabinetto di Scelba, «le attività non potrebbero essere svolte senza il concorso delle autorità sovietiche».
La Questura di Torino dedica un lungo e dettagliato rapporto, firmato personalmente dal questore Ferrante, a un convegno organizzato nel marzo del 1952 dall’Associazione sul tema della «produzione nelle fabbriche sovietiche». Vi partecipano nomi altisonanti dell’apparato del Pci, da Celeste Negarville a Paolo Robotti a Rita Montagna, moglie di Palmiro Togliatti. C’è anche la Cgil al gran completo, con il segretario generale Oreste Lizzadri, i due vice segretari Luciano Lama e Vittorio Foa, oltre al segretario generale della Fiom Giovanni Roveda. La partecipazione di pubblico è altissima, quasi mille persone. Manca, però, l’annunciata delegazione sovietica perché il governo italiano ha rifiutato il visto d’ingresso. Ferrante annota che «non si è fatto altro che esaltare le conquiste del regime sovietico».
Negli anni Settanta le attività perdono il loro carattere territoriale e capillare e diventano più culturali, come la pubblicazione delle opere di Lenin. L’Associazione, formalmente, smetterà di operare nel 1991, quando è imminente la dissoluzione dell’Urss, ma già dai primi anni Ottanta si erano diluite per effetto degli strappi operati dal Pci verso Mosca.
«Il Giornale» del 29 novembre 2009

La sinistra «dimentica» lo storico Zaslavsky

di Alessandro Gnocchi
A leggere i giornali di sinistra, Repubblica in testa, viviamo in un Paese immerso in una realtà virtuale disegnata dai media controllati da Berlusconi. Ogni giorno sociologi, filosofi, scrittori, editorialisti si esercitano su questo tema.
Eppure sembra che proprio i progressisti, Repubblica in testa, abbiano qualche difficoltà a fare i conti con la realtà. Giovedì scorso è morto all’improvviso Victor Zaslavsky, un grande studioso, forse poco conosciuto al grande pubblico, in compenso notissimo a chiunque sia appassionato di storia, in particolare quella del Partito comunista italiano. Zaslavsky, con sua moglie Elena Aga-Rossi, ha demolito con documenti inoppugnabili il mito dell’indipendenza di Togliatti dall’Unione Sovietica. Anche la svolta di Salerno, solitamente portata come prova regina dell’autonomia dal Pcus, fu voluta, o meglio ordinata, dal baffuto dittatore georgiano. Le carte raccolte dalla coppia non ammettono replica.
Zaslavsky poi ha scritto un saggio bellissimo sul massacro di Katyn, una delle vergogne del regime sovietico: nel 1940, nella foresta nei pressi di Smolensk, vennero trucidati circa 22mila polacchi, quasi tutti militari, quasi tutti laureati: l’élite della nazione. Stalin in questo modo eliminava ogni possibile forma di opposizione «borghese». L’eccidio fu addossato per anni ai nazisti, e insabbiato dai russi fino al 1990. Ci volle la caduta del comunismo per sapere la verità. Zaslavsky, in un libro edito dal Mulino, diede una lettura coraggiosa dei fatti fin dal titolo: Pulizia di classe: il massacro di Katyn. Il nazismo eliminava il nemico di razza. Il comunismo quello di classe. L’atteggiamento simile dei due totalitarismi non poteva non colpire. Nel volume di Zaslavsky c’era anche la storia della clamorosa distorsione dei fatti da parte di Mosca e dei suoi alleati fedeli alla linea. In Italia, chiunque si sia azzardato nel corso degli anni a smontare la propaganda sovietica, addossando la strage alla Armata Rossa, è stato zittito dal Pci di Togliatti. La vicenda desta ancora qualche malumore tanto che il film Katyn di Andrzej Wajda, nonostante i molti premi ricevuti, è stato distribuito in pochissime sale diventando il film «fantasma» del 2007.
Victor Zaslavsky, nei giornali di sinistra, con l’eccezione del Riformista, si è meritato in tutto una breve sull’Unità in cui nemmeno vengono ricordati i meriti indiscutibili di uno studioso che ha gettato luce sulla vera storia del Partito comunista italiano, cioè su una parte cruciale della storia di questo Paese. Forse il primo giorno la notizia è stata «bucata», come si dice in gergo, perché non è uscita nelle agenzie di stampa. Ma da ieri era cosa pubblica. Niente da fare. Una scelta editoriale lecita, che fa comunque pensare.
Questo silenzio infatti è il segno di una incapacità di fare i conti col passato che la destra, per fortuna, pare aver superato da tempo. Al contrario la sinistra ne è ancora invischiata fino al collo, e si trastulla con il sogno di un partito comunista sinceramente democratico, autonomo da Mosca. Per non dire dei miti della Resistenza, della inviolabile Costituzione e di tutto l’armamentario consunto da spolverare il 25 aprile e da brandire contro i «fascisti» ormai puramente immaginari. Soprattutto la sinistra si trastulla ancora con la convinzione che sì, forse qualcosa a est è andata storta, e il socialismo reale non era esattamente un paradiso. Eppure l’idea, quell’idea che ha prodotto tragedie lungo l’intero Novecento, non era sbagliata. Anzi: era meravigliosa.
E quindi perché ricordare Victor Zaslavsky, che aveva fatto a brandelli la realtà virtuale comunista?
«Il Giornale» del 29 novembre 2009

Non è vero che rendono solo i libracci

Chi l’ha detto che «tira» solo il trash, il Vip o Dan Brown? E chi l’ha detto che l’intellettuale non vende? I dati dimostrano che l’editoria di qualità costituisce un quarto del mercato. E la saggistica «alta» vola
di Luigi Mascheroni
Basta prefiche. Piano coi catastrofismi. Attenzione con il terrorismo culturale. Sì, è vero: siamo un Paese che legge poco. Ancora gli ultimi dati forniti dal Rapporto Censis su «I media tra crisi e metamorfosi», di una decina di giorni fa, ci dicono che gli italiani che acquistano almeno un quotidiano alla settimana sono passati dal 67% del 2007 al 54% del 2009, mentre quelli che leggono almeno un libro al mese sono scesi dal 59% al 56%. E guardandosi attorno appare chiaro a tutti come la «cultura» - in senso lato e in senso alto - corra seri rischi nelle società contemporanee dove i libri per aver successo devono essere obbligatoriamente “piacevoli”, brevi, polemici o scandalistici, e meglio ancora se scritti da vip e personaggi del mondo dello spettacolo. Dove l’intellettuale è diventato, come il politico, sempre più “pop”. Dove il giudizio che arriva dallo schermo televisivo ha un peso maggiore rispetto a quello suggerito dalla comunità scientifica. Dove l’industria culturale appare sempre più mercificata, semplificata, spettacolarizzata. Tutto vero. Ma - ed è grazie a questo ma che non dobbiamo piangerci troppo addosso - sembra che molta gente abbia ancora «sete di sapere», soprattutto tra i giovani, per i quali i dati di lettura segnalano una piccola crescita negli ultimi due anni. Poi ci sono i festival culturali che prolificano, le «lezioni pubbliche» che fanno il pieno, gli «intellettuali» che nonostante tutto hanno ancora un loro credito e i loro fan. E addirittura - per quanto difficile da immaginare - esiste una «editoria d’autore» che funziona, ha un suo pubblico e produce persino profitto.
Insomma, i barbari saranno anche alle porte, ma ci sono ancora buone ragioni per imparare, per capire, per «vivere».
Il messaggio di speranza - mai così necessario come in questo momento - arriva dalla annuale «Lettura del Mulino» tenutasi ieri a Bologna, la XXV della prestigiosa storia della casa editrice e dedicata quest’anno al ricordo di Giovanni Evangelisti, anima e «testa» del Mulino per oltre 40 anni. In una aula magna dell’Università di Bologna affollata di accademici e intellettuali (segno che non si sono estinti del tutto, come ha azzardato forse anzitempo il dinosauro Alberto Asor Rosa), e davanti a personalità politiche, da Romano Prodi ad Arturo Parisi; economiche, i vertici della Banca d’Italia in prima fila; e del mondo editoriale, dagli Zanichelli a Renata Colorni; ben tre autorevoli voci, con toni e inflessioni diverse, hanno rassicurato gli animi parlando di come sia ancora non soltanto necessario (e questo va da sé) ma anche possibile e conveniente «Fare cultura con i libri».
Che sia giusto e «conveniente» fare cultura con i libri lo ha fatto ben capire Remo Bodei, docente di Filosofia alla University of California, Los Angeles, e per anni alla Normale di Pisa, il quale ha riaffermato nel suo intervento La forza della parola scritta, ricordando come da una parte è indubbio che il libro “tradizionale” subisca la competizione di Internet e dei blog, e subirà sempre più quella di Kindle e delle biblioteche digitali online, ma dall’altra è altrettanto vero che è soprattutto nei «centri di sapere» come le case editrici (dove si producono testi di qualità, pur se non di altissima tiratura) che si può fare argine all’indifferenza culturale e al rifiuto del pensiero critico veicolato dal trash televisivo, dal gossip e da un’industria editoriale dominata dal mercato.
Che sia giusto e «conveniente» fare cultura con i libri lo ha spiegato anche Marc Lazar, storico e sociologo francese con cattedra all’Institut d’études politiques di Parigi e alla LUISS di Roma, il quale ha ripercorso nella sua lezione il tormentato rapporto tra Intellettuali e sfera pubblica dall’Émile Zola dell’affaire Dreyfus ai moderni spin doctor e agli «artisti» che agiscono nel mondo mediatico di oggi (non più organici a un’ideologia ma in prima linea per le grandi cause sociali, dal razzismo alla fame nel mondo) che sono ancora richiesti e ascoltati, e i cui libri continuano a essere letti, dibattuti, e venduti.
E che sia giusto e «conveniente» fare cultura con i libri lo ha soprattutto dimostrato, cifre alla mano, Gian Arturo Ferrari, direttore generale della divisione libri del Gruppo Mondadori, il quale ha spazzato via parecchi motivi di lamentele che circondano l’editoria di cultura. Usando uno strumento di misurazione del mercato dei libri magari non infallibile ma di certo affidabile come «Bookscan», Gian Arturo Ferrari ha preso in considerazione i primi cento editori per copie vendute dei quasi 5mila attivi in Italia (che fanno l’85% del mercato), e selezionando i titoli «di cultura», vale a dire la saggistica di qualità - quella per intenderci di Laterza, Bollati Boringhieri, Mulino, Raffaello Cortina, in parte di Einaudi, Feltrinelli, Bompiani, Adelphi e così via - ha calcolato che l’«editoria di qualità» vale circa il 10% del mercato. Che non è affatto poco, anzi: per fare un confronto, tutta l’editoria per bambini e ragazzi vale il 14%. Non solo: considerando che nella narrativa, italiana e straniera, l’«editoria letteraria» costituisce circa il 15% del mercato, si arriva al sorprendente risultato che, nel complesso, la cosiddetta «editoria di qualità» costituisce un quarto del totale del mercato librario. Chi l’avrebbe mai detto?
E del resto, tenendo presente il tema e il “taglio” dei libri che stiamo per citare, chi l’avrebbe mai detto che nella classifica dei 5mila libri più venduti nel 2008 (che fanno da soli la metà dell’intero mercato) tra i primi cinque titoli ascrivibili all’editoria di cultura ci sono saggi come L’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani del filosofo Umberto Galimberti (al 24° posto, con circa 200mila copie vendute) o Il pane di ieri di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose (al 75° posto con circa 80mila copie)?
Certo, si tratta di cifre che fanno sorridere vicino ai megaseller come Gomorra di Roberto Saviano, ormai sui 2 milioni e mezzo di copie (a proposito, ma è un titolo di qualità o no?), ma che pure fanno sperare.
«Il Giornale» del 29 novembre 2009

Dalla storia alla vita: il lettore «forte» riscopre l’interiorità

di Gian Arturo Ferrari * (forse, visto che il sito non lo indica, ndb)
Perché lamentarsi? Perché le meste litanie che partono dalla rituale deprecazione dei «troppi libri», inutili, brutti e cattivi? Perché il periodico avvistamento di orde barbariche, ingorde di bestseller, che dalle selve della grande distribuzione si avventano contro la cittadella dei buoni lettori? Perché l’elegia sulla estinzione del gentile libraio di una volta, prodigo di consigli, conoscitore dei gusti del cliente, sostituito ormai da bruti privi di favella, attoniti davanti agli schermi di computer? Non che non ci sia del vero in tutto ciò. Anzi. Ma è altrettanto vero che si tratta di una rappresentazione di maniera, troppo convenzionale, reiterata e usurata per risultare convincente.
Oltre all’ideologia elitaria e al cambiamento del punto di vendita una causa del lamento è la mutazione dei gusti del pubblico. Una mutazione sfuggente, ma non per questo meno massiccia. Per restare al nostro ambito, all’editoria di cultura, trascurando dunque la narrativa, basta gettare uno sguardo alla classifica Bookscan dei 5.000 libri più venduti per rendersi conto dell’entità del fenomeno (ricordiamo che i primi 5mila titoli, meno di un centesimo dei 550mila titoli in commercio, fanno da soli metà del mercato; il cinquemillesimo titolo vale 2.642 copie). I primi cinque titoli ascrivibili all’editoria di cultura sono nell’ordine: al 24°posto L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani, di Umberto Galimberti, Feltrinelli, al 46° posto L’uomo che non credeva in Dio, di Eugenio Scalfari, Einaudi. Al 65° posto Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Mario Martini, Mondadori, al 75° Il pane di ieri, di Enzo Bianchi, Einaudi, e per finire, al 76° posto L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, Raffaello Cortina. Non abbiamo considerato Inchiesta sul cristianesimo di Corrado Augias e Remo Cacitti e Una giornata nell’antica Roma di Alberto Angela rispettivamente al 40° e al 43° posto. Il primo titolo di storia non popolarizzata è Eseguendo la sentenza. Roma 1978. Dietro le quinte del caso Moro e giunge al 378° posto. Ma per avere un vero e proprio saggio storico di cultura bisogna scendere fino al 752° posto dove si incontra Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, Einaudi. La buona notizia è che anche nel nostro paese sta nascendo una divulgazione scientifica, storica, culturale di buon livello, in alcuni casi di buonissimo livello.
Ma per il resto balzano agli occhi due fenomeni: il primo è lo spostamento di interesse, e quindi tematico, dal mondo esterno, dal mondo della storia e della civitas, al foro interiore. La rinascita, vigorosa e impensabile, venticinque anni fa, della sensibilità religiosa è la sua manifestazione più vistosa. Il secondo, certo connesso al primo, è la curvatura soggettiva ed esperienziale. Solo il vissuto, solo ciò che è stato vissuto in prima persona è vero, ha valore, merita di essere comunicato e, soprattutto, dal nostro venale punto di vista, merita di essere acquistato. Cinquanta o venticinque anni fa, nessuno di questi libri sarebbe stato ai primi posti nell’editoria di cultura. Ma forse, cinquanta o venticinque anni fa nessuno di questi libri sarebbe potuto esistere.
* Direttore generale Divisione libri del Gruppo Mondadori
«Il Giornale» del 29 novembre 2009