31 ottobre 2006

La scienza è democrazia. E’questo che non piace?

di Edoardo Boncinelli

Per la scienza i tempi si fanno sempre più duri. Soprattutto per la scienza di base, quella volta a esplorare il mondo e a cercare di chiarirne i misteri. Si moltiplicano gli appelli ai giovani perché si dedichino alle discipline scientifiche; si moltiplicano le dichiarazioni ufficiali di appoggio alla ricerca; si moltiplicano i Festival che avvicinano sempre più gente, soprattutto giovane, al mondo della scienza e delle sue realizzazioni, ma l’atteggiamento globale verso la scienza non migliora, se addirittura non peggiora. Non più tardi di ieri, infatti, il vescovo di Genova, ha criticato il Festival della Scienza perché «troppo a senso unico», e indirettamente la scienza «che non può essere del tutto libera, senza alcun vincolo». In un paese che destina le briciole del suo bilancio alla ricerca e ai suoi operatori, ci si potrebbe almeno aspettare un atteggiamento positivo e di apprezzamento nei riguardi della scienza, ché tanto non costa nulla. Ma non è così. L’attacco viene da più parti ed è frontale: la scienza viene criticata nei suoi presupposti, nei suoi risultati e nelle sue applicazioni, il tutto nella patria di Galileo! La scienza produce conoscenza, applicazioni pratiche e cultura ed è portatrice di un particolare atteggiamento mentale. Per quanto riguarda la conoscenza, il progresso scientifico ci ha permesso di comprendere cose inimmaginabili, del cielo, della terra, degli esseri viventi e della mente. Ma secondo alcuni questa non è vera conoscenza: si tratta di verità parziali, temporanee e settoriali. Come se esistesse un’altra attività umana che ci dà verità globali, eterne e universali. La scienza ha portato, in concorso con la tecnica o indipendentemente da quella, uno stuolo di applicazioni pratiche in tutti i campi, che tutti, senza eccezione, utilizzano. Ma è vezzo comune parlarne solo male, evidenziandone i rischi e la potenza disumanizzante. La scienza ha introdotto nel nostro linguaggio quotidiano concetti e argomenti che hanno dato nuova linfa alla nostra cultura, dischiudendo ai nostri occhi orizzonti ideali senza precedenti, sul mondo che vediamo come su quello che non vediamo, perché popolato di entità troppo grandi o troppo piccole per i nostri sensi. Se non si dedica primariamente alle cosiddette grandi domande di senso - colpa fondamentale per qualcuno - ha comunque contribuito a cambiare la formulazione della maggior parte di esse. Che secondo me è il massimo che si possa fare. La scienza è infine un metodo, uno stile di lavoro e una mentalità. La scienza educa allo spirito critico, alla non accettazione di affermazioni date per scontate, alla messa in discussione del più alto numero possibile di presupposti a priori, all’ascolto delle argomentazioni dell’altro, alla critica e alla disponibilità a essere criticati. Tutto questo costituisce secondo me anche il fondamento della democrazia, almeno nella sua accezione moderna. Probabilmente è il contributo dato alla cultura e alla diffusione dello spirito critico che i nemici della scienza vogliono colpire. Ma non osano e allora chiamano in causa e criticano il suo potere esplicativo e predittivo e le sue applicazioni pratiche, delle quali tra l’altro la scienza più vera e profonda potrebbe benissimo fare a meno. Si dice che la scienza abbandonata a se stessa potrebbe portare guasti infiniti e addirittura autodistruggersi. Innanzitutto, questo è vero per qualsiasi cosa: niente è bene se abbandonato a se stesso. Ma non sarà certo la scienza quella che correrebbe più velocemente verso il disastro una volta abbandonata a se stessa, essendo opera di pochissimi individui, che sono per giunta scontrosi e individualisti per natura. In secondo luogo, se davvero si ravvisa questo pericolo, non lasciamola sola: studiamola, frequentiamola, esploriamola, tentiamola. E magari facciamola.
«Corriere della sera» del 30 ottobre 2006

Ok alla scienza: rispettiamone però i limiti

Boncinelli, niente dietrologie
di Francesco D'Agostino
Accusare non è mai gradevole. Ancora più sgradevole, però, è essere accusati. Ancor più quando gli accusatori sono scienziati (come ha fatto ieri sul «Corriere» Edoardo Boncinelli) e gli accusati tutti coloro che, pur rispettando profondamente la scienza e pur riconoscendone tutti gli autentici meriti, non assumono però nei suoi confronti quell'atteggiamento di soggezione, e - diciamolo pure - di venerazione, che con un bel po' di tracotanza certuni tra gli scienziati pensano sia doveroso nei confronti della scienza, in nome dei suoi indiscutibili meriti. Che si riassumerebbero essenzialmente in tre punti: la scienza aiuta l'umanità a progredire nel sapere; le reca innumerevoli benefici a seguito delle tecnologie che essa consente di elaborare; e infine, mettendo a disposizione dell'umanità in modo esemplare il suo stile di lavoro e il suo metodo critico, contribuisce in modo essenziale al diffondersi di quel bene, oggi irrinunciabile, che è il metodo democratico.
Ora, per quel che riguarda i meriti della scienza, è indubbio che le cose stiano così, ma non del tutto. E gli scienziati, poiché amano o dovrebbero amare la precisione e il rigore sopra ogni cosa, dovrebbero essere i primi ad ammetterlo. La scienza produce conoscenza? È indubbio! Produce conoscenze preziosissime. Ma non produce, né sarà mai in grado di produrre, tutte le conoscenze: esistono dimensioni del sapere (quelle estetiche, quelle morali, quelle affettive, quelle in cui si condensa l'esperienza di vita, quelle in sintesi che hanno dimensioni personali) che sono autentiche, ma non riducibili alle conoscenze scientifiche (che sono invece per loro natura oggettive, formali, astratte, necessariamente impersonali). La scienza produce utilissime applicazioni pratiche? È indubbio! Ed è da sciocchi parlarne male o anche solo minimizzarle.
La scienza però - e gli scienziati sono i primi a saperlo -- non è in grado, di per sé, di discriminare un'applicazione pratica che promuova il bene umano ( come una terapia) da un'applicazione pratica che gli faccia invece violenza (come una manipolazione).
Ed arriviamo infine al cuore del problema. La scienza ha un suo metodo: educa allo spirito critico, non dà nulla per scontato, è attenta alle argomentazioni dell'altro, è sempre disponibile ad essere criticata (in sintesi: è un sapere strutturalmente antidogmatico).
Uno scienziato che abbia letto solo qualcosa di Platone ammetterà che questo, prima ancora che di Galileo, è lo spirito di Socrate. È ovvio che Galileo ha aggiunto qualcosa a Socrate, ma proprio questo qualcosa è ciò che, mentre potenzia la scienza come sapere oggettivo, la impoverisce come sapere umano: è lo sguardo circoscritto, che coglie dei fenomeni solo la dimensione estrinseca e lascia cadere la domanda di senso. Torna alla mente la vicenda grottesca narrata da Musil (che, ricordiamocelo, di scienza se ne intendeva) in quell'opera capitale del Novecento che è L'uomo senza qualità: al marito che piange la morte improvvisa e inaspettata della moglie, e gemendo si chiede ad alta voce: Perché sei morta?, lo scienziato (o meglio lo scientista di turno) risponde meravigliato in un modo che è assieme scientificamente esatto ed umanamente assurdo: Caro Signore, ecco la risposta alla sua domanda: sua moglie è morta per arresto del cuore. L'incapacità - tutta scientifica - di percepire le domande di senso non va imputata alla scienza, ma a coloro (gli scientisti) che pensano che poiché la risposta a tali domande non è riconducibile alla logica della scienza, queste domande vanno a loro volta ritenute prive di senso.
Chi mostra i limiti costitutivi della scienza non è un nemico dello spirito critico, né meno che mai del progresso del sapere o dei benefici che la tecnologia ha apportato e continuerà ad apportare al genere umano. Lo spirito critico sta a cuore a tutti gli uomini che amano il sapere, perché senza spirito critico non c'è sapere di sorta.
Gli scienziati dunque si tranquillizzino e rinuncino a sterili dietrologie; chi vuole mostrare i limiti della scienza non è un nemico né della democrazia, né a maggior ragione della scienza: è piuttosto chi con Pascal (un altro che di scienza se ne intendeva!) è convinto che solo chi ama la verità è in grado di conoscerla. Nell'amore si fondono la logica dell'intelletto e quella del cuore: ambedue le logiche devono starci a cuore, perché solo grazie al loro equilibrio si può generare il bene dell'uomo.
«Avvenire» del 31 ottobre 2006

Il bazar mondiale dei video online: You tube

Un «archivio» di filmati gratuiti e fai da te che ha già superato i 100 milioni: 65.000 novità al giorno e più di venti milioni di visitatori al mese. Sono i dati di quello che in un anno è diventato un nuovo punto di riferimento nella Rete: una vera rivoluzione mediatica
di Elena Nieddu
Quello di Martin Harris è stato per giorni il filmato più selezionato: un uomo di 86 anni racconta all'obiettivo fisso di una videocamera storie della seconda guerra mondiale con la voce incrinata dei ricordi. In un altro video i ragazzi della seconda E documentano l'ora dell'intervallo, urla e corse nei corridoi di un liceo. Un collage di servizi della Cnn sovrappone fatti e opinioni sulla questione del nucleare in Corea del Nord. E due ragazze, Lita e Adi, cantano e ballano davanti allo specchio di una normalissima abitazione privata.
Questo è YouTube, il fenomeno Internet del momento. Un sito che raccoglie ogni tipo di filmati amatoriali, di qualunque provenienza, argomento e qualità audiovisiva. Uno zibaldone di immagini dell'era contemporanea, un gigantesco mercatino dell'usato, con più di 100 milioni di video a disposizione gratuitamente, ogni giorno.
Il funzionamento di YouTube è molto semplice. Chiunque può girare un filmato e «riversarlo» sul sito. Qui diventa automaticamente accessibile agli altri utenti, che possono a loro volta rispondere con altri video o commentare le immagini attraverso messaggi scritti.
Dal febbraio 2005, da quando due ex dipendenti della società di pagamenti on line PayPal lanciarono questo nuovo spazio di comunicazione, YouTube è la realtà della Rete in in più forte espansione, con 65mila nuovi filmati aggiunti ogni 24 ore, più di 20 milioni di visitatori al mese. Una platea che fa gola ai pubblicitari e, ancora una volta a sei anni dall'esplosione della bolla della new economy, attira capitali. Come quelli del motore di ricerca Google, l'indice più utilizzato nella Rete, che ha recentemente acquistato YouTube per 16,5 miliardi di dollari. Un investimento da capogiro per un ambiente che offre ampie praterie di visibilità agli strateghi della pubblicità, in tutte le sue molteplici forme. Anche se c'è chi è scettico a questo riguardo. «Chi pensa di guadagnarci sbaglia», avvertono le Cassandre, mettendo gli investitori davanti a un'amara verità: Internet è il mondo del «freeware», del gratis a tutti i costi. Follia sarebbe far pagare i video scaricati. E ricordano quello che successe a Napster, famosissimo sito di condivisione di file musicali, che appena diventò a pagamento fallì tristemente.
Su YouTube, dicevamo, si trova di tutto. Ma per non lasciare l'utente solo davanti al mare magnum del visibile, il sito è ben organizzato: in sottocartelle che segnalano quali sono i video più cliccati del momento e quali i più commentati. C'è anche un sistema di ricerca che permette di trovare subito tutti i filmati su un determinato argomento, siano le teorie del complotto sull'attentato dell'11 settembre 2001 o il piccolo Jacopo che insegue i piccioni in piazza del Duomo. E se un video non piace, si può scrivere all'autore, presentando le proprie rimostranze. Il sistema funziona con la logica della segnalazione: ovvero, trovo un filmato interessante e lo consiglio a un amico, che a sua volta si precipita a vederlo, aumentando il numero degli accessi e quindi rendendo il sito ancor più visibile. Così si creano veri e propri «casi», che rimbalzano nel sistema dei media tradizionali, sulle agenzie di stampa: come quello delle due ragazze israeliane che semplicemente ballando davanti alla webcam hanno ottenuto in pochi minuti 10 milioni di contatti e sono finite su un dispaccio della Reuters. O quello di Martin Harris, che ha raccontato agli youtubers la sua esperienza come militare nella campagna di Francia durante la seconda guerra mondiale, suscitando i commenti di altri veterani in tutto il mondo.
Ma almeno due problemi sono dietro l'angolo. Il primo è quello dei diritti: nonostante sia esplicitamente vietato, sono numerosissimi i contributi protetti da copyright che vengono immessi nel sistema. Per questo recentemente abbiano protestato 23 aziende giapponesi, tra le quali emittenti televisive, case discografiche e cinematografiche, che hanno chiesto a YouTube di oscurare 30mila video, accusan do i gestori del sito di violazione delle leggi nipponiche del diritto d'autore. Il secondo, non meno grave, è l'esposizione di un pubblico fatto prevalentemente di adolescenti a visioni potenzialmente inadatte: per quanto molti browser (i programmi che consentono di navigare su Internet) si siano attrezzati con sistemi che bloccano la visione di siti porno o violenti, il controllo rischia di essere sempre insufficiente. E allora? Come ogni novità nel campo della comunicazione, YouTube dev'essere perfezionato. Ma chi dovrà progettare correttivi, dovrà pensare a non deludere - almeno apparentemente - le aspettative della generazione nata e cresciuta sulla Rete: la possibilità di partecipare, e la sensazione di libertà. Se di vera libertà e di vera partecipazione si tratta, saranno i posteri a dircelo.
«Avvenire» del 29 ottobre 2006

27 ottobre 2006

Inossidabile infinito

Parla l'astrofisico Jean-Pierre Luminet: «È un concetto fecondo. L'uomo ne ha bisogno anche per comprendere le cose finite»
Di Luigi Dell'Aglio
«Ogni 25 anni i fisici annunciano la sua morte Ma poi risorge sempre...»
«Chi è? Oh, benissimo, fate entrare l'infinito». Perché non si dubitasse delle sue convinzioni materialistiche, il poeta francese Louis Aragon sull'infinito ci scherzava in versi. L'astrofisico francese Jean-Pierre Luminet, da scienziato, prende invece sul serio la questione: «Tutto ciò che riusciamo a conoscere sperimentalmente non è infinito. Ma, appena ci mettiamo a pensare, ecco che fa la sua comparsa l'idea dell'infinito». Ogni quarto di secolo, i fisici cambiano parere sull'infinito: prima esiste, poi non esiste, poi di nuovo esiste. Tanto che, a conclusione del suo libro Finito o infinito?, recentemente pubblicato da Cortina e scritto con Marc Lachièze-Rey (pagine 178, euro 19,00), Luminet esclama esultante: «L'infinito è morto. Viva l'infinito». Soppesata la questione, Luminet si persuade che, quando da una teoria viene eliminato l'infinito, ci si ritrova poi con una teoria nuova che postula, a sua volta, un nuovo infinito. Se lo cacci dalla porta, rientra dalla finestra, spiegherà sabato al festival della Scienza di Genova in una conferenza dal titolo «Sull'infinito. Limiti ed enigmi dell'universo».

Professore, perché l'infinito è come l'araba fenice che risorge dalle proprie ceneri?
«L'infinito, nello spazio e nel tempo, ha tormentato tutti i grandi pensatori della storia. Ma non è stato mai liquidato. Perché alla nozione di infinito si deve ricorrere spesso. È un concetto fecondo. L'uomo, essere finito, ha bisogno dell'infinito anche per comprendere le cose finite».

L'infinito regna nella matematica. Ma tanti scienziati lo detestano. Perché?
«Tutta la matematica sembra costruita sul concetto di infinito. Non esiste un numero "ultimo"; dopo quello, ce ne sarebbe sempre un altro. Ma non pochi fisici allontanano l'idea di infinito. Come se ne avessero orrore. Come per ribellarsi all'affascinante ipotesi di un aldilà che possa offrirci una promessa infinita. Sembra che covino un rifiuto violento, un "no" irraziona le, passionale. Chissà, forse pensano, come lo psicanalista Jacques Lacan, che "si riesce a sopportare la vita soltanto perché ha un termine". E sono tanti gli esempi di odio per l'infinito e per gli "infinitisti"».

Il caso più clamoroso?
«Il più drammatico, direi: la congiura contro Georg Cantor, matematico tedesco, uno dei più appassionati "visionari dell'infinito". Oggi le sue ricerche sono considerate le basi della matematica moderna. Ma allora (alla fine dell'Ottocento) furono scartate con ripugnanza. Cantor venne isolato e finì per diventare pazzo».

Il mondo della scienza ha i suoi omicidi bianchi. Ma l'altalena finito-infinito quando è cominciata?
«Per Aristotele, l'infinito è solo potenziale, non attuale. Perché nessuno può indicare un numero ultimo che sia "attualmente infinito". Per il filosofo Archita di Taranto era invece assurdo un universo finito. "Finisce con un muro? - si chiedeva - No. Arrivato al confine, io potrei sempre allungare una mano oltre. Allora è infinito". Nel Quattrocento il filosofo Nicola Cusano disse: "La fabbrica dell'universo ha ovunque il suo centro, e la sua circonferenza da nessuna parte". E Cartesio: l'intelletto finito è in grado di riconoscere l'infinito, ma solo Dio è infinito. Cantor, tre secoli dopo, ribatte: "La più alta perfezione di Dio è la possibilità di creare un insieme infinito, e la sua immensa bontà lo conduce a crearlo"».

Nella storia della scienza - in tema di infinito - si è discusso molto sui famosi paradossi. Mettevano alla prova gli intelletti più acuti.
«Nel paradosso di Zenone, una freccia viene scagliata contro il bersaglio ma non lo raggiunge mai. Infatti, percorsa la metà del suo cammino, gliene resta da percorrere un'altra metà, e poi la metà della metà, eccetera, e non si finisce più. Per lo stesso motivo, Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Per John Stuart Mill, però, il paradosso nasce dalla confusione tra tempo indefinitamente divisibile e tempo infini to».

La cosmologia moderna ha aperto un dialogo, o continua il duro scontro di una volta?
«La questione finito-infinito viene ora affrontata con una certa tranquillità. Nei primi decenni del Novecento, c'è stata la rivoluzione cosmologica. Il merito è della teoria della relatività generale di Albert Einstein e delle numerose scoperte astronomiche. I concetti di tempo e spazio subiscono modifiche. L'universo non è più una struttura immutabile. Si afferma l'idea che è possibile concepire uno spazio che sia, al tempo stesso, finito e senza confine. Non si parla più di paradossi e contraddizioni: finito e infinito sembrano ugualmente possibili. E, per farlo capire meglio, nel mio libro ho messo una frase dell'umorista francese Pierre Dac: "l'infinito è lungo, soprattutto verso la fine"».
Avvenire del 25 ottobre 2006

Processo a Ungaretti

Una relazione di un famoso storico alla base di due procedimenti. L’accusa: in cattedra grazie ai gerarchi
di Enrico Mannucci
Salvatorelli: «Epurate il poeta amico del duce pagato dal regime, scrisse versi contro gli Alleati»

Scrivere «Nello sterminio folle/ orridi appariste/ del suggello umano, dimentichi» significa aderire alla campagna fascista, mista di pietismo e di odio, contro la liberazione alleata dell’Italia? Sì, tanto più quando i versi sono compresi in una lirica intitolata «Poeti d’oltreoceano, vi dico» pubblicata nell’agosto 1943, subito dopo i bombardamenti americani su Roma. È la tesi con cui lo storico Luigi Salvatorelli chiese l’allontanamento di Giuseppe Ungaretti dalla cattedra di Storia moderna e contemporanea all’Università di Roma. La vicenda, in gran parte inedita, di un procedimento di epurazione discusso e combattuto a colpi di interpretazioni letterarie, viene ricostruita da Giovanni Sedita in un saggio che compare sul prossimo numero di «Nuova Storia Contemporanea», la rivista diretta da Francesco Perfetti. La situazione di Ungaretti venne messa in discussione a partire dal luglio 1944, dietro il sospetto che la sua nomina accademica avesse seguito un iter irregolare grazie al favore dei gerarchi fascisti e, più in generale, di una stretta contiguità ideologica col regime. Lo giudicava una commissione di tre membri fra cui, appunto, Salvatorelli nominato da Mauro Scoccimarro, Alto Commissario aggiunto per l’epurazione nella pubblica amministrazione. Non va dimenticato che questi provvedimenti - soprattutto in campo culturale - suscitarono non poche perplessità. Proprio nell’agosto 1944 Cesare Zavattini scrisse a Mario Alicata per dissociarsi dall’epurazione degli scrittori e sull’argomento tornò, qualche mese dopo, nella corrispondenza con Bonaventura Tecchi lamentando il pericolo di «esclusioni non meno mostruose di quella di Ungaretti» (da Lettere, Bompiani, 2005). Ungaretti, comunque, si mise d’impegno a contestare le accuse e presentò un lungo memoriale difensivo: riconoscimenti di studiosi, un appello firmato da decine di docenti romani e anche la negazione di particolari contatti col fascismo: «Si può dire che non conoscessi un gerarca». «Nella relazione - nota Sedita - era spiegata la distanza dalle ultime scelte politiche del regime: le leggi antiebraiche e la guerra. Se affermare la propria estraneità al regime non appariva credibile per un antico tesserato del Pnf come lui (si era iscritto al partito il 30 agosto 1924, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Matteotti), tuttavia si poteva ribadire una recente dissidenza». In prima istanza, nel novembre 1944, la commissione si pronuncia per l’archiviazione del procedimento. A tamburo battente, nel gennaio ‘45, Scoccimarro si oppone all’assoluzione. E, nel ricorso, fa largo uso del lavoro di analisi di Salvatorelli che, evidentemente, era stato trascurato o messo in minoranza nel precedente giurì. Un altro verso di «Poeti d’oltreoceano, vi dico» invoca Dio perché conceda «spazio e pane/ esaudendo giuste speranze» che sarebbero quelle di vittoria contro gli angloamericani. Indietro nel tempo, poi, c’è una poesia - «Popolo» - dedicata al Duce, dopo una prefazione che esalta l’opera di Mussolini. Il quale, nel 1923, aveva ricambiato introducendo a sua volta un’edizione - oggi rara - di «Il porto sepolto». Infine - ma forse ancor più rilevante - veniva ricostruito il rapporto finanziario che legava il poeta al regime: «dall’esame della rubrica sovvenzioni del ministero della Cultura Popolare risulta che il prof. Ungaretti percepì un assegno di 1.500 lire mensili dall’agosto 1934 al novembre 1942 figurando così tra i pubblicisti protetti dal passato regime come servi particolarmente fedeli». Osserva Sedita: «La politica delle sovvenzioni agli intellettuali divenne una strategia della gestione del consenso parallela al consolidamento del regime. Accettare la sovvenzione significava per l’intellettuale, implicitamente o esplicitamente, con entusiasmo o indifferenza, per fama o indigenza, incentivare un vincolo di dipendenza dal fascismo». E di seguito elenca i beneficiati con regolarità: «Per anni furono destinate mensilmente somme da 500 a 2.000 lire a importanti nomi della cultura italiana come Sibilla Aleramo, Bruno Barilli, Vincenzo Cardarelli, Alfonso Gatto, Corrado Govoni, Pietro Mascagni, Vasco Pratolini, Rosso di San Secondo». Saltuarie erano, invece, le retribuzioni per giovani promesse come Enrico Falqui, Romano Bilenchi, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Sandro Penna, Salvatore Quasimodo: «Ungaretti ebbe il privilegio di ottenere un sussidio fisso. Il rapporto finanziario si interruppe momentaneamente nel 1939 quando Ungaretti accettò l’incarico all’università di San Paolo (in Brasile; ndr), per riprendere con il versamento degli arretrati (48.000 lire), nel giugno 1942, e di nuove mensilità fino all’assegnazione della cattedra all’Università di Roma nel novembre 1942. In tutto 144.000 lire in nove anni». Le nuove contestazioni obbligarono il poeta a un’ulteriore replica più particolareggiata, dopo che nel primo memoriale aveva detto di «non possedere nulla»: «Era una sovvenzione che si usava dare a scrittori e artisti bisognosi ai miei occhi non aveva diverso carattere della sovvenzione dello Stato all’agricoltore, perché possa portare a termine lavori di bonifica». Poi Ungaretti si addentrava nella lettura critica dei propri testi, interpretando i versi sotto accusa: «Esprimevo con disperazione il mio strazio davanti alla minaccia che dovesse cadere in rovina il più alto patrimonio di bellezza posseduto dall’umanità. Esprimevo il concetto, con accento straziato, ma pieno di tenerezza verso i poeti d’oltreoceano, che non sarebbero così solo caduti i nostri più sacri ricordi, ma anche i loro». La disputa si concluse nel maggio 1945, con la conferma della decisione di primo grado, ovvero il reintegro di Ungaretti in cattedra. A giudizio della Commissione Centrale per l’Epurazione non vi erano elementi per sostenere l’apologia di fascismo. L’unica conseguenza fu, per così dire, artistica. La poesia incriminata sparì da tutte le successive raccolte. Sono sopravvissuti solo gli ultimi due versi - «Del crescere vago dell’erba/ lieta dove non passa l’uomo» - traslocati con una lieve modifica in chiusura di un’altra lirica, «Non gridate più».
Il protagonista Giuseppe Ungaretti nacque nel 1888 ad Alessandria d’Egitto e morì nel 1970 a Milano Studiò alla Sorbona e collaborò con Giovanni Papini e Ardengo Soffici alla rivista «Lacerba» Nel 1914 tornò in Italia, si arruolò e combatté sul Carso e poi in Francia Nel 1916 pubblicò la raccolta di poesie «Il porto sepolto», cui seguirono «Allegria di naufragi» (1919) e «Sentimento del tempo» (1933)

«Corriere della sera» del 26 ottobre 2005

26 ottobre 2006

La scienza spiega le sofferenze quotidiane

Si tratta del solito miraggio scientista: tutto quanto c'è di immateriale (questa volta sotto la mannaia dello 'scienziato' è caduta la sofferenza, chissà domani a cosa altro toccherà ...) in realtà si può spiegare alla luce della ragione.
Poveretti questi che si accontentano di spiegazioni di questo genere ...

Le ultime ricerche svelano i segreti del dna per piacere, fedeltà, ardimento e memoria. E ora si conosce anche il gene del dolore
di Edoardo Boncinelli

«Il dolore… ha una voce e non varia», dice Umberto Saba in una sua celebre lirica ma se il timbro della voce del dolore è sempre lo stesso, la sua intensità può essere molto diversa. C'è chi lo sente attutito, chi lo sente acuito e chi lo prova anche in assenza di una causa apparente. Queste differenze sono mediate da strutture biologiche specifiche che sono controllate a loro volta da un certo numero di geni. Uno di questi è stato ora individuato, direttamente nell'uomo, e possiamo ben dire che con scoperte del genere siamo entrati nell'era della scienza del quotidiano, soprattutto della biologia e della medicina del quotidiano. Vale a dire della scienza di ciò che ci accade tutti i giorni e di ciò di cui si parla tutti i giorni: della fedeltà, della curiosità, del piacere, dell'ardimento, della memoria e adesso del dolore. All'inizio la genetica si è occupata di casi estremi, di malattie ereditarie gravi, invalidanti — disperate e disperanti — ma rare o rarissime. Per penetrare nei segreti del funzionamento del nostro corpo abbiamo dovuto approfittare di circostanze estreme e straordinarie. I nostri geni e tutto il mondo che gira loro intorno non sono lì per farci stare male, ma al contrario per farci stare bene. Ogni gene fa silenziosamente il proprio dovere nel quadro della salute e dello sviluppo generale del nostro corpo. Lo fa tanto silenziosamente che non ci accorgiamo che lo sta facendo. E neppure che esiste. Questo vale ovviamente per tutti i geni presenti nel nostro patrimonio genetico. Se tutti funzionassero sempre bene, senza alcun inconveniente, non ci saremmo probabilmente neppure oggi accorti che esistono. Il fatto è che talvolta, anche se raramente, non fanno fino in fondo il loro dovere — perché mancanti, perché insufficienti o perché alterati — e causano un disturbo più o meno grave. E' allora che ci accorgiamo della loro esistenza. Non esiste infatti il gene per la cecità, ma piuttosto il gene per la non-cecità: solo quando è alterato produce un difetto della vista. Così come non esiste il gene per la distrofia muscolare, ma semmai il gene per la non-distrofia muscolare, che solo quando è alterato conduce ad una distrofia muscolare. Grazie a questi rari incidenti di percorso ci siamo accorti che i geni esistono e abbiamo cominciato a stilarne un elenco e a disegnarne una mappa. Si tratta però di malattie rare e diciamo pure lontane dalla vita di tutti i giorni. Rare, perché fortunatamente nella maggior parte dei casi i geni fanno il loro dovere. Lontane dalla vita di tutti i giorni, perché per poterle osservare occorre che si tratti di quelle rare evenienze nelle quali la disfunzione di un singolo gene produce un effetto rilevabile e macroscopico. Per questa via siamo riusciti però a penetrare a fondo nei segreti del corpo e del suo controllo genetico. La combinazione di genetica, biochimica e biologia molecolare ha prodotto in questi ultimi decenni una messe di conoscenze che ci hanno finalmente permesso di passare allo studio della biologia delle caratteristiche biologiche più comuni e consuete. Conosciamo molti dei segreti del funzionamento dei nostri sensi, della forza muscolare, della digestione, della circolazione del sangue, ma anche della forza e della persistenza della memoria e stiamo cominciando a capire qualcosa delle diverse componenti dell'intelligenza e della sensibilità. Come ad esempio della sensibilità al dolore. Perché il dolore può avere una varietà di cause esterne e interne, ma la sua percezione è un fatto tutto nostro. «In sé non esiste dolore — dice Nietzsche —. Non è la ferita che fa male». Il dolore nasce nel corpo e non è niente al di fuori di esso, come qualsiasi altro moto della sensibilità o dell'emotività. Ed esistono vie specifiche del dolore per le quali la sensazione dolorosa è costretta a passare. Lungo queste vie la sofferenza può essere attutita oppure essere acuita. Una sensazione dolorosa può essere addirittura creata dal niente, come nel cosiddetto dolore neuropatico, una delle peggiori condizioni cliniche conosciute. Per chi ne è vittima, come per chi soffre di altri tipi di sofferenze atroci, ogni nuova conoscenza sul dolore rappresenta una buona novella e una fonte di speranza. Sarà sempre più spesso così. Sapremo sempre di più sulle condizioni e sulle manifestazioni dei fenomeni quotidiani più diversi, normali e patologici: è cominciata la verde stagione della scienza del quotidiano.
«Corriere della sera» del 23 ottobre 2006

La biblioteca postmoderna cresce e diventa mediateca

di Mario Botta
La biblioteca, oggi, significa due cose. È in primo luogo un'istituzione, in rapporto con la città dove sorge. La biblioteca non è soltanto un tot di metri quadrati che raccoglie un deposito di libri, ma molto di più: ha un valore simbolico e metaforico, è ciò che conserva il sapere. E, quindi, riveste un ruolo di immagine centrale all'interno della città. Un po' come sta succedendo ai musei, queste istituzioni non sono più soltanto spazi di conservazione, ma anche spazi di espressione. Qui si ricreano quella spiritualità, quei contenuti e quei valori che altrimenti non troviamo più nella città contemporanea. Io credo che la biblioteca debba svolgere un ruolo di faro della città, simile a quello che fino a ieri ricoprivano le chiese o i teatri; non può passare inosservata, ma deve trovare una propria collocazione e una propria immagine all'interno del nuovo tessuto urbano.
In secondo luogo, va considerata la funzione specifica della biblioteca, che da deposito del sapere, luogo della memoria che conserva le culture e le testimonianze del passato, si sta trasformando in un nuovo polo di studio e di aggregazione. Gli interessi che promuove non sono più strettamente legati alla conservazione, ma dedicati piuttosto alla diffusione del sapere: ecco quindi i progetti arricchirsi di spazi per incontri, convegni, esposizioni. Uno degli esempi più evidenti di queste tendenze è la nuova biblioteca di Alessandria d'Egitto: per la sua storia, ma anche per quanto di nuovo rappresenta nel tessuto della città, non poteva non porsi anche come elemento simbolico. Così le scelte architettoniche hanno sottolineato, di fronte alle altre istituzioni alessandrine, quella particolare attività che l'attività del sapere.
C'è poi anche un aspetto più propriamente tecnico da tener presente. La biblioteca si sta aggiornando attraverso l'elettronica. Il deposito diventa virtuale e non più cartaceo, e quindi ecco che necessita di una serie di attrezzature, come postazioni di lavoro dotate di computer, e di infrastrutture che nel passato non esistevano - bastava un tavolo per appoggiarvi il libro. Così, le biblioteche di oggi uniscono al sapere del libro i tanti altri modi di diffusione della cultura: l'emeroteca, l'insieme delle pubblicazioni periodiche, e soprattutto i nuovi mezzi audiovisivi capaci di dare informazioni molto più vaste, legate a Internet. Allora, il termine più appropriato per definire le biblioteche di oggi diventa mediateca.
Anche se il nucleo forte e stabile resta quello dei secoli passati: il libro.
«Avvenire» del 22 ottobre 2006

25 ottobre 2006

«Noi del ‘68, miopi come Togliatti»

Crainz, storico ed ex di Lotta continua: sulla Cecoslovacchia noi figli insensibili come i padri del Pci nel ‘56
di Jacopo Iacoboni

I figli spesso fanno gli stessi errori dei padri, con l’aggravante che presumono di criticarli, e si considerano quasi sempre migliori. «Successe anche a noi, la generazione di Lotta Continua», dice Guido Crainz, oggi affermato storico e autore di libri importanti sulla storia oscura d’Italia (su tutti Il Paese mancato), da ragazzo membro del direttivo di Lc. «Anche noi fummo ciechi dinanzi alla repressione sovietica che colpiva i nostri coetanei», lamenta autocritico Crainz, i figli insensibili di fronte all’invasione di Praga proprio come i padri lo erano stati dinanzi alla repressione in Ungheria.
«Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce “l’impossibile”, ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’“impossibile” era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo “nuovo corso”, pur condannando l’invasione sovietica». Il j’accuse di Crainz arriva inaspettato nella prefazione di un libro di Gyorgy Dalos, Ungheria, 1956, appena uscito da Donzelli. E ha una forza dirompente, perché a prima vista parrebbe ardito rivolgere (anche senza nominarli) ai Sofri, Viale, De Luca, Boato, Rostagno - quelli che di lì a un anno fonderanno il più famoso gruppo extraparlamentare della storia italiana - la stessa accusa che si indirizza solitamente a uomini come Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Luigi Longo, o al vecchio Pajetta che ancora nell’88, trentadue anni dopo l’Ungheria, rimproverò Piero Fassino di aver detto parole «troppo chiare» su quel crimine.
Crainz la prende alla lontana: «Per più versi fare i conti con il 1956 sembra diventare simbolo di un continuo fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Costringe a interrogarsi su se stessi». Un interrogarsi tanto più pressante per chi sente di appartenere a quella famiglia che ancora, all’alba del 2006, può definirsi “di sinistra”. «Forse non vale solo per chi ha vissuto direttamente l’ottobre ungherese», osserva lo storico-ex militante. Questo interrogarsi «riguarda anche chi, lontano da quelle speranze e da quei drammi, preferì acquietare la propria coscienza con giudizi deformanti e infondati, o con smemoratezze e rimozioni».
E voilà, la Rimozione. Finora era un luogo comune letterario usato a larghe mani nel vasto filone dell’autocritica di scuola Pci: da Ingrao, che scrive di Budapest come il suo grande errore, l’Errore, al presidente Giorgio Napolitano, che pure nell’86 fu il primo comunista a pronunciare una radicale autocritica pubblica. Ora vien fuori che ci sarebbe stata anche una rimozione operata dal Movimento. I figli uguali ai padri.
Certo Crainz ricorda come il Pci, che pure nel ‘68 espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura rispetto al ‘56, subito dopo arretrò, accettando la normalizzazione voluta da Mosca. Ma fu «molto più grave» l’arretramento dei futuri ragazzi di Lc e Potere operaio: «È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la “generazione del Sessantotto”, la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte». Poi sì, eccezioni ci furono. Leo Huberman denunciò la sordità della “nuova sinistra”, inascoltato, dice Crainz. Il manifesto (illuminato titolo di Rossana Rossanda) scrisse Praga è sola, come lo era stata Budapest. Ma molti se ne fregarono. «Vi fu anche qualche piccola frangia che approvò la repressione, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo». Converrebbe, forse, riparlarne. «Quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia», quasi una coazione a ripetere freudiana, nella storia della sinistra italiana.
«La Stampa» del 25 ottobre 2006

Togliatti il Migliore dei narcotizzatori

Nel suo ultimo libro Enzo Bettiza mette in risalto le responsabilità del leader comunista
di Lino Jannuzzi

Gli autorevoli e paludati pellegrinaggi a Budapest in occasione del cinquantenario della rivoluzione ungherese hanno coinciso con l’arrivo in libreria del libro di Enzo Bettiza 1956 Budapest i giorni della rivoluzione (Mondadori, pagg. 143, euro 16,50) e, nel paragone tra i discorsi pronunciati sulle tombe dei martiri da tanti illustri personaggi e la rivisitazione di Bettiza, già famoso per la sua competenza e partecipazione di «uomo dell’Est», i pellegrini pentiti ne escono male. Bettiza rievoca quei giorni tragici e ne ricostruisce i traumatici effetti sui partiti di sinistra occidentali, soffermandosi in particolare sui risvolti italiani.
«L’Ungheria insanguinata, isolata, ignorata, diventa da quel momento (con la crisi di Suez) “quantità négligeable” della scena internazionale. Nessuno pensa più a soccorrerla, non interessa più a nessuno; ormai è data in preda ai lupi più voraci e vendicativi del Cremlino che si accingono a ingoiarla».
Ma in Italia è peggio, anche perché Bettiza, rovesciando la ricostruzione tradizionale, sostiene che Togliatti non si limitò ad allinearsi all’Urss, ma ebbe un ruolo decisivo nell’imporre il bagno di sangue e fu anche responsabile dell’esecuzione di Nagy: «Ma resterà straordinario l’impatto profilattico che le scomuniche di Togliatti, derivate dalle requisitorie anni trenta di Vyšinskij, avranno sull’apparato del partito comunista italiano, su gruppi consistenti della sinistra italiana, e persino su una parte dell’opinione pubblica moderata... La voce di Togliatti, ascoltata a Mosca, acquisterà un risalto e una forza d’urto che soverchierà tutte le altre in Italia: sarà lui, in quei giorni, il megafono roboante dello spettro di Stalin, il dominatore venerato degli strati popolari comunisti e ammirato da quelli massimalisti del Psi. Milioni di persone, convinte o narcotizzate, consentiranno alle menzogne sull’Ungheria propalate dal capo di un partito italiano coi toni risoluti e sferzanti di un procuratore sovietico».
«Quei “dissidenti”, enfatizzati come grandi eretici dalla stampa del tempo, dopo avere stilato il fragile “manifesto dei 101”, non lasceranno dietro di sé altre testimonianze memorabili. Diversi firmatari del documento, in cui si “deprecava” con toni assai moderati e cauti l’intervento sovietico, appariranno immediatamente pentiti del passo compiuto. Quattordici dei “101”, poche ore dopo faranno marcia indietro spaventati e confusi e scriveranno all’Unità che qualcuno ha carpito la loro buona fede. Altri, come Spriano e Asor Rosa, reciteranno un’ammenda pubblica rientrando disciplinatamente nei ranghi, altri ancora non rinnoveranno la tessera per il 1957 e se ne andranno senza clamore, in punta di piedi, sgusciando dalla porta di servizio... Togliatti, bellarminizzando i suoi accoliti, circuendo i dissidenti deboli, stroncando i più resistenti, teneva sempre il coltello dalla parte del manico e tirava fendenti a destra e a manca. Gli riuscirà di conseguire una vittoria spietata perfino sui due contestatori di maggior profilo politico, Antonio Giolitti e Fabrizio Onofri: obbligherà al suicidio delle dimissioni il primo, farà espellere con accuse infamanti il secondo...».
Bettiza concede a Giolitti e ad Onofri di aver rappresentato nel ’56 l’eccezione alla regola servile. Eppure, scrive, essi «sono emblematici di una generazione di comunisti infelici, i quali, ripudiati da Togliatti, non hanno poi trovato la forza morale e intellettuale per gettare con risolutezza la tonaca alle ortiche... Continuamente, puntigliosamente, in una sorta di ossessivo anelito al riscatto, cercheranno di rispondere al richiamo della giungla perduta con una legittimazione di sinistra all’esterno del Pci...». E le successive tappe politiche di Antonio Giolitti, «spretato sempre roso dal dubbio», risulteranno piuttosto spente e deludenti.
Prima di indignarsi delle miserie degli «intellettuali organici» italiani e della loro «congenita debolezza cortigiana», Bettiza si sofferma a descrivere i due maggiori protagonisti della tragedia ungherese: Imre Nagy, comunista della prima ora, antieroe della rivoluzione, che in una sorta di metamorfosi si schiera dalla parte della nazione martoriata e non cede agli aguzzini filosovietici che cercano di lusingarlo, impaurirlo, ricattarlo, e che alla fine lo processano e lo impiccano (lo impiccano e non lo fucilano, come scriverà molto tardi Ingrao). E János Kádár, «uomo d’apparato e d’intrigo», a suo tempo incarcerato e torturato per «titoismo», figura ambigua che consumerà un enigmatico tradimento consegnando il suo popolo a Mosca.
Bettiza cita spesso il suo amico François Fejtö e cita anche il suo amico Indro Montanelli (ma preferisce di gran lunga il primo): «Nel 1956, al centro del groviglio esistenziale di Montanelli si collocano l’Ungheria e la rivoluzione ungherese. Lassù, sulle barricate di Budapest, sui ponti del Danubio, scossi da un “sordo abburattìo dei cingoli”, il partecipe testimone toscano viene sconvolto come da una folgorazione somigliante a un corto circuito psicoideologico: il conservatore Montanelli, che per i comunisti è un “reazionario” quasi estremo, si scopre all’improvviso libertario, rivoluzionario da terza via, anticomunista e antiborghese insieme, anzi più antiborghese che anticomunista...». Meglio Hispanicus, mitico pseudonimo di un diretto partecipante agli avvenimenti: «Come le rivoluzioni del 1848, secondo la formula di Marx, aprirono la breccia nella crosta della società europea, così la nostra rivoluzione ha aperto la breccia più importante nella crosta del regime comunista sovietico, lasciando scorgere abissi che pochi conoscevano». E meglio ancora Schubart: «Il bolscevismo è l’ultimatum che Dio ha mandato agli uomini». Sono stati gli ungheresi, conclude Bettiza, a rispondere col loro sangue al tremendo ultimatum divino.
«Il Giornale» del 25 ottobre 2006

24 ottobre 2006

Adolescenti: tutti i vantaggi del cellulare

Il telefonino garantisce tranquillità ai genitori, che tengono meglio sotto controllo i figli. Ma i «benefici» non si fermano qui
di Emanuela Di Pasqua
Rapporto del Trust for Study of Adolescence
GRAN BRETAGNA – Meglio con che senza: questo è il parere dei genitori intervistati dalla società di ricerche britanniche Trust for Study of Adolescence sull’uso del telefonino da parte dei giovani. L’indagine – condotta su 60 famiglie appartenenti a ogni strato sociale ed economico – ha evidenziato che la maggior parte dei genitori è sostanzialmente concorde nel valutare positivamente l’impatto del telefonino sulla quotidianità dei propri figli e soprattutto sulle proprie ansie. La maggior parte dei padri e delle madri lo regala ai figli per poter essere sempre al corrente dei loro spostamenti e per poterli rintracciare. Farà anche male alla salute (dicono ogni tanto e ogni tanto smentiscono), causerà una leggera dipendenza emotiva, darà ai ragazzini odierni un’espressione talvolta lobotomizzata, ma è fonte di tranquillità per le famiglie e il rischio di bullismo telefonico, truffe via cellulare o minacce simili passa in secondo piano rispetto alla gioia della reperibilità.
TUTTI GLI USI – E se i grandi preferiscono sentire la voce dell’amato figlio, quest’ultimo dimostra invece di prediligere decisamente la rassicurazione via Sms. A questo proposito le femmine sono maggiormente controllate rispetto ai coetanei e, di conseguenza, tendono a messaggiare più spesso i propri spostamenti. I teenager utilizzano i messaggini per mettersi d’accordo, per intrecciare relazioni e – non ultimo – per contrattare con mamma e papà l’orario di rientro. In generale il telefono mobile regala ai giovani maggior sicurezza e un senso di indipendenza fondamentale e inseguito alla loro età.
NON SOLO FAMIGLIA – I genitori non sono i soli ad aver intuito i pregi del cellulare. Anche i politici hanno infatti capito il ruolo chiave che il piccolo dispositivo riveste nella vita degli adolescenti, e cercano quindi di raggiungere questi futuri elettori proprio via mobile, sfruttando a pieno le peculiarità comunicative del telefonino e il linguaggio sciolto che lo caratterizza. Si pensi all’iniziativa «Text Tony», vale a dire l’invito dell’amministrazione britannica a parlare con Tony Blair via Sms, ponendo domande e sollevando questioni. Altro progetto è il Citizen Calling project (www.citizencalling.com), attraverso il quale i giovani cittadini possono mettersi in contatto con il Parlamento britannico per mandare messaggi o video dai propri cellulari.
INCONVENIENTI HI-TECH – Gli esperti della Trust for Study of Adolescence trascurano però la possibilità che il telefonino si spenga o non prenda o, semplicemente, che il giovane non ne senta lo squillo (magari è in discoteca). Tanto è rassicurante sentire telefonicamente il proprio bambino, quanto è ansiogeno sentire la voce metallica «l’utente chiamato non è raggiungibile» o assistere allo squillo a vuoto. Ma questo fa parte degli inconvenienti, peraltro molto frequenti, in cui capita di imbattersi quando ci si affida alla tecnologia, o quando si ha a che fare con giovani che non vogliono essere rintracciati...
«Corriere della sera» del 23 ottobre 2006

Il computer e il declino del corsivo: "I ragazzi non sanno più scrivere..."

I risultati di un'indagine americana su un milione e mezzo di studenti. Il caso Inghilterra: sotto accusa l'uso della tastiera e la scuola che permette l'uso dello stampatello
di Enrico Franceschini

Scrivere attaccando una lettera all'altra, nello stile chiamato "corsivo", è stato per secoli parte dell'istruzione scolastica di ogni paese in cui si usa l'alfabeto latino. Ma oggi il corsivo è in spaventoso declino ed entro pochi anni potrebbe essere addirittura scomparso dai banchi di scuola: con conseguenze nefaste, secondo alcuni educatori, per la capacità di apprendimento, di studio e di sviluppo delle future generazioni.
La colpa principale è del computer, sulla cui tastiera si tende a scrivere tutto, compresi molti compiti in classe e compiti da fare a casa. L'altro responsabile è una scuola che non esige più l'uso del corsivo, permettendo agli alunni, fin dalle scuole elementari, di scrivere in stampatello - quando scrivono a mano anziché sul computer.
A descrivere questa situazione è una ricerca svolta negli Stati Uniti, riportata quotidiano britannico 'Sunday Telegraph', che la conferma con dati raccolti nel Regno Unito. Lo studio americano ha analizzato la scrittura di un milione e mezzo di studenti di 16-17 anni attraverso temi, test e altri esami scolastici: soltanto il 15 per cento sono scritti in corsivo. Commentando i risultati, Suzanne Tiburtius, portavoce della 'National Handwriting Association' in Gran Bretagna, afferma che anche in questo paese soltanto una esigua minoranza di studenti scrive ancora attaccando una lettera all'altra.
"Sfortunatamente", dice Tiburtius al 'Telegraph', "alcuni insegnanti sostengono che il corsivo non è più necessario perché fra non molto tutti scriveranno di tutto al computer. Il risultato è che molti bambini, quando sono costretti a prendere in mano una penna, sanno scrivere soltanto in stampatello e continuano a scrivere così quando vanno all'università e poi per tutta la vita".
Non ci sarebbe niente di male, se il computer potesse davvero sostituire sempre e comunque la scrittura manuale. Ma almeno per il momento, non è così. Quando bisogna prendere appunti in classe o in un'aula universitaria, sottolineano gli esperti, o successivamente in circostanze simili nel mondo del lavoro, c'è assoluto bisogno di una scrittura "veloce" e questa in stampatello non è possibile. "Il corsivo è diventato la Cenerentola dell'alfabetizzazione", concorda Rhona Stainthorp, docente di letteratura alla 'University College' di Londra.
"Scrivere dovrebbe essere insegnato in modo che diventi un automatismo, una cosa che si fa naturalmente e rapidamente. Se un ragazzo scrive lentamente, come per forza succede quando si scrive in stampatello, questo può ridurre la sua capacità di studiare e di prendere buoni voti, perché non fa in tempo a trascrivere tutte le informazioni che riceve".
Il governo britannico ammette che solo il 59 per cento dei ragazzi e il 75 per cento delle ragazze di undici anni hanno una calligrafia al livello previsto per la loro età. E questo livello pretende solo che la loro calligrafia sia chiara e comprensibile, non che le lettere siano attaccate una all'altra. Corsivo addio, allora? Forse non subito, forse non ovunque, ma la tendenza pare quella. In inglese, questo stile di scrittura si diffuse nel 1776, negli Stati Uniti, con la firma della Dichiarazione d'Indipendenza Americana. Quel documento fu apparentemente il primo scritto dall'inizio alla fine in corsivo. In un giorno non troppo lontano, nascerà una generazione di scolari americani che non saranno più in grado di leggerlo, tantomeno di ricopiarlo a mano.
«La Repubblica» del 23 ottobre 2006

Indulto insulto

di Massimo Gramellini
Qualcuno dovrebbe spiegarmi la logica dell'indulto. Hanno messo fuori dalle patrie galere oltre ventimila persone, molte delle quali perdute. Spiegazione prevalente: le carceri scoppiano. Anche gli ospedali, ma non per questo si buttano i malati in pigiama per la strada (non tutti insieme, almeno). La domanda giusta era un'altra: saremo in grado di reggere l'onda d'urto di un simile esercito di disperati? Ma in Italia preoccuparsi delle conseguenze di una decisione è considerato un gesto di ostilità ai limiti dell'ostruzionismo. Tutti liberi, allora: senza un piano di reinserimento per gli ex galeotti, né uno di protezione per i cittadini. Forse i nostri governanti pensavano che una volta in libertà i tossici avrebbero cominciato a farsi di cioccolato fondente. Sorpresa, succubi della droga erano e succubi sono rimasti. Ma non avendo un lavoro, per procacciarsi la roba si sono rimessi a rubare. Effettivamente ci voleva un genio per prevederlo.
Così l'esercito dei miracolati si è riversato nelle città, dove sono subito aumentati gli scippi, i furti, le rapine e le aggressioni. Un caso di violenza, due omicidi. E per poliziotti e carabinieri è ricominciata la fatica di Sisifo: rimandare in galera chi ci stava. Ne sono già stati riacciuffati quasi mille. Fra qualche mese saranno di nuovo tutti dentro, in attesa del prossimo indulto. Se questo era stato creato per alleviare la pena a Previti o a qualche altra eccellenza, meglio sarebbe che in futuro i politici fossero meno timidi e avessero il coraggio di votarsi una legge valida solo per se stessi. La figuraccia sarebbe identica, ma i danni più contenuti.
«La Stampa» del 24 ottobre 2006

22 ottobre 2006

Per i viaggi dell’800 Dante diventa Virgilio

di Ezio Savino

Certi poeti confessano una vita segnata dai fiumi. Nomadi, naufraghi, esuli, trovano nella geografia dell’acqua corrente una consonanza con il loro stesso vagare. Il Nilo, la Senna, l’Isonzo formano il liquido reticolo dei ricordi per Giuseppe Ungaretti. Il cieco Omero discorse con esattezza di Xanto e di Scamandro, i fiumi di Ilio, al punto che un moderno cacciatore di tesori, Schliemann, fiducioso nel navigatore satellitare degli esametri, disseppellì i ruderi della città di Priamo.
Dante è un maestro in materia fluviale. Se il suo Acheronte, con la malvagia e trista riviera, con l’onda pigra e bruna, paga dazio agli ispiratori classici, Orazio e Virgilio, sorgenti, cascate, orridi, anse e sbocchi di tanti altri corsi d’acqua bucano la pagina con la potenza del vissuto, la nettezza dell’autopsia, l’occhio d’aquila del viaggiatore per costrizione, che scruta e registra i dettagli, pronto a incastonarli nelle terzine con lo scrupolo della guida topografica che fatalmente matura nell’assoluto della poesia. Talvolta, quel particolare fiume gli appare perfetto per chiarire il discorso con una similitudine infallibile.
Chi non ha fatto l’esperienza di un fragore torrenziale che impedisce di percepire le parole del vicino? Così l’acqua sporca del Flegetonte, piombando nel burrato di Malebolge, assorda i due viandanti dell’aldilà. Per stampare nell’immaginazione il doloroso effetto, Dante ci solleva dalla bruma infera all’aria pura del Monviso, scaturigine del Po. Guardando a levante, da lì si scorge l’Acquacheta, un torrente che dal macigno appenninico di San Benedetto dell’Alpe, senza imitare i confratelli che si gettano nel gran corso padano, serpeggia all’Adriatico lambendo Forlì, non senza cambiare il suo nome, ora di fiume, in Montone, prima però formando la cascata dei Romiti, con un rombo spiegato dal fatto che la portata vi irrompe intera, non dispersa in rivoli. La descrizione dantesca ha corpo: stiamo ascoltando il pellegrino, che ha salito le alture, ha volto il lento sguardo intorno, confrontando l’orizzonte con la mappa, su cui forse il dito, scorrendo, ripercorreva il disegno dei profili alpestri, dei campanili merlati, dell’arabesco dei fiumi, mentre le labbra ne mormoravano i nomi.
In altri punti, le correnti fluviali si impregnano di emozioni più aggrovigliate. Nell’ultima bolgia, affacciata sul pozzo dei Giganti, si martirizzano i falsari. Maestro Adamo è tra loro. Il corpo è deformato in mostruoso liuto. La ventraia, ingigantita dall’idropisia metafisica, inchioda al suolo il dannato, i piedi scomparsi sotto la massa. Così il contraltare della giustizia divina sconcia chi volle, per avidità di denaro, dare forma fasulla di fiorino al metallo ignobile. L’idropico è un assetato cronico. Con diabolica raffinatezza, la pena è acuita dal ricordo di aver avuto intorno, nella vita terrena, chiare e dolci acque. Come i ruscelletti che dai verdi colli del Casentino (il Clusentinum latino, la «valle chiusa», la conchiglia di monti culminante nella Falterona) scendono in Arno, in canali «freddi e molli». Questo losco artista del conio fu al servizio dei conti Guidi, feudatari decaduti della Romena, maniero di cui ancora oggi nereggiano le rovine, nell’alta vallata, paradiso di faggeti e conifere, che da Firenze porta ad Arezzo, con i gioielli delle pievi e delle abbazie, Vallombrosa, Camaldoli e il crudo sasso della Verna, sanguinosa gloria delle stimmate francescane. E il passo della Consuma è ancora lì, a ricordare il rogo che castigò il riccone falsario, che nell’arsura darebbe tutto per una goccia di quei suoi nostalgici ruscelli.
Dante percorse in lungo e in largo il Casentino. Certo si dissetò a quelle acque. Ne sentiamo la delicata frescura nelle sue parole. La vollero assaporare i viaggiatori inglesi dell’Ottocento, che s’inerpicavano per le precarie barocciabili casentinesi, con in una mano una copia della Divina Commedia (tradotta dall’irlandese Willliam Hayley nel 1802 e sponsorizzata da Thomas Carlyle, che proclamò Dante fratello dell’umanità e lo santificò insieme al secondo eroe della poesia universale, Shakespeare), e nell’altra il Paradiso perduto del loro vate Milton, che paragonò le legioni degli angeli al fogliame delle oscurità etrusche, coronanti le solitudini di Vallombrosa in solenni archi frondosi.
E questo ci porta al bel saggio di Raffaella Cavalieri, Il viaggio dantesco (Robin Edizioni, pagg. 173, euro 10). Il dantesco del titolo va inteso in tre sensi. Il primo riassume la fisionomia del vagabondo politico, che assaggiò il sale del pane altrui su strade e sentieri d’Italia. Il secondo allude alle sue memorie di pedone nel crogiolo della poesia: non solo fiumi, ma scorci di città, isole, pinete, pianure, che contrappuntano come luminose cartoline i paesaggi oltremondani. Il terzo, vero scopo del libro, è riferire quel modo tutto ottocentesco di leggere il poeta, ripercorrendone gli itinerari con la guida dei versi, in un’Italia che agli stranieri golosi di cultura (il francese Ampère: Viaggio dantesco; il tedesco Bassermann: Dantes Spuren in Italien; le britanniche Ella e Nora Noyes: Il Casentino e la sua storia) appariva nel fascino incontaminato di un medioevo vivente. Per loro Dante è il cicerone, e le terre d’Italia il più sincero commento al poema. Che non si comprende a fondo se non ponendo l’orma su quella del cantore.
Nel nostro tempo, in cui la critica letteraria affila i suoi bisturi sul testo, con alchimie di strutturalismi, formalismi, analisi stilistiche, concordanze stivate in banche dati elettroniche, questo generoso e appassionato ritorno all’umanità del poeta allarga il cuore. Scarpiniamo in cima alla Falterona, sul tratturo dantesco, lasciamo vagare l’occhio sulle cento e più miglia dell’Arno, principe e demone dei suoi fiumi, e solo così risentiremo intere le note amare dell’invettiva, della topografia satirica del poeta infernale.
«Il Giornale» del 22 ottobre 2006

Adolescenti, la famiglia esce di scena: "I miei problemi? Ne parlo solo online"

Pubblicata l'inchiesta condotta dall'Osservatorio sui Diritti dei Minori di TorinoIl 72% degli intervistati preferisce risolvere i propri dubbi sul web
L'Osservatorio sui Diritti dei Minori ha interrogato 400 adolescenti
Una volta le ragazze si confidavano con la mamma se avevano problemi di dieta. Adesso non più: ora chiedono ad internet cosa mangiare per evitare la cellulite. E lo fanno anche i maschietti. Non per informarsi sulle calorie: quella resta una preoccupazione tutta femminile. Gli adolescenti vogliono sapere come evitare una gravidanza o più semplicemente avere conferme sulla propria mascolinità.
La rete sembra aver sostituito genitori e scuola: internet è diventato l'abbecedario della generazione futura. L'Osservatorio sui Diritti dei Minori di Torino ha domandato a 400 adolescenti, tra i 14 e i 18 anni, a chi si rivolgono quando hanno un dubbio che li assilla. "Ad internet" hanno risposto nel 72% dei casi. Propongono soprattutto quesiti alimentari i ragazzi d'oggi (il 31%), o domande sulla sfera sessuale (il 26%). Un quinto dei giovani che usa il web vuole conoscere gli effetti astrologici sulla propria vita mentre addirittura il 14% avanza quesiti psicologici.
"Con tutti i rischi che ne conseguono". Antonio Marziale presidente del Comitato scientifico che ha condotto l'indagine è preoccupato: "Le ripercussioni possono essere serie. Le masse adolescenziali non hanno gli strumenti per una corretta 'decodifica' delle risposte che leggono su internet con il rischio di interpretazioni dannose sul piano psicofisico".
Un tempo neppure si facevano certe domande ai genitori: il sesso è rimasto tabù per molte generazioni. Solo con i compagni di gioco si aveva la faccia di affrontare certi discorsi e spesso le risposte erano più confuse delle domande. Adesso c'è internet ma il disordine culturale che regna nella rete rischia di fare nuove vittime: "Per questo urge una legislazione internazionale che tuteli i fruitori, soprattutto in età evolutiva", reclama l'Osservatorio sui diritti dei Minori.
«La Repubblica» del 12 ottobre 2006

21 ottobre 2006

Parole e numeri: un confronto fra due infiniti

I «Racconti matematici» sul rapporto fra letteratura e aritmetica
di Annalisa Gimmi

Sarà una costruzione tridimensionale, la fortezza d’If in cui Edmond Dantès è rinchiuso da anni e da cui l’Abate Faria ha già cercato innumerevoli volte di fuggire, sbucando invece dai suoi cunicoli in celle sempre più interne, sempre più lontane dalla tanto agognata libertà? O non sarà piuttosto un universo con dimensioni infinite, prigione non solo in muratura, e inviolabile in quanto al di fuori di ogni logica umana? È questo che si chiede lo stesso Dantès nella sua cella ascoltando i rumori che provengono dall’esterno, che gli riesce sempre più difficile localizzare nello spazio. Si tratta del racconto Il conte di Montecristo di Italo Calvino, ripubblicato di recente da Einaudi in un volume di Racconti matematici, dedicati alla difficile relazione tra letteratura e scienza dei numeri.
Tradizionalmente si pensa che il rapporto tra letteratura e matematica sia difficile, talora impossibile. L’arte dello scrivere, con i suoi slanci di fantasia, e la scienza dei numeri, invece così precisa e fredda nella sua astrattezza, sembrano del tutto inconciliabili. Ma questa facile affermazione può essere agilmente contraddetta. In effetti, la matematica ha da sempre esercitato un grandissimo fascino sulle altre discipline della mente umana. Anzi, si può dire che sia l’impalcatura su cui è costruita l’intera esistenza, e quindi nessun ambito del pensiero e della vita può prescinderne. Si pensi alla coincidenza tra matematica e ritmo, e a come la musica, arte evanescente per eccellenza, si basi proprio su rigide scansioni frazionali; o ancora come le regole della prospettiva e dei rapporti di misura in pittura sia fondamentale per un’opera d'arte. E ancora l’architettura, il metro poetico, il pulsare della danza, addirittura (come ricorda Musil) la strategia militare, e... la filosofia. Certo. Anche la filosofia. E non solo perché all’origine del pensiero matematico ci sono studiosi a cui sono ugualmente debitrici le due discipline, ma perché concetti come lo zero (il nulla, il vuoto), ma soprattutto l’infinito, scivolano ampiamente nella filosofia. Il «tendere di una curva all’infinito», che porta a una approssimazione sempre più vicina allo zero altri rapporti (senza peraltro mai annullarli del tutto); oppure l’idea dell’infinito numero di punti individuabili su una retta o di rette su un piano; o ancora lo stesso concetto di infinità dei numeri: si tratta di rappresentazioni mentali che sfuggono alla sfera della nostra esperienza, e sono quindi comprensibili solo per «illuminazioni» della mente, molto simili ai ragionamenti filosofici.
E la letteratura, o - per essere più precisi - la narrativa? Da un punto di vista «strutturale» si può dire (come suggerisce Claudio Bartocci, il curatore della raccolta) che uno scrittore crea «mondi possibili», proprio come il matematico colloca in uno spazio astratto («possibile») i propri elementi. Poi è innegabile che la letteratura ha mutuato dalla matematica vari termini della narratologia (ad esempio proprio la «struttura» di un racconto), ma anche della retorica (si pensi all’iperbole, simile nella realizzazione alle arditezze della curva algebrica), senza poi trascurare il fatto che tutte le costruzioni della matematica si basano su degli elementi fondamentali, i numeri, così come la letteratura si basa sulle infinite combinazioni delle parole e delle lettere.
Ma quello che viene considerato nella raccolta in questione è soprattutto la scelta di temi matematici come oggetto di narrazione. Questo non è semplice. E soprattutto è prerogativa di generi letterari ben definiti. La fantascienza, innanzitutto, e anche il racconto dell’assurdo, oppure è oggetto dell’interesse di alcuni gruppi di scrittori sperimentali che tentano nuove vie, come il gruppo dell’OULIPO a cui aderì lo stesso Calvino. Borges e Asimov, Brown e Buzzati, Musil e Queneau. Ventiquattro autori per una trentina di racconti svolti sul filo della logica matematica più spinta. Oppure, racconti che vedono come protagonisti geni della matematica. Il fascino di un Pitagora, di un Archimede o, molto più vicini a noi, di un von Neumann o di un Turing ne hanno fatto personaggi letterari, che dopo aver vissuto nel «mondo possibile» dei loro pensieri, ora rivivono nel «mondo possibile» della fantasia di uno scrittore.
«Il Giornale» del 17 ottobre 2006

Lo Stato liberale cerca un'etica

Il giurista tedesco, spesso citato da Benedetto XVI, tocca la grande questione delle basi su cui si reggono le istituzioni politiche dell’Occidente nell’epoca della secolarizzazione
Di Ernst-Wolfgang Böckenförde
«Le istituzioni politiche moderne vivono di presupposti che non possono garantire». La separazione fra sfera religiosa e sfera pubblica trova nella razionalità il trait-d'union per la convivenza fra laici e credenti

Vien da chiedersi quale sia il significato effettivo del processo di secolarizzazione fin qui realizzato. Questa evoluzione verso lo Stato ha implicato l'eliminazione dell'efficacia pubblica del cristianesimo e della sua capacità di dar forma al mondo? Lo Stato deve quindi essere considerato una forma di ordinamento politico specificamente non cristiana o a-cristiana? O bisogna dire invece che nella genesi dello Stato si è realizzato un principio di ordinamento politico-sociale che nella sostanza corrisponde al contenuto della Rivelazione cristiana, ma che doveva necessariamente affermarsi contro le potenze istituzionalizzate del cristianesimo?
Porsi questa domanda equivale a chiedersi fino a che punto la desacralizzazione dell'ordinamento politico, cioè la «desecolarizzazione dell'ambito spirituale» e la «despiritualizzazione dell'ambito secolare» che si realizzò all'interno della nascita dello Stato e assieme a essa, comporti anche una decristianizzazione.
È assai dubbio che si possa rispondere a questa domanda in un modo o nell'altro. Perché la risposta dipende essenzialmente dall'interpretazione teologica e di filosofia della storia che vien data del processo della secolarizzazione. La fede cristiana, nella sua struttura interna, è una religione come le altre, per cui la giusta forma in cui può presentarsi è quella del culto pubblico (della polis), oppure essa trascende le religioni precedenti, in quanto la sua efficacia e la sua realizzazione stanno proprio nell'abbattere le forme sacrali della religione e il dominio pubblico del culto, e nel condurre gli uomini verso un ordinamento razionale, "temporale" del mondo, cioè alla consapevolezza della propria libertà? Nientemeno che Hegel ha interpretato positivamente, da un punto di vista cristiano, il movimento della secolarizzazione proprio dell'età moderna europea, considerandolo non come negazione ma come realizzazione del contenuto della Rivelazione, la quale sarebbe venuta al mondo con Gesù Cristo. E Karl Marx ha fatto notare, criticamente dal suo punto di vista, che l'emancipazione dello Stato dalla religione non elimina né mira a eliminare l'effettiva religiosità dell'uomo. La fede cristiana è in grado di agire nello Stato "secolare" come professione di fede personale del singolo e come forza sociale (e come tale anche politica) mediata dalla convinzione religiosa dei cittadini; proprio in questo Stato, anzi, alla religione è permesso di avere questa efficacia: la libertà religiosa è libertà confessionale dei cittadini non solo in senso "negativo", ma anche in senso "positivo". Alla religione è impedito, invece, di esistere in forma istituzionale-ufficiale e quindi di partecipare all'universale dello Stato. Si può affermare allora che già solo per questo la fede cristiana è condannata alla perdita della sua efficacia nel mondo e di una possibile sua incidenza nella storia? Una domanda, questa, per nulla retorica.
Ma ancora più attuale è un'altra domanda. Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e che gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalla religione non è e non può più essere essenziale per lui? Fino al XIX secolo, in un mondo interpretato dapprima in modo sacrale, quindi in modo religioso, la religione era sempre stata la forza vincolante più profonda per l'ordinamento politico e per la vita dello Stato. Ma è possibile fondare e conservare l'eticità in maniera del tutto terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"?
Tutte queste domande ci riportano a una domanda più profonda, di principio: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda tale libertà?
Il processo della secolarizzazione fu anche un grande processo di emancipazione dell'ordine temporale dalle autorità e dai vincoli religiosi imposti dalla tradizione. Esso trovò il proprio compimento nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che affidò il singolo a se stesso e alla sua libertà. Ma con ciò si poneva necessariamente, dal punto di vista dei principi, il problema di una nuova integrazione: perché lo Stato non cadesse nella disgregazione interna, occorreva che i singoli emancipati trovassero una nuova comunanza, una nuova omogeneità. In un primo momento questo problema restò nell'ombra, in quanto nel XIX secolo una nuova forza unificante prese il posto della vecchia: l'idea di nazione. All'interno di tale nuova unità si continuò a vivere sulla base della tradizione della morale cristiana. Questa omogeneità nazionale cercò e trovò la sua espressione nello Stato nazionale. Dopo il 1945 si cercò, soprattutto in Germania, di trovare un nuovo fondamento di omogeneità nella comunanza delle convinzioni di valore esistenti. Ma questo ricorso ai "valori", se lo si interroga rispetto ai suoi contenuti comunicabili, è un surrogato del tutto insufficiente, e anche pericoloso; esso apre la strada al soggettivismo e al positivismo delle valutazioni quotidiane, le quali, pretendendo ciascuna di avere validità oggettiva, distruggono la libertà invece di fondarla.
La domanda circa le forze vincolanti si ripropone quindi di nuovo, e ora nel suo vero nucleo: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà. Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall'interno, cioè a partire dalla sostanza morale del singolo e dall'omogeneità della società. D'altra parte, però, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne, cioè coi mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade - su un piano secolarizzato - in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali.
Ci sarebbe da chiedersi ancora una volta - con Hegel - se anche per lo Stato mondano secolarizzato, in ultima analisi, non sia necessario vivere degli impulsi e delle forze vincolanti che la fede religiosa trasmette ai suoi cittadini. Certo non nel senso che lo si riconfiguri di nuovo come Stato "cristiano", ma invece nel senso che i cristiani comprendano questo Stato, nella sua laicità, non più come qualcosa di estraneo e nemico della loro fede, bensì come l'opportunità della libertà, che è anche loro compito preservare e realizzare.
« Avvenire» del 18 ottobre 2006

20 ottobre 2006

Chiacchiere in libertà

di Massimo Gramellini
Monsieur Voltaire, ricordi quella volta al bar, doveva essere il 1754, in cui cercavo di convincerti che il Toro era più forte della Juve? Tu rispondesti sereno: «Non condivido niente di quello che dici, ma sarei disposto a dare la vita per difendere il tuo diritto di continuare a dirlo». Ultimamente la situazione si è parecchio incattivita, e mica solo negli stadi. In Austria hanno messo in galera uno storico, Irving, che nega l’Olocausto. La sua è un’opinione sbagliata, oltre che orribile. Ma è un’opinione, non un proiettile, e resta da dimostrare che le opinioni messe in galera generino col tempo meno proiettili di quelle lasciate a piede libero. In Turchia hanno reso la vita impossibile a uno scrittore, Pamuk, che sostiene l’esistenza del genocidio armeno. Per reazione, nella tua Francia della liberté chi non condivide il pensiero di Pamuk commette reato. Questa soluzione legislativa non dispiace a Giorgio Bocca, il quale propone di estenderla all’Italia per trascinare in tribunale chi, come Pansa, osa contestare l’immacolata concezione della Resistenza.
Ora, non so come la pensi tu, ma posso immaginarlo. La Resistenza aveva ragione e i repubblichini torto. Non foss’altro perché, se avessero vinto loro, oggi l’Italia sarebbe un’appendice turistica del Terzo Reich e, per dirla col grande John Belushi, «io odio i nazisti dell’Illinois», figuriamoci gli originali. Questo però non toglie che in ogni guerra civile si consumino abusi e vendette atroci. Persino il miglior antibiotico presenta degli effetti collaterali, e sviscerare anche quelli non significa sminuire il valore provvidenziale della medicina, ma aiutare il corpo a fortificarsi, affinché non si ammali di nuovo. Io almeno la penso così, ma sarei disposto a dare la vita per difendere Bocca e il suo diritto di sostenere che ho scritto una scemenza.
«La Stampa» del 19 ottobre 2006

17 ottobre 2006

Guerrieri della libertà

Parla il grande reporter Ryszard Kapuscinski, ieri ospite a Bolzano: «Vigiliamo: l'informazione rischia sempre manipolazioni»
di Cornelia Dell'Eva
«Senza censure cogliere i pericoli è più difficile, così il giornalismo deve lottare per la sua indipendenza. Come? Fermando per un attimo la corsa alla velocità e ricordandosi che può decidere»

«My name is Riccardo»: così si è presentato Ryszard Kapuscinski appena sceso dall'aereo a Bolzano, con la semplicità di chi è abituato a fare del viaggio un'occasione d'incontro. A 74 anni Kapuscinski, giornalista e scrittore, si trova nel capoluogo altoatesino per presentare la mostra «L'Africa di Kapuscinski», che raccoglie presso l'Archivio storico del comune le sue fotografie dal Continente nero, e in risposta all'invito del Centro per la pace e della Libera università di Bolzano. È incuriosito da una provincia di confine, in cui tre gruppi linguistici convivono, si mescolano, si incontrano e talvolta si scontrano.
«Il mondo è un posto di confine. Le nostre esperienze particolari diventano quelle del mondo, perché ormai ovunque si mescolano persone provenienti da luoghi e culture diverse».
Intervistare Ryszard Kapuscinski è impresa ardua: «Non mi piacciono le interviste. In realtà io non ne ho mai fatte: da giornalista mi limitavo a vivere con la gente, a stare con le persone aspettando che cominciassero a raccontare». Il giornalismo di Kapuscinski è una specie in via di estinzione. Lui stesso definisce i suoi pezzi dei «reportage letterari», possibili perché i tempi del mestiere erano diversi. Kapuscinski ha cominciato a viaggiare negli anni Cinquanta, il suo desiderio era varcare la frontiera. Pensava di uscire dalla Polonia per vedere la Cecoslovacchia, e invece è stato catapultato in India, poi in Cina, poi in Africa, il continente che più lo ha appassionato. Viaggi improvvisi e improvvisati che gli hanno fatto sentire la vastità del mondo. «Ora il mondo sembra più piccolo», dice.
È ancora possibile il giornalismo come lo ha vissuto lei?
«Ormai tutto è cambiato: la rivoluzione elettronica ha avuto conseguenze irreversibili: innanzitutto il giornalismo è diventato una professione di massa, mentre una volta era un mestiere quasi da aristocratici, i giornalisti erano pochi. Se cerchiamo tra le personalità storiche e politiche del secolo scorso troveremo mo lti giornalisti. Oggi, la lista dei giornalisti accreditati presso una qualsiasi ambasciata è lunghissima, e non fa distinzione tra il giornalista, il fotografo, il cameraman. Una volta il giornalista sentiva di avere una vera e propria missione umana da compiere. Oggi mi pare che non sia così».
Le tecnologie della comunicazione puntano a rendere sempre più rapida l'informazione. È un vantaggio o uno svantaggio?
«C'è una corsa continua, ma il giornalista non dovrebbe dimenticarsi che può decidere: deve prendersi il tempo di rallentare e di approfondire. La velocità apre nuove possibilità, ma non deve diventare una costrizione. Poter viaggiare o ricevere informazioni velocemente significa potersi conoscere a vicenda, e questo è un orizzonte nuovo per l'umanità. Il futuro va in questa direzione: una sempre maggiore vicinanza, che richiede una sempre maggiore tolleranza e capacità di capirsi vicendevolmente, tutti diversi come siamo».
Il giornalista può decidere... Si può quindi parlare di informazione libera, oggi?
«Oggi è difficile pesare la libertà dell'informazione, era più facile ai tempi della censura. Ora che non c'è più la censura la libertà dell'informazione è limitata dalla manipolazione, ovvero dal tentativo dei potenti di controllare a chi e in che modo arriva l'informazione. Il fine ultimo è evidentemente la salvaguardia del potere. In questo conteso il giornalismo ha un compito importantissimo: deve essere una continua lotta contro chi vuole manipolare l'informazione, una continua lotta per l'indipendenza dell'informazione. E questa lotta, talvolta, è più stancante della professione stessa. Noi giornalisti dobbiamo tuttora essere guerrieri per la libertà di stampa».
Lei ha viaggiato molto, anche in periodi in cui non erano in molti a farlo. Ora si viaggia di più, ma il significato del viaggio è cambiato?
«Una cosa è viaggiare, altra cosa è esplorare. È possibile muoversi verso Paesi lontani senza interessarsi minimamente al contesto in cui si va a stare, oppure toccare velocemente molti luoghi, annusarli e passare oltre. Quello che mi piace quando vado in posti nuovi è esplorarli, andare alla ricerca delle particolarità che li rendono unici, delle similitudini con luoghi già noti. Mi piace parlare con le persone, perché spesso quello che raccontano è molto più reale di quello che posso vedere guardandomi in giro».
Però si ha l'impressione che non ci sia più nulla di inesplorato…
«Ma non è vero, perché il mondo cambia incessantemente. Sono stato in Africa per la prima volta più di quarant'anni fa, e ci sono tornato recentemente. Ho visitato le città in cui ho vissuto ma le ho trovate irriconoscibili. Certo Venezia e Amsterdam restano sempre uguali, in Europa le cose sono diverse. Ma se ci si spinge in altri continenti è evidente che tutto è in continuo movimento. Il nostro obiettivo, di noi giornalisti, è proprio osservare il cambiamento e descriverlo, perché quello che scriviamo oggi diventa la storia di domani. Il cambiamento dovrebbe essere il tema della vita per il giornalista».
«Avvenire» del 17 ottobre 2006

Leopardi l’anti moderno


L’Epistolario appena pubblicato nei Meridiani ripropone i temi di un classico del pensiero
Di Mario Andrea Rigoni
Le lettere che rovesciano l’immagine del poeta

Come il genio poetico e filologico di Leopardi fu intuito dai contemporanei fin da quando egli era ancora adolescente, così perfino l’importanza e la bellezza delle sue lettere, tali da meritare di essere raccolte e pubblicate, fu percepita non solo quando era ancora in vita, ma addirittura quando aveva poco più di vent’anni, come testimonia questa dichiarazione dell’editore Pietro Brighenti, che risale al 1 giugno 1820: «Ella non solo è poeta in tutta la grandezza del termine, ma è scrittore di Lettere tali, che io non crederei che l’Italia potesse presentare altri che la vince in questo genere ( ). Io vorrei dunque supplicarla di regalarne un tomo almeno all’Italia». Il voto del Brighenti non si compì se non dopo la morte del poeta, allorché nel 1849 Prospero Viani poté allestire una prima consistente raccolta. Ma fondamentale, nella storia dell’epistolario leopardiano, che si estende dal 1810 al 1837 e include 939 missive del poeta, fu l’edizione in sette volumi (Le Monnier, 1934-1941), curata da Francesco Moroncini, il più grande e benemerito editore di testi leopardiani: essa comprende le lettere dei corrispondenti ed è fornita di un ricco e insostituibile commento (l’ultimo volume, curato da Giovanni Ferretti, contiene anche un prezioso indice analitico generale di Aldo Duro). All’edizione Moroncini hanno dovuto rifarsi, con le opportune correzioni e integrazioni, sia quella del Flora (Mondadori, 1949), sia quella di Franco Brioschi e Patrizia Landi (Bollati Boringhieri,1998), sia infine quella appena uscita di Rolando Damiani che completa la serie delle opere leopardiane presenti nei «Meridiani», offre un ampio, aggiornato e spigliato commento ma omette inspiegabilmente, a differenza delle edizioni Moroncini e Brioschi-Landi, le lettere dei corrispondenti di Leopardi, necessarie sia per il chiarimento di temi e di situazioni obiettive sia per il rilievo che assumono certe figure (si pensi soltanto allo scambio epistolare con Giovan Pietro Vieusseux, il fondatore e direttore dell’«Antologia» fiorentina o con Vincenzo Gioberti, al quale la condizione di filosofo e di sacerdote cattolico non impedì di essere uno dei più precoci, autentici e nobili amici ed estimatori di Leopardi). Damiani insegue un’improbabile suggestione critica secondo la quale l’epistolario rappresenterebbe il romanzo mancato della vita del poeta, da interpretarsi dunque come una sorta di «assolo». Ma è Damiani stesso a contraddirsi rilevando, nel suo scritto introduttivo, che «una dichiarazione ha una tonalità diversa se il destinatario è Monaldo oppure Giordani, Carlo o il cugino Melchiorri. Quando si cita da una lettera ( ) l’indicazione del corrispondente è quasi indispensabile per individuare la specifica accezione in cui i termini presi in esame vanno soppesati». Dunque? Un autentico colpo di scena è stata la comparsa sul mercato antiquario, nel 1993, di una sconosciuta lettera in francese del 1833 alla principessa Charlotte Bonaparte nella quale Leopardi dichiara nella maniera più recisa la sua estraneità all’ideologia del progressismo («lo stato progressivo della società non mi riguarda assolutamente»): tutta la critica italiana ed europea, che per cinquant’anni non aveva fatto altro che ripetere fino alla nausea la tesi del progressismo leopardiano, veniva così beffardamente servita, per la gioia dei pochi che non vi avevano mai aderito o che addirittura, come me, vi si erano radicalmente opposti. Altre, capitali, prese di posizione sono affidate all’epistolario. Una è la fede precoce e assoluta nella letteratura: «se io vivrò, vivrò alle lettere, perché ad altro non voglio né potrei vivere», scrive Leopardi al Giordani già nel 1817. Un’altra è la protesta contro l’insinuazione, neppure oggi definitivamente tramontata, che la sua filosofia del nulla e della vanità delle cose sia da imputare alle sue personali sventure. Scrive al De Sinner nel 1832: «È soltanto per effetto della viltà degli uomini (i quali hanno bisogno di essere persuasi del valore dell’esistenza) che si sono volute considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali quello che si deve unicamente al mio intelletto. Prima di morire voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregare i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che ad accusare le mie malattie». Un tema ricorrente dell’epistolario è tuttavia costituito, oltre che dalla solitudine e dalla noia disperata, proprio dalle malattie che afflissero il poeta per tutta la vita, compresa una di natura molto particolare e, per così dire, trascendentale: la malattia del pensiero, la tortura della coscienza. Se essa coincide con la maledizione stessa dell’uomo moderno, niente meglio dell’epistolario mostra però quanto ricco, sensibile e vivo restasse il mondo affettivo di Leopardi. Respinto dalla freddezza marmorea della madre, attratto ma anche frenato dall’ingombrante e retriva figura del padre, egli riversa il suo cuore sui fratelli, sui conoscenti, sugli amici e, talvolta, sull’umanità stessa, come nella lettera a André Jacopssen del 1823 nella quale, identificando la virtù con la sensibilità, vagheggia una sorta di platonismo sociale, una consapevole pratica collettiva dell’illusione. La lettera al corrispondente fiammingo è anche il preludio più importante della canzone Alla sua Donna, siderale inno alla bellezza dell’Idea femminile. Ma l’epistolario documenta la grande varietà dei toni leopardiani in rapporto sia ai diversi oggetti sia, per l’appunto, ai diversi interlocutori. L’alto dettato meditativo, elegiaco, drammatico o polemico può alternarsi al simpatico stile diretto e colloquiale, da ragazzo moderno, della lettera del 6 dicembre 1822 al fratello Carlo, nella quale Giacomo lamenta che anche a Roma le donne «non la danno se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi» o della lettera ad Antonio Papadopoli del 21 maggio 1827 in cui tratta da «puttana» la contessa Malvezzi, uno dei suoi amori sfortunati. L’epistolario tocca raramente questioni letterarie ma, fra tante belle lettere che sono, come quelle del Tasso, un modello di prosa italiana, ne contiene una particolarmente commovente, testimonianza e testamento di uno spirito eccelso. Rispondendo un anno prima di morire a un giovane ammiratore francese, Charles Lebreton, Leopardi rifiuta il titolo pomposo di opere applicato dall’editore ai suoi scritti, dichiara di avere soltanto abbozzato dei saggi e di non essere andato oltre questi preludi. Accettando con riconoscenza l’amicizia del giovane lettore, dice: «Se cercassi un qualche consenso, il suo, signore, non mi sarebbe affatto indifferente; i poeti scrivono proprio per anime come la sua, per cuori teneri e sensibili come quello che ha dettato la sua lettera così amabile e che anch’io, se solo fossi stato poeta, avrei potuto scrivere». Se solo fossi stato poeta!

L’opera Gli scritti privati Il Meridiano Mondadori dedicato alle «Lettere» di Giacomo Leopardi (pagine 1768, 55) è curato da Rolando Damiani, autore inoltre di un saggio introduttivo dal titolo «Vita abbozzata di un uomo solo». Il volume ospita, tra l’altro, una cronologia e una bibliografia aggiornata di Leopardi (1798-1837)

«Corriere della sera» del 14 ottobre 2006

Fannulloni, il caso del professor M.

di Pietro Ichino

Un piccolissimo contributo per la tormentata Finanziaria del ministro Padoa-Schioppa: 42 mila euro. Poca cosa in sé; ma vale la pena di prenderla in considerazione: incominciando da questa piccola somma, come lo Zio Paperone dai suoi primi dieci cent trovati da giovane nel Klondike, si può mettere insieme una fortuna. I 42 mila euro in questione sono il costo annuo che lo Stato sostiene per il trattamento del professor M., titolare di cattedra in una scuola media superiore del centro di Milano, nonostante due ispezioni abbiano accertato che da anni viene a scuola solo quando gli pare e che anche quando ci viene non insegna nulla. La legge prescrive che venga licenziato subito; ma non se ne parla neppure: il prof. M. continua a dormire sonni tranquillissimi. La prima relazione ispettiva, del luglio 2005, rileva «il numero elevatissimo di assenze dal servizio e la loro collocazione strategica soprattutto in determinati periodi dell’anno scolastico» (per esempio: il prof. M. si ammala sempre in coincidenza con gli scrutini, mai durante i periodi di sospensione delle attività didattiche); rileva inoltre «il totale disinteresse del prof. M. per il lavoro che svolge e per gli obblighi ad esso conseguenti», in relazione ai quali «non si assume alcuna responsabilità degli esiti manifestamente negativi». Conseguenza di questa bella pagella: un breve periodo di sospensione disciplinare dal lavoro. La sanzione non produce alcun effetto: un anno dopo, un’altra ispezione si conclude con esiti identici alla prima. Nel giugno 2006 vengono dunque contestati al prof. M.: il 40% di ore di lezione perse per malattie che insorgono sovente al paese d’origine, lontano da Milano 800 chilometri, e quasi sempre in concomitanza di festività, di fine settimana, o di impegni scolastici particolari; l’assenza sistematica ai consigli di classe; la scarsa conoscenza della sua materia; i rapporti pessimi con il preside, i colleghi e gli studenti, e pressoché inesistenti con le famiglie di questi ultimi. Insomma, non occorre essere degli esperti per qualificare a colpo sicuro il prof. M. come nullafacente totale. Per i casi come questo c’è l’articolo 129 del testo unico del 1957 (che per la scuola pubblica è ancora in vigore), dove si prevede il licenziamento dell’impiegato il quale «abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento». Parrebbe dunque indiscutibile che il prof. M. debba essere licenziato. Al Provveditorato e al Ministero, però, non ci pensano proprio: dicono che per uno o forse due anni il prof. M. resterà al suo posto, prima che possa essere portata a compimento la lunga e complessa pratica... di trasferimento. «Trasferimento?!?» chiedono allibiti il preside dell’istituto, gli studenti e i loro genitori. Sì: nella scuola pubblica italiana, di fatto (e contro la legge), uno come il prof. M. può andare avanti a farsi beffe dei propri studenti, dei colleghi e degli ispettori ministeriali con la serena certezza di conservare il posto fino alla pensione. Se proprio gli va malissimo - ma sono casi davvero eccezionali - gli capiterà, dopo molti anni di nullafacenza, di essere trasferito: si tratterà per lui soltanto di continuare a non far nulla in un altro istituto, magari in periferia, dove forse gli studenti e i loro genitori sono meno propensi a ribellarsi. Dicevamo che al ministro dell’Economia Padoa-Schioppa - ma anche a quello dell’Istruzione Fioroni - converrebbe prendere seriamente in considerazione il caso del prof. M.: perché qui la posta in gioco non sono solo i 42 mila euro che lo Stato spende inutilmente per lui, ma anche la cessazione di un danno grave che la scuola quotidianamente subisce a causa del suo rimanere in ruolo. E di casi clamorosi come quello del prof. M., purtroppo, ce ne sono in moltissime scuole. Basterebbe che il ministero dell’Istruzione smettesse di chiudere ermeticamente le orecchie alle proteste di studenti e genitori esasperati, vittime di questa forma di «evasione» doppiamente dannosa: di quei casi ne salterebbero fuori a migliaia. Non pensano i nostri ministri - e la Corte dei Conti - a quante cose buone si potrebbero fare per la scuola pubblica se, disattivando i circoli viziosi che oggi impediscono un’applicazione rigorosa della legge, si risparmiassero quegli stipendi non dovuti?
«Corriere della sera» del 16 ottobre 2006

16 ottobre 2006

Anno 2020, il computer divide il mondo in caste

TECNOLOGIA - Uno studio della Rand Corporation lancia l’allarme sul paradosso legato allo sviluppo informatico e biotecnologico. Che allarga il solco tra Paesi ricchi e poveri, perché immettere innovazione in situazioni culturalmente arretrate è come seminare nel deserto. Mentre altrove il progresso può risultare esplosivo
di Stefano Gulmanelli
Il prossimo futuro vedrà un Pianeta ancora tagliato in quattro fette: le nazioni «scientificamente avanzate», «competenti», «emergenti» e «ritardatarie»
Pioverà sul bagnato, verrebbe da dire. A dispetto delle rassicurazioni di analisti ed esperti sul ruolo che la tecnologia può avere nel diminuire, se non proprio chiudere, il divario fra ricchi e poveri nel mondo, uno studio di Rand Corporation (uno dei think tank più accreditati al mondo) prevede l'esatto opposto: i maggiori benefici dell'imminente ondata di innovazione tecnologica li avranno coloro che vivono nei Paesi sviluppati, mentre a chi appartiene a realtà già di per sé svantaggiate resteranno le briciole, in termini di miglioramento della qualità della vita indotta dalla tecnologia. «Il mondo è nel pieno di una rivoluzione tecnologica globale che nei prossimi 15 anni accelererà, con effetti ancora maggiori rispetto ad oggi sulle varie dimensioni della vita delle persone» è l'incipit dello studio condotto da Richard Silberglitt e da un gruppo di analisti di Rand (The Global Technology Revolution 2020). E proprio per verificare l'impatto che questo tsunami tecnologico potrà avere sulle varie realtà del mondo gli autori hanno scelto 29 Paesi rappresentativi per regione d'appartenenza, dimensione e status socio-economico al fine di valutarne la capacità di assorbire 16 applicazioni tecnologiche ritenute di probabile disponibilità nel 2020. Tecnologie già oggi note nella loro potenzialità e che per divenire di ordinaria fruibilità necessitano tutt'al più di perfezionamenti tecnici o di riduzioni di costo che generino la richiesta spontanea per farle decollare sul mercato. Ebbene, rispetto alla possibilità di metabolizzare queste innovazioni tecnologiche, l'insieme dei 29 Paesi finisce per sgranarsi come un gruppo ciclistico (vedi la tabella). In testa vengono a trovarsi quelli che Rand battezza «scientificamente avanzati»: l'Occidente e le sue propaggini Australia e Israele, con l'aggiunta piuttosto ovvia di Giappone e Corea del Sud. In questi Paesi, dice Rand, non vi sono virtualmente limiti all'implementazione di ognuna delle opzioni tecnologiche in arrivo, se non - come sottolinea Silberglitt (vedi intervista a fianco) - quelli che le società in questione potrebbero autoimporsi per motivi etico-culturali. Segue il drappello dei proficient (alla lettera «competenti») - nel quale si ritrovano tre giganti del calibro di Cina, India e Russia, oltre alla Polonia a rappresentare l'Europa Orientale - che nel 2020 saranno in grado di offrire ai propri cittadini tutta la palette tecnologica possibile, eccezion fatta per le 4 tecnologie il cui livello di capacità tecno-scientifica richiesto per l'implementazione è massimo: la coltura biogenetica dei tessuti, l'accesso «ovunque e comunque» all'informazione, la totale pervasività di sensori e network di monitoraggio delle aree pubbliche e gli apparati computerizzati da indossare come oggi indossiamo lo spolverino prima di uscire. Arranca, pur con dignità, il terzo gruppo: i Paesi «tecnologicamente emergenti», ovvero quasi tutti quelli latino-americani, l'Indonesia, la Turchia e il Sudafrica. Qui saranno infatti a portata di mano prodotti di una qualche raffinatezza tecnologica quali i kit di rilevamento istantaneo di agenti biologici e patogeni, le auto ad alimentazione ibrida e i processi di produzione "verde" (che minimizzano o eliminano gli scarti e i materiali di risulta tossici). Opzioni cui non avranno invece accesso i «ritardatari tecnologici», vale a dire la coda del gruppo alla quale sono destinati Paesi come Ciad, Kenya e Camerun (rappresentanti l'Africa subsahariana con l'eccezione sudafricana), Egitto, Iran e Giordania (in nome e per conto del Medio Oriente - Israele esclusa), Pakistan e Nepal, esponenti di quell'Asia mai lambita dal riscatto promosso dalle «tigri asiatiche», per chiudere con le Fiji, la Georgia e la Repubblica Domenicana, nella lista invece del «resto del mondo che conta poco». Quello cioè in cui la tecnologia regalerà tutt'al più energia solare a buon mercato, prodotti agricoli geneticamente modificati, processi di purificazione delle acque, metodi di costruzione delle case ecocompatibili ed economici e la comunicazione senza fili in ambiente rurale. Una serie di opportunità certamente non di poco conto ma che, avverte Rand, non impedirà che la distanza fra la testa e la coda del gruppo aumenti - e di molto - rispetto ad oggi.
«Avvenire» del 15 ottobre 2006