20 agosto 2021

Videolezioni sul metodo di traduzione dal latino

Un metodo di traduzione dal latino
di Francesco Maria Toscano
Se hai desiderio (o necessità) di ripassare un po' di latino e di far tuo un metodo di traduzione da questa lingua fantastica, ora hai a disposizione una serie di videolezioni con esempi pratici e suggerimenti vari.
Spero ti saranno utili!

1) Un'introduzione
2) La prima e la seconda declinazione
3) Gli aggettivi della prima classe
4) Il 'maledetto' nominativo della terza declinazione.
5) La terza declinazione


Ne seguiranno altri ...

Post del 20 agosto 2021

06 agosto 2021

Addio Pennacchi, la politica in scrittura

L’autore è stato colto da un malore improvviso. Con “Canale Mussolini” aveva vinto il premio Strega
di Fulvio Panzeri
Se ne è andato all’età di 71 anni, Antonio Pennacchi, uno degli scrittori più originali, che ha fatto della sua terra, l’Agro Pontino, lo scenario in cui indagare una storia poco nota, ma assolutamente importante per capire certe vicende 'marginali' dell’Italia nel Novecento.
Pennacchi nasce a Latina nel 1951 e si porta dentro da sempre una predestinazione a dover raccontare la storia della sua terra, anche se ha sempre dichiarato la sua fatica nello scrivere, un modo di essere scrittore per vocazione e non per evasione. Del resto alla scrittura arriva tardi, a cinquant’anni, dopo aver fatto l’operaio in fabbrica ai turni di notte per più di trent’anni e ricordando sempre, con grande senso di riconoscenza, verso i suoi compagni di lavoro, quel periodo, anche dopo essere diventato uno scrittore importante e molto amato dal pubblico. L’esordio avviene con Mammut, nel 1994, che appunto ripercorre il tempo della fabbrica e ricostruisce una grande epopea operaia che aveva scritto già diversi anni prima, nel 1987 e riporta nella letteratura italiana, un tema che era rimasto assente, rispetto all’attenzione dei nostri narratori, dopo l’interesse che aveva avuto negli anni Sessanta (si veda su tutti l’esempio di Ottiero Ottieri). Romanzo dopo romanzo, da Palude (1985) a Una nuvola rossa (1998), arriva ad avere il primo successo di critica e di pubblico con Il Fasciocomunista che nel 2003 vince il Premio Napoli e nel 2007 diventò anche un film cult di quegli anni: Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Lucchetti, storia su una giovinezza italiana, con un protagonista, ribelle di natura, ontologicamente anarchico, che vive le passioni con la ingenuità e l’incanto di chi nella vita non si vuole risparmiare, che vuol mantenere una sua posizione autonoma, senza lasciarsi andare a nessun compromesso, un po’ come Pennacchi è stato come uomo e come scrittore, libero, con il coraggio di sostenere sempre le sue posizioni, non solo per se stesso, ma soprattutto per il bene comune. Diceva infatti che dal dopoguerra «abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare». Forse va in questo senso la necessità di raccontare la sua terra, la sua gente e la sua storia in quello che è il romanzo che gli ha dato popolarità, vincendo a sorpresa, e contraddicendo tutte le previsioni della vigilia, nel 2010 il premio Strega con Canale Mussolini, incentrato sulle storie della famiglia Perruzzi, esempio di quelle migliaia di coloni che vengono fatti insediare in quella terra bonificata da poco dove si trovavano le Paludi Pontine, bonifica il cui asse portante è appunto il Canale Mussolini. Pennacchi racconta un’epopea familiare, che è sostenuta dal carisma e dal coraggio di zio Pericle, che tieni uniti i genitori, i tre fratelli, legati da un affetto profondo fatto di poche parole e di gesti assoluti, di promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro. È un mondo al quale Pennacchi rimane poi legato negli anni, tanto che cinque anni dopo, nel 2015, pubblica sempre da Mondadori, Canale Mussolini. Parte seconda, in cui indaga gli anni che seguono il 25 maggio del 1944, quando finisce la guerra a Littoria, la futura Latina, e il Canale Mussolini, dopo essere stato per mesi la dura linea del fronte di Anzio e Nettuno, torna a essere quello che era, il perno della bonifica pontina da cui inizia la ricostruzione mentre al Nord la guerra continua e coinvolge i Peruzzi su tutti i fronti, repubblichini o partigiani. Un’opera che nella sua mente non forse non sarebbe finita mai, tanto da aver dichiarato di stare già pensando a un terzo Canale Mussolini e forse a un quarto. Intanto ci lascia il suo ultimo romanzo, uscito nell’autunno scorso, La strada del mare, in cui ritornano i protagonisti di questa sua epica dell’Agro Pontino, un’epica che riporta i protagonisti della famiglia Perruzzi, agli anni Cinquanta, in cui la “piccola” storia delle famiglie originarie del Veneto, che erano scese nel basso Lazio alla fine degli anni Venti per colonizzare le terre bonificate dal regime fascista, e che lì erano diventate una comunità, s’intreccia e si mescola con la “grande” Storia italiana e internazionale del dopoguerra.
«Avvenire» del 4 agosto 2021

La tematica Lgbt nel cinema e l'eccesso di sessualizzazione

Dal Festival di Cannes indicazioni e conferme di una tendenza in atto
di Armando Fumagalli
Si è da poco concluso il Festival di Cannes con un verdetto (specialmente per la Palma d’Oro a Titane della regista Julia Ducournau) da molti considerato assai discutibile. C’è chi – probabilmente con qualche ragione – ha voluto vedere una forzatura in omaggio al politically correct la Palma d’Oro a una regista donna (la seconda volta in 74 anni, dopo la Jane Campion di Lezioni di piano ...), in un film che occhieggia alla fluidità sessuale e propone strani ibridi fra uomo e macchina. Tutti temi “di moda”, in un film che però ha avuto giudizi negativi quasi unanimi dai critici, seguiti però da questo ambitissimo premio conferito da una giuria “inclusiva” presieduta da Spike Lee. Era il festival della ripartenza, anche per il mercato del cinema francese, il più forte d’Europa, e il sostegno delle istituzioni francesi al loro cinema ancora una volta si è fatto sentire, con una forte presenza di film d’Oltralpe non solo in competizione, ma anche nelle ampie sezioni collaterali. La pattuglia italiana, nonostante il nulla di fatto per il film di Moretti, ha avuto alcune soddisfazioni: primo di tutti il premio al bel film di Jonas Carpignano, A Chiara, un intenso dramma famigliare ambientato a Gioia Tauro, con protagonista una quindicenne che scopre che il padre è coinvolto nelle attività della ’ndrangheta. Carpignano per interpretare i cinque membri della famiglia ha scelto una famiglia vera, quindi tutti attori non professionisti, ed è riuscito a dare un forte senso di verità alla messa in scena, costruendo comunque un dramma che dopo qualche lungaggine iniziale, nella seconda metà diventa asciutto e potente. Presentato alla Quinzaine des Realizateurs ha vinto il Premio come miglior film europeo di quella sezione. Alcuni giornali hanno fatto notare – chi con soddisfazione, chi in modo negativo – la forte presenza di film con tema e/o personaggi omosessuali, transessuali o dalla identità incerta: non si è trattato solo di Titane (non a caso la regista nelle sue dichiarazioni ha inneggiato alla fluidità di genere), ma anche di molti altri film, in concorso e no. Per esempio entrambi i film in cui era impegnata la nostra Valeria Bruni Tedeschi (La fracture, e Les amours d’Anais) vedevano il suo personaggio in relazioni lesbiche; c’è stato poi il progettato scandalo del film di Verhoeven, Benedetta, accolto però da risate alla proiezione in sala ... In concorso c’era anche Les Olympiades di Jacques Audiard, con tre ragazze bianche e un ragazzo nero che si uniscono in varie combinazioni sessuali; non è al centro della storia, ma anche uno dei personaggi di Stillwater, in concreto la figlia di Matt Damon, aveva una relazione lesbica. Ma anche solo scorrendo le sinossi dei film delle sezioni collaterali, la sensazione è che ormai fosse quasi difficile trovare un film senza una storia d’amore omosessuale. Pare proprio che si sia innescato un circolo (vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista) per cui gli autori sanno che se c’è un certo tema, questo film verrà privilegiato dai selezionatori: ecco che sceneggiatori e registi (e produttori) vengono spinti sin dalla concezione a inserire ruoli omosessuali per avere una chance in più di entrare nei selezionati, con un effetto paradossale: quella che doveva essere una minoranza da rappresentare in senso anti discriminatorio sembra ormai diventata una maggioranza egemonica, almeno in alcuni contesti festivalieri. Deve essere forse successo qualcosa di simile nella scrittura di Piccolo corpo, bel film di Laura Samani presentato alla Semaine de la Critique, dove la presenza di un personaggio dalla identità sessuale ambigua è totalmente staccato dal focus del film (sul rapporto fra una madre e una bimba morta) e questa dimensione sembra proprio un omaggio al politically correct. Se si andrà confermando la totale fluidità sessuale nei racconti che troviamo sugli schermi, una delle non poche conseguenze sarà quella di cancellare le dimensioni dell’amicizia più normale, specialmente fra adolescenti e fra giovani: verrà immediatamente tutto sessualizzato. Non è un caso che alcuni recensori americani abbiano interpretato in chiave Lgbt il film della Pixar Luca, che è invece una semplicissima storia di amicizia maschile fra due ragazzini (fra l’altro ispirata alla storia vera dell’amicizia dello stesso regista con un suo compagno di scuola). Altri temi “caldi” del festival sono stati l’eutanasia e il “diritto a morire” (il film di Ozon con Sophie Marceau), così come una certa presenza di temi ed episodi che riguardano l’aborto (è centrato sul diritto ad abortire il film in concorso Lingui, ambientato in Ciad, ma ci sono episodi di aborto anche in altri film, come Les amours d’Anais, dove l’aborto viene trattato come una breve e innocua pratica da sbrigare). Per fortuna ci sono stati documentari interessanti come Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, dove si dà voce a giovani italiani che si fanno domande sul futuro, e il documentario di Oliver Stone sull’omicidio Kennedy, Through the looking glass, che fa il punto sulle acquisizioni – inquietanti– degli ultimi tre decenni, sulla differenza fra la verità “ufficiale” e le numerose prove emerse in questi ultimi decenni che la smentiscono. Succedono poi cose un po’ paradossali nell’impegno “affermativo” che sembra aver preso piede nel mondo del cinema e della Tv contemporanea. Nel Marché du film, che accompagna il festival, era in distribuzione un numero speciale di Deadline, una testata hollywoodiana abbastanza recente, ma che negli ultimi anni si è ben sistemata accanto ai più blasonati Variety e The Hollywood Reporter. In un elenco di profili e interviste a disruptors, grandi innovatori, ce n’era uno dedicato a Ryan Murphy, che riportava una sua riflessione di quando in una riunione con altri showrunner si rese conto di essere l’unico gay nella sala: «Devo fare qualcosa per aumentare la nostra presenza », si disse. Non è chiaro a che anno si riferiva Murphy, che nella decina di serie Tv che ha creato (da Nip/Tuck a Glee a Pose) ha poi sempre portato avanti la promozione della cultura gay ... Ma è ironico che solo poche pagine prima c’era il profilo di Greg Berlanti, celebrato perché nelle 15 serie che sta direttamente o indirettamente dirigendo, sta portando avanti la stessa battaglia culturale ... Ma l’elenco sarebbe potuto continuare a lungo, con Alan Ball (American Beauty, Six Feet Under), Kevin Williamson (Dawson’s Creek, The Vampire Diaries e molte altre), Darren Starr (Beverly Hills 90210, Sex and the City, Emily in Paris ecc.). Insomma, non si capisce bene a quale riunione abbia partecipato a suo tempo Murphy per sentirsi così solo ...
«Avvenire» del 27 luglio 2021

16 luglio 2021

Cuba nella nebbia

di Massimo Gramellini
Un avventore del Caffè si domanda perché influencer e intellettuali nostrani non aprano bocca su quanto sta accadendo a Cuba. E aggiunge, non a torto, che se gli assalti ai forni e gli arresti di massa avessero la Budapest di Orbán come teatro, qui sarebbe tutto un fiorire di petizioni & indignazioni. Invece per chi detta l’agenda universale del bene e del male la dittatura cubana resta sempre un po’ meno dittatoriale delle altre, persino adesso che è passata dalla morsa inflessibile ma professionale dei fratelli Castro a quella di un certo Diaz Canel, a cui Che Guevara non avrebbe neanche lasciato spolverare il sellino della moto. La tesi difensiva del regime è che al popolo non manca la libertà ma il pane, e il pane manca per colpa dell’embargo americano che Biden si guarda bene dall’ammorbidire. In realtà la libertà manca eccome: è che a pancia vuota la sua assenza si avverte ancora di più. Ma di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito. Anzi, non c’è proprio il dibattito. La ragione ideologica del silenzio degli «impegnati»è nota, ma è possibile azzardarne anche una psicologica. Per i più giovani Cuba non significa nulla, mentre per i più anziani tutto. Significa la difesa dell’utopia della loro giovinezza: che il comunismo al potere sarebbe riuscito a cambiare la natura individualista dell’essere umano. La dolce nebbia dei ricordi continua ad avvolgere i contorni di un’isola che è sempre stato più rassicurante immaginarsi che vedere per com’era davvero.
«Corriere della sera» del 15 luglio 2021

29 giugno 2021

Leggere la Commedia sulle lapidi di Firenze

di Riccardo Michelucci
Il dantista Seriacopi ci guida nelle strade fiorentine dove le pietre parlano delle famiglie della città, spesso in lotta tra loro, che il Poeta celebra nelle tre Cantiche
«Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva». Basta alzare lo sguardo lungo il Corso, nel pieno centro di Firenze, per scorgere la lapide con i versi della Divina Commedia che descrivono il primo incontro tra Dante e Beatrice. Sono incisi nel marmo della facciata dell’antico palazzo dove un tempo sorgevano le case dei Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice. Siamo nel XXX canto del Purgatorio e il sommo poeta sta assistendo a una processione con carri e canti di lode circondato da angeli e anime pie, quando vede una donna con un velo bianco sulla testa, una corona d’ulivo, una veste rossa e un manto verde. «I colori indossati da Beatrice sono un’allegoria delle virtù teologali, il bianco della fede, il rosso della carità e il verde della speranza, ai quali si somma la sapienza simboleggiata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva», ci spiega il dantista Massimo Seriacopi, che ci accompagna in un percorso attraverso i luoghi fiorentini di Dante solcati dalle lapidi del suo poema monumentale. Sull’interpretazione allegorica di Beatrice sono state ideate e smontate molte teorie fino ad arrivare alla doppia concezione della donna: da una parte l’ideale stilnovista della bellezza che muove il cuore del poeta, dall’altra la rappresentazione della teologia cristiana. Nella Divina Commedia Beatrice sarà 'portatrice di Cristo' e la bellezza che si manifesta pienamente nella sua natura rivelatrice della verità e della carità è per Dante la via per accedere a Dio. Ripercorrere le strade e i vicoli della Firenze medievale è un modo per andare alla riscoperta dei più famosi luoghi danteschi e la partenza da via del Corso non è casuale perché qui si concentra il più alto numero di lapidi, gran parte delle quali raccontano le famiglie della Firenze del tempo di Dante. Quella degli Adimari con Filippo Argenti che sguazza nel fango della palude nel cerchio degli iracondi ( VIII canto dell’Inferno), quella dei Donati con Forese, che predice la futura rovina del fratello Corso Donati capo dei Guelfi neri - nel XXIV canto del Purgatorio, infine quella dedicata alla famiglia dei Cerchi (XVI canto del Paradiso). Basta fare pochi passi in direzione opposta rispetto al Duomo per imbattersi nei resti dell’antica chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, risalente all’XI secolo, meglio nota come 'chiesa di Dante'. Qui, nel 1285, il poeta sposò Gemma Donati e si ritiene che alcuni anni prima, proprio al cospetto dell’altare, abbia visto per la prima volta la sua Beatrice.
«In questa chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre della giovane, e altri membri della sua famiglia ma è assai controversa l’ipotesi che vi sia anche il sepolcro di Beatrice, che più verosimilmente fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, i Bardi, nel chiostro grande della basilica di Santa Croce», spiega Seriacopi, che è autore tra l’altro del recente saggio Dante tra poesia e teologia (ed. Setteponti). All’estremità opposta di via Santa Margherita si apre un piccolo slargo dove si trova la Casa di Dante, all’interno della replica ottocentesca di un’antica casa-torre. Istituita nel 1965 in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, oggi ospita il museo omonimo che ne documenta la vita e le opere. Svoltato l’angolo siamo in via Alighieri, e una lapide indica il punto dove si presume sorgesse la vera casa natale del poeta. «Io fui nato e cresciuto / Sopra ’l bel fiume d’Arno alla gran villa», recita la pietra, riportando una citazione dal XXIII canto dell’Inferno.
Sono versi che trasudano nostalgia: furono scritti dal poeta durante il sofferto esilio che lo tenne lontano da Firenze fino alla sua morte. Le strade e i vicoli medievali che separano il Battistero di San Giovanni e l’attuale piazza della Signoria furono il palcoscenico dell’infanzia e della giovinezza di Dante, oltre che il collegamento naturale tra il potere religioso e quello politico della città. A unire i due punti c’è via de’ Calzaioli al cui limitare, superata l’antica chiesa di Orsanmichele, una lapide è quasi nascosta in mezzo alle insegne luminose dei negozi. «Cita un verso dal X canto dell’Inferno - precisa Seriacopi -. Qui Dante dialoga con Cavalcante, padre di colui che nella Vita Nova aveva definito il suo primo amico, ovvero Guido Cavalcanti. Era anch’egli un grande poeta e se non fosse morto così presto avrebbe potuto oscurare lo stesso Dante». Proprio negli anni in cui veniva scritta la Divina Commedia, in piazza della Signoria era in corso la realizzazione di Palazzo Vecchio, che venne costruito sulle rovine dei palazzi di proprietà della famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata da Firenze nel 1266. E proprio agli Uberti sono dedicate due delle tre lapidi dantesche affisse all’interno del cosiddetto 'primo cortile' di Palazzo Vecchio. Dante si trova adesso nel XVI canto del Paradiso e descrive la superbia che portò quella famiglia alla rovina, oltre a nuocere alla grandezza di Firenze («Oh quali io vidi che son disfatti / per lor superbia!»).
«L’altra lapide - prosegue Seriacopi - cita invece l’episodio in cui il famoso capo ghibellino Farinata degli Uberti, rinchiuso tra gli epicurei nel sesto cerchio del-l’Inferno, racconta al poeta di aver difeso Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 1260, opponendosi poi ai ghibellini senesi che erano intenzionati a distruggerla». Nessuno meglio di Dante riuscì a incarnare appieno lo spirito del suo tempo, quello di un’Italia drammaticamente divisa e faziosa, impegnata in lotte fratricide all’interno degli stessi comuni, e a portare alla luce delitti, passioni e storie oscure di quell’epoca, che altrimenti sarebbero finite nell’oblio. E nella Commedia non perde occasione per scagliarsi contro la civiltà fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale. È quanto fa ancora più avanti, in via del Proconsolo, sulla lapide incisa accanto all’antica chiesa della Badia fiorentina, e poi di nuovo in via del Corso insieme a Cacciaguida, l’avo che incontra in Paradiso, tra le anime dei combattenti per la fede. «Dante era un uomo del Medioevo cristiano che riprendeva l’etica di Aristotele, per il quale la virtù consisteva nel giusto mezzo - conclude Seriacopi -. E Cacciaguida, che fu un guerriero della seconda crociata al seguito dell’imperatore Corrado III, riveste qui un’importante funzione morale. Attraverso di lui Dante esprime tutto il suo sdegno nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze, rievocando la purezza dei costumi antichi'».

«Avvenire» del 21 febbraio 2021

08 marzo 2021

Nuova serie di videolezioni dedicate a Tacito

Il grande storiografo latino
di Francesco Toscano
Sul mio canale YOUTUBE puoi trovare una serie di video che illustrano diversi aspetti della vita e dellopera del grande storiografo latino Tacinto.
Qui di seguito l'elenco:
1) la vita e il rapporto con il potere
2) l'"Agricola"
3) la "Germania"
4) il "Dialogus de oratoribus"
Post dell'8 marzo 2021

19 gennaio 2021

Tristezza mezza bellezza

di Alessandro D'Avenia
Chi conosce la montagna sa che camminare in cresta è tanto bello quanto vertiginoso: ci si sente abbracciati dal panorama e padroni dell’orizzonte, ma stare sospesi tra due voragini è l’unica via per raggiungere la meta e, se non si sta attenti a dove poggiare il piede, l’abisso è a un passo. La tristezza è uno di questi sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il «positivo» e ci priva così del coraggio per vincere la paura del negativo. Eppure la tristezza è un sentimento «positivo», perché ci «pone» in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra «improduttivo», come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile. Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire.
E così, qualche giorno fa, dopo l’ennesimo contraddittorio rinvio del ritorno a scuola in presenza (genitori e ragazzi si stanno ribellando con manifestazioni e ricorsi di cui vi racconterò la prossima settimana), sono stato colto da una profonda tristezza. Ero sanamente triste e questo era il sentiero su cui la vita mi chiamava a camminare con i miei ragazzi per non precipitare nei due abissi al lato del crinale della tristezza: l’indifferenza e la disperazione, che paralizzano l’iniziativa e l’impegno.
La tristezza rende il dolore un sentiero che, affrontato con passi accurati e possibili, permette di resistere a un male inevitabile o alla privazione di un bene. La tristezza è risonanza autentica di fronte al mondo ferito e chiamata a trovare una cura, purché non la si usi come alibi per rimanere fermi, facendola precipitare in apatia o disperazione.
E così ho dedicato un’ora intera a chiedere ai miei studenti quali aspetti positivi e/o negativi stavano sperimentando dopo mesi di Dad.
Sono emerse idee interessanti e più costruttive di quanto credessi. Alla fine una di loro ha ringraziato per l’ora così trascorsa, perché l’aveva aiutata a guardare con meno paura e rassegnazione alla sua frustrazione. Tutti concordavano sul fatto che dare un nome preciso alle fatiche del momento (la lingua madre è madre anche per questo: dire bene le cose è benedirle) e sentire l’esperienza degli altri, anche di un adulto, li aveva sollevati e incoraggiati a non lasciarsi andare (ciò che ci accomuna tutti è la perdita di motivazione, la paralisi del desiderio).
Anche io, grazie a questa vertiginosa camminata in cresta, mi sono ritrovato a riflettere con loro sugli effetti di questo periodo e ho scoperto che proprio la privazione della normalità mi sta aiutando a camminare in modo nuovo. La didattica in genere oscilla tra due metodi di apprendimento: de-duttivo (formulo un principio generale e lo verifico nel particolare) o in-duttivo (osservo il particolare e risalgo al principio che regola il fenomeno), poi si tratta di rendere i ragazzi il più partecipi possibile al processo.
In Dad ho maturato un metodo più ricco e ampio che chiamerei, con Socrate, «maiuetico» o «co-duttivo». La lezione si fa insieme, come un’orchestra che esegue un pezzo: dopo aver reso «fisicamente presente» (data la incorporeità del mezzo di comunicazione) lo spartito (lettura condivisa ad alta voce di un passo dei Promessi Sposi, imparare a memoria una poesia...), l’energia sprigionata dalla materia attraversa tutti che ne diventato «con-duttori» (come per l’elettricità). Tutti sono chiamati a interpretare lo spartito rispettando il pentagramma e gli altri strumenti: la conoscenza somiglia così a una spirale che, giro dopo giro, si approfondisce ruotando attorno all’asse centrale; i singoli diventano una comunità di ricerca; la scoperta coinvolge come in una caccia al tesoro; io sono al servizio della musica della vita tanto quanto loro, ma come maestro d’orchestra.
Non si tratta di un dibattito o di un’improvvisazione ma di una esecuzione che fa tesoro di quanto ognuno scopre, rimanendo nei limiti dettati dall’argomento (il mio compito è che quei limiti vengano rispettati: lo spartito è lo spartito) e la lezione diventa un «concertare», che significa non solo preparare un complesso di musicisti all’esecuzione di un pezzo, ma anche accordare fra loro gli strumenti.
La «co-duzione» trasforma la Dad in un «concerto»: lo spartito crea accordi (con il vissuto personale) e legami (tra le persone). Alla fine della lezione ci sentiamo cresciuti perché, come dice Agostino: «nutre la mente soltanto ciò che la rallegra».
Una gioia che è il risultato di una tristezza «ben vissuta»: un sentimento-sentiero, un sintomo che è inizio di guarigione, perché se un albero si secca, in un suolo che sembra arido, è perché non ha messo radici abbastanza in profondità.
«Corriere della sera» del 18 gennaio 2021