07 luglio 2023

Il Genoa di Montale, l'Inter di Sereni: il calcio dei poeti, una passione in versi

L'autore di "Ossi di seppia" ostentatava pubblicamente indifferenza verso il gioco del pallone, ma Luciano Bianciardi sul Guerin Sportivo gli diede del bugiardo: "Mente, ogni domenica aspetta con ansia il risultato del Grifone". E Vittorio Sereni, interista "perso", ammise di star male fisicamente per la sua squadra e di aver deciso, "per viltà" di disertare il derby
di Lorenzo Catania
L’Italia, patria dei campanilismi, anche sportivi, era estranea al poeta Eugenio Montale, che, interrogato su quale squadra di calcio tifasse, rispondeva: "Non tifo per nessuna squadra. Non ho mai visto un incontro di calcio e sono assolutamente contrario ad ogni forma di campanilismo, ivi compreso quello sportivo". Sebbene questa risposta rispecchi il temperamento del poeta degli Ossi di seppia, lo scrittore Luciano Bianciardi, dalle pagine del “Guerin Sportivo”, dove teneva un rubrica di posta con i lettori, gli dava del bugiardo: "Montale è un enorme bugiardo: non è vero che non abbia mai veduto un incontro di calcio, e che sia contrario a ogni forma di campanilismo. Guarda la partita, alla televisione, tutte le domeniche, e aspetta con ansia il risultato del Genoa, perché è tifoso genoano incallito".
Non era tifoso incallito Umberto Saba, autore delle Cinque poesie per il gioco del calcio, andato per caso e per curiosità allo stadio, attratto dal tifo per la squadra della sua città, la Triestina, che negli anni Trenta del Novecento giocava e si difendeva bene nel campionato di serie A. In Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba racconta che nell’autunno del 1933 diventa tifoso grazie a un giovane amico che una domenica gli cede il biglietto per assistere alla partita "fra la potentissima Ambrosiana - così è ribattezzata l’Inter pochi anni dopo l’avvento del fascismo, perché la parola Internazionale non piace al regime - e la vacillante Triestina", che si conclude con un pareggio senza reti. Quel giorno Saba, quando vede i giocatori della squadra cittadina uscire di corsa nel campo, si lascia contagiare subito dalla passione sportiva, dettata dalla corrispondenza fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti e gli "eroi" nel rettangolo verde: "Di corsa usciti in mezzo al campo, date / prima il saluto alle tribune. Poi, / quello che nasce poi / che all’altra parte vi volgete, a quella / che più nera s’accalca, non è cosa /da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome". Lo spettacolo della folla, gli umori e le reazioni che esibisce sulle gradinate, speculare a quello che si svolge sul campo di gioco, offre al poeta l’occasione per accostarsi a una realtà semplice e vitale, di cui sa riprodurre con narrazione epica figure e gesti, che lo aiuta a uscire temporaneamente dalla condizione esistenziale dell’escluso, a essere "come tutti / gli uomini di tutti / i giorni": "Anch’io tra i molti vi saluto, rosso /alabardati, /sputati /dalla terra natìa, da tutto un popolo / amati. // Trepido seguo il vostro gioco. / [...]Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane!".
A differenza di Saba che a cinquant’anni diventa “tifoso” un po’ per caso, il poeta Vittorio Sereni fin da giovane è un assiduo frequentatore della Civica Arena, e poi dello stadio di San Siro. Un interista "perso", al punto di stare fisicamente male per la propria squadra ed essere costretto "per viltà" a disertare il derby dopo un micidiale 4 a 4 del 6 febbraio 1949. Come Saba, Sereni è affascinato dal gioco del calcio inteso come festa popolare dotata di un senso che va oltre il significato sportivo. Spettacolo vibrante di colori e di suoni, come quello che lo spinge a raccontare nella poesia Domenica sportiva una sfida a San Siro tra l’Inter e la Juventus: "Il verde è sommerso in neroazzurri. /Ma le zebre venute da Piemonte /sormontano riscosse a un hallalì/ squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un rame bianconero. /La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. / Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella". Sfida che procura al poeta, aperto alla vita, momenti di gioia che si oppongono alla negatività della storia. Ma quando l’incanto di suoni e di colori viene spezzato dal fischio finale dell’arbitro, chiosa Sereni nello scritto Il fantasma nerazzurro del 1964, il divertimento cede al malumore della festa finita e "un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso" invade l’animo degli spettatori che svuotano le gradinate, sicché "l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo". E tuttavia, scrive ancora il poeta, "Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite nella sua monotonia".
Spesso nel "gruppetto di interisti scelti", guidato da Sereni, che nelle domeniche degli anni Settanta si reca allo stadio, ci sono il musicista Gino Negri e i poeti Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. Quest’ultimo, ispirato dalla squadra del cuore, scrive i versi della poesia intitolata “53”, dove l’inizio della passione calcistica, vissuta dall’autore-bambino come un apprendistato alla vita, e il ricordo dei suoi idoli calcistici (il portiere Giorgio Ghezzi e gli attaccanti Lennart Skoglund, Stefano Nyers e Benito Lorenzi) si mescolano all’amore-nostalgia per il padre suicida: "L’uomo era ancora giovane e indossava /un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il Kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi/ era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva".
«la Repubblica» del 7 luglio 2023

01 maggio 2023

Voglio nascere

di Alessandro D'Avenia
Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza. E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto. Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa?
Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne». Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come? Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola ...
Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».
«Corriere della sera» del 1° maggio 2023