di Claudio Magris
23 marzo 2008
Bobbio e l’aborto
di Claudio Magris
Soltanto una scuola libera sarà anche pertinente
di Giacomo Samek Lodovici
Ma l’esistenza di scuole non statali garantisce un principio morale fondamentale e irrinunciabile, che non è certo di parte: la libertà dei genitori di scegliere per i figli una scuola conforme alle proprie convinzioni. Infatti, la scuola dovrebbe proseguire il diritto naturale dei genitori di educare i figli, ed essere un complemento educativo della famiglia, mai un sostituto.
Ciò esige che lo Stato renda possibile una reale ed effettiva libertà di scelta, realizzando una vera parità scolastica e consentendo ai genitori di iscrivere i figli negli istituti più confacenti alle loro convinzioni. Lo Stato deve cioè garantire la possibilità che i genitori di sinistra possano mandare i figli in scuole di sinistra, quelli liberali in scuole liberali, quelli cattolici in scuole di ispirazione cattolica, ecc. Insomma, la posta in gioco non è la tutela degli interessi dei cattolici, bensì la salvaguardia della libertà delle famiglie di educare i figli secondo i propri valori e principi, quali che siano, purché non siano principi criminali.
Si dice che la scuola non statale è parziale, mentre la scuola dovrebbe essere indifferente-neutrale, presentando tutti i modelli di vita, in modo che lo studente scelga quello che più lo convince.
Ma, per poter scegliere, bisogna avere senso critico, ed è raro che un adolescente sia capace di discernere autonomamente, senza farsi condizionare. Non è dunque meglio che venga indirizzato dai genitori?
All’università, poi, sceglierà da solo. Inoltre, una scuola indifferente-neutrale non è realizzabile, perché già solo per passare da un argomento al suo racconto è necessaria una presa di posizione circa i suoi aspetti più rilevanti: è necessaria una sintesi, e questa comporta una selezione, che è sempre frutto di scelte derivanti da criteri di pertinenza e di rilevanza.
Comunque, un sistema scolastico che riesce ad avvicinarsi ad essere indifferente-neutrale e non propone e non valorizza nessuna cultura e nessun modello di vita, in realtà fa una precisa scelta culturale: quella del relativismo, in cui tutte le opzioni sono sullo stesso piano, e facilmente ingenera nello studente una visione relativista.
Ciò non vuol dire che una scuola debba essere faziosa né autorizzare un docente a inculcare le proprie convinzioni agli studenti occultandone le debolezze, o censurando o indebolendo le tesi avverse. La scuola deve sviluppare il senso critico e l’autonomia di giudizio degli studenti, abilitandoli a valutare criticamente ciò che insegna loro.
Tuttavia, poiché la trasmissione culturale dovrebbe essere trasmissione della verità, la scuola dovrebbe trasmettere principalmente (non esclusivamente) la verità, cioè quelle tesi e quei valori che essa ed i genitori che l’hanno scelta considerano vere; il che non significa, bisogna ribadirlo, omettere le opposizioni e le obiezione significative a queste tesi.
Sarebbe veramente ora, come ha auspicato il cardinale Scola, che lo Stato realizzasse una vera parità di condizioni giuridiche ed economiche.
Quel gioco a contrapporre chi sta con la vita
di Marco Tarquinio
Liberi, cioè, di portare argomenti, di commentare fatti, di articolare opinioni e proporre diversi registri. E contiamo – udite, udite – di essere letti, forse capiti e comunque non strumentalizzati. Capiti e non strumentalizzati anche quando il dibattito e le notazioni sfociano in valutazioni su scelte politiche e programmatiche, come accade – inevitabilmente – in questo tempo elettorale nel quale siamo già immersi. Capiti e non strumentalizzati anche quando finiamo, come ieri, su 'Repubblica' sotto un titolo strillato a tutta pagina: «La Cei boccia la lista anti-aborto».
Tutti, e non solo i nostri lettori, sanno che 'Avvenire' ha condiviso da prima di subito la battaglia culturale ingaggiata da Giuliano Ferrara, e dal suo 'Foglio', per una moratoria dell’aborto.
Tutti, e non solo i nostri lettori, sanno che un incessante e sereno impegno pro-life cadenza e qualifica da decenni la vicenda del giornale dei cattolici italiani che – come scrivevamo il 13 gennaio scorso – si è fatto «puntualmente specchio di quel grande laboratorio spirituale e culturale che sono le Giornate per la Vita promosse dalla Cei e delle splendide e concretissime esperienze del Movimento per la Vita».
Tutti, e non solo i nostri lettori, hanno avuto anche la possibilità di sapere che a noi di 'Avvenire' – e a qualche nostra bella firma più di altre – sembra che la presentazione di una specifica lista anti-aborto alle prossime elezioni politiche sia strada non indovinata per contribuire ad affermare maggiormente la cultura della vita. La scelta di Ferrara è una scelta che merita rispetto – averne di opinion leader come lui... –, ma continuiamo a ritenere che più partiti politici, e non uno solo, debbano mettere a tema, con chiarezza d’intendimenti, la capitale questione dell’accoglienza e della tutela della vita nascente. E farne bandiera. Li invitiamo a impegnarsi.
Così come – con accenti diversi, da angolazioni differenti e con identica passione – in questi giorni chiedono, con tre distinti appelli ai vari candidati premier, il Movimento per la Vita, il Forum delle famiglie e l’associazione Scienza&Vita.
Qualcuno, a quanto pare, fa finta di non sapere che le cose stanno così. O come prevedeva qualche giorno fa, su queste colonne, Domenico Delle Foglie certi 'seminatori' di cattivi sentimenti si sono messi all’opera. E pensano di poter impudentemente saccheggiare la schietta opinione di un intellettuale – il poeta Davide Rondoni – a proposito del dibattito a distanza sull’aborto tra altri due intellettuali, Claudio Magris e lo stesso Ferrara, per distillare la presunta valutazione della Cei a proposito di un’iniziativa politica.
Nessuno boccia nessuno, insomma. Tanto meno per procura. Anche se chi legge solo 'Repubblica', probabilmente, non saprà mai la verità. E cioè che semplicemente, seriamente e liberamente sulla questione dell’opportunità di una nobile 'lista di scopo' noi di 'Avvenire' – e, lo ripetiamo, qualche nostra bella firma più di altre – abbiamo un diverso parere da quello del direttore del 'Foglio'. Che lo sa, non si scandalizza e – secondo la sua indole – tira diritto. Lui ama la vita. Noi pure. Questo conta.
La giornata di Cupido, scugnizzo alato
È la lezione del professor Ovidio, poeta latino, specialista del ramo, che nel suo I rimedi dell’amore, fornisce spicce e ciniche istruzioni per santificare al contrario la festa degli innamorati. Il patrono del dolce sentimento resta lui, il mite Valentino (Valens tyro, «forte soldato», di Cristo, s’intende), che rappacificava fidanzatini litigiosi con il dono di una rosa o, secondo varianti leggendarie, di una coppia di colombi; che all’imbrunire porgeva un fiore ai bambini perché lo offrissero alle mamme senza attardarsi per strada; che firmò la lettera d’addio alla figlia del suo carceriere Asterius, guarita dalla cecità, con il prototipo di ogni messaggino tenero: «dal tuo Valentino...». Come spesso accade, sulla ricorrenza cristiana si addensarono rituali pagani. I Romani avevano già una loro cerimonia dell’amore carnale: erano i Lupercalia, in onore di Luperco, arcaico nume della fecondità. Travestiti da lupi, il 15 febbraio i ragazzi di Roma scorrazzavano intorno al Palatino, fustigando con pelli di caprone sacrificale le donne, che aspiravano a sicura maternità. Un culto greve, di memoria agraria, che papa Gelasio, nel 497, rimpiazzò con la festività del santo di Terni. Ma i simboli connessi conservarono (e tuttora esibiscono) la fragranza d’antico. Cominciamo dagli Amorini, i Cupidines dei romani. Sono d'incantevole invenzione greca, e si chiamavano èrotes. Gli Elleni ebbero fede, da sempre, nel potente Eros, un dio senza volto, una forza positiva che ai primordi del cosmo legò gli elementi dispersi nel caos. Un emblema buono per i filosofi, ma poco appetibile per le coppiette spensierate. I poeti ci lavorarono sopra. E nacque Amore, figlio di Afrodite (la Venere latina), impertinente scugnizzo alato che si diverte a ferire con frecce d’oro, scagliate dal suo arco incordato di porpora. Neppure sua madre riesce a gestire il monello, assicura il poeta Mosco, che si nasconde e fugge, mitragliando dardi perfino nel mondo dei morti. Platone, in una poesia, ce ne lascia un ritrattino indimenticabile: eccolo, nell’innocenza del sonno, abbandonato su un cuscino di rose, le piume raccolte dietro le spalle, mentre le api depongono miele sulle sue giovani labbra. Dal ramo dell’albero pende la sua arma, la faretra colma di dardi, a ricordarci che quel riposo infantile è una pausa, tra una strage e l’altra. Gioca con dadi d’oro insieme a Ganimede, nel giardino di Zeus: perché l’amore è un volo d’azzardo, e gli astràgali (i dadi greci) sono i destini dei mortali, oggi un sei, il tiro di Venere, domani un uno, il colpo peggiore, detto «del cane». Ben presto Eros si moltiplica, nei puttini dispettosi cari alla matita di Peynet. Ora vendemmiano (e i grappoli rappresentano i cuori umani); ora da arcieri si trasformano in incendiari, lanciando nei petti devastanti scintille. Il poeta Asclepiade geme per l’indifferenza con cui gli amorini gli fanno il cuore di cenere. Che festa sarebbe, senza regalini? La grancassa commerciale di San Valentino ne squaderna per tutti i gusti, ma il campionario antico è già vario e vasto.
In Grecia, i pittori di vasi davano le prime dritte. Il presentino d’amore era, in sé, il piatto o il recipiente, impreziosito dalla raffigurazione del gesto affettuoso: lo spasimante che porge un galletto, una quaglia, un tordo, una lepre, accreditati, presso gli antichi, di vigore erotico. Catullo regalò alla sua Lesbia un passero, e ci ricamò sopra versi futili e toccanti. Poi fiori, in ghirlande dove spiccano le rose, da sempre messaggere di Venere, incarico diviso con le mele, da regalare in cesto. Seguono i libri di poesia, in formato tascabile: i Virgilio e gli Omero «palmari», che stavano in una mano. Non mancano i capi di vestiario, gli accessori.
Il più indicato era la cintura, che per i classici includeva significati maliziosi: «sciogliere la cintura» era, infatti, il codice per indicare i preliminari amorosi. Per questo le belle, talvolta, mettevano le mani avanti e tra i ricami di fiori inserivano sulla fascia (ricordava il cinto di Venere alla cui seduzione neppure Giove resisteva) scritte fin troppo sincere. L’affascinante Ermione, lamenta un epigrammista dell’Antologia Palatina, vi aveva trapunto l’avviso: «Amami pure come vuoi, ma non soffrire troppo se qualcun altro mi fa sua!». Il pratico Ovidio consiglia di comprare frutta e noci al mercato rionale, ma di far sapere alla fidanzata che il dono arriva fresco dai propri poderi suburbani. Anche una poesiola può fare la sua figura, aggiunge l’autore dell’Ars Amatoria, ma il regalo più promettente resta sempre un bel gruzzolo di sesterzi d’oro. Marziale raccomanda la carta da lettera, economica: le tabulae vitellianae, che non avevano il pregio della pergamena o delle pagine d’avorio, ma andavano dritte al cuore. Erano le antenate romane dei nostri SMS. Ricevendole, si sapeva che non parlavano d’affari o d’incarichi di stato. Però contenevano la notizia più gradita della giornata: l’ora dell’appuntamento.
Le cautele del Sant’Uffizio
Ma l’occasione è seria. Un convegno che si terrà tra 21 e 22 febbraio prossimi a Roma, presso l’Accademia dei Lincei, sul tema «A dieci anni dall’apertura dell’archivio della congregazione per la Dottrina della fede. Storia e archivi dell’Inquisizione». Chi seguirà i lavori di quel convegno ne trarrà grande giovamento sotto il profilo scientifico; ma, se vi si recasse colto da pruriti voyeristici e sensazionalistici, ne resterebbe senz’altro annoiato e deluso. Dieci anni fa il cardinal Joseph Ratzinger, allora prefetto per la congregazione della Fede che ha ereditato e aggiornato le funzioni del Sant’Uffizio, stabilì di aprire gli archivi dell’Inquisizione romana agli studiosi. Fu una scelta di grande coraggio, di grande liberalità, di grande intelligenza. E, nella grande massa di documenti custoditi in quegli archivi preziosi, sono emersi e senza dubbio continueranno ad emergere quelli che parlano anche delle streghe, degli ebrei, dei convertiti dall’ebraismo e dall’islam al cristianesimo (o, al contrario, dei rinnegati) e così via. Naturalmente, il legame che collega tutti questi 'casi' era l’eresia: il Sant’Uffizio si occupava e si preoccupava di eretici, trattava dunque per esempio i casi di stregoneria solo se, quando e nella misura in cui essi potevano esser sospetti di aver a che fare con la propaganda ereticale. Ma i documenti dimostrano come il Sant’Uffizio procedesse sempre con grande cautela, con quel rispetto per l’imputato che i tempi consentivano, con costante moderazione. I casi di streghe condannate dai tribunali locali e assolte dal supremo tribunale romano , se non frequenti, non sono comunque eccezionali.
Rientravano in una prassi ispirata alla severa discrezione. Perfino il grande cardinal Borromeo, san Carlo, che in materia di streghe e di eretici non ci andava morbido, venne bloccato dalla congregazione romana. Né la Chiesa era insensibile di fronte al progresso della scienza.
Tutt’altro. Le nuove disposizioni da essa emanate nel 1620, che possono piacere o no (ad esempio divennero più restrittive in materia di aborti), furono comunque influenzate dalle teorie scientifiche del tempo.
Prosperi cita alcuni casi, tra i quali interessante quello della «strega» pisana del Seicento accusata e torturata dagli inquisitori della sua città e fatta poi liberare per esplicito intervento romano. Vi sarebbero altri casi ancora per ricordare al riguardo: famoso quello della «strega» Costanza da Libiano, luogo sito tra Firenze e Pisa, che venne inchiodata alle sue presunte responsabilità da un solerte giovane inquisitore francescano e liberata poi da un suo più anziano confratello, che dimostrò alla malcapitata la quale fra l’altro si era autodichiarata colpevole, che i rapporti sessuali con il demonio, puro spirito, sono semplicemente e pulitamente impossibili. Non diciamo che non vi furono pagine tristi e addirittura orribili; non è il caso di sostenere che furono sempre rose e fiori. Ma quel che è importante è rilevare la sostanziale, continua e attenta correttezza e un tribunale estremamente duro, che giudicava su materie difficili e delicate, ma che sapeva mantenere tuttavia in generale un equilibrio che altri tribunali, anche nella nostra felice modernità, non hanno mantenuto. D’altra parte, è noto che i tribunali inquisitoriali hanno fatto scuola delle varie «cacce alle streghe» del ventesimo secolo: ma purtroppo i giudici moderni hanno ben imparato la lezione della durezza, ma non altrettanto quella dell’equità. Resta comunque da tener presente che l’oggetto del Santo Ufizio era la ricerca dell’eresia: se si dimentica questo, incappare in caso di stregoneria può portare a giudizi facili e pittoreschi.
Naturalmente, la ricchezza di questi documenti è straordinaria. Essi costituiranno un campo di ricerca inesauribile non solo per gli storici, i giuristi e i teologi, ma anche per gli antropologi, per i sociologi, per gli studiosi del folclore e della vita quotidiana. Di questi tempi, quando anche il parere degli studiosi migliori rischia di continuo di venir stravolto e coinvolto nelle polemiche più ignobili e più becere, anche per parlare di ricerche scientifiche ci vuole coraggio civile. Chi volesse saperne di più, legga il Tribunali della coscienza di Prosperi (Einaudi 1996).
Sparta, niente eugenetica
Questa apertura di ottimismo giunge da una recente scoperta destinata a scardinare una diffusa credenza che ha attraversato la storiografia antica. Ci riferiamo ai risultati delle indagini archeologiche condotte alle pendici del monte Taigeto dal quale, secondo la tradizione, gli Spartani avrebbero buttato i neonati deformi e deboli. Il Taigeto è parte di una catena montagnosa che si erge nel Peloponneso e separa la Laconia dalla Messenia: Omero definisce «grandissima» questa catena, che gli autori più tardi indicavano, per la sua morfologia, «montagna dalle cinque dita». L’aura di mito che ha accompagnato per tanto tempo il rilievo è stata soprattutto sorretta dal suo ruolo «eugenetico», determinato da princìpi che sembrano barbari agli occhi dell’uomo occidentale contemporaneo. Oggi però, dopo cinque anni di studi, l’antropologo Theodoros Pitsios, dell’università di Atene, assicura che il vasto corpus di resti umani presenti al fondo del precipizio Apothetes, sui contrafforti del Taigeto, e corrispondente all’area che avrebbe dovuto accogliere le vittime, in realtà ha restituito ossa appartenenti ad individui con età compresa tra i 18 e i 35 anni, tutti di sesso maschile. Nel territorio circostante, per un largo raggio, non sono stati rinvenuti resti di neonato. Secondo il professor Pitsios, la leggenda sarebbe quindi totalmente infondata; a sorreggere questa tesi, costruita attraverso l’indagine sul campo, contribuisce anche la carenza di fonti storiche accreditabili. Infatti, le informazioni su questa pratica inumana giunte fino a noi sono rare, scarsamente dettagliate e soprattutto molto tarde. La notizia ha la sua importanza poiché smantella un aspetto della cultura egea che ne ha sempre profondamente marcato negativamente la memoria.
Inoltre, dimostra ulteriormente come le peculiarità di alcune popolazioni del passato siano di fatto frutto di un’enfatizzazione, in questo caso in negativo, dei cronisti. Il rapporto tra Sparta e l’eugenetica ha alimentato un dibattito storico che, ancora oggi, è al centro di discussioni dove spesso a prevalere sono soprattutto i presupposti ideologici. Resta un fatto fondante: il modello eugenetico, coniato da Francis Galton, cugino di Charles Darwin e indicante «la scienza del miglioramento del materiale umano», è rinvenibile in molte culture non solo del passato. In fondo anche alcune attuali ipotesi di «miglioramento», che si basano sulla manipolazione genetica, di fatto non sono altro che modernissime forme di principi eugenetici. Mentre, per quanto riguarda il Novecento, alcuni di questi principi sono documentati e innegabili, per il passato spesso le fonti non sono precise, in qualche caso condizionate da cronisti non sempre obiettivi. A farne le spese, ad esempio, oltre agli Spartani sono anche i Fenici, che per tanto tempo sono stati indicati come popolazione dedita a rituali violenti, basati sul sacrificio dei bambini. Infatti da secoli si sosteneva che i piccoli fossero sacrificati in onore di Molok, considerato una divinità malvagia, che aveva il suo luogo di celebrazione in aree chiamate tofet, dove effettivamente sono stati rinvenuti numerosi resti umani (infantili).
Però, la più recente indagine archeologica ha dimostrato che i tofet erano semplicemente dei luoghi di sepoltura riservati ai bambini. Insomma la scienza ci consente spesso di fare un po’ di chiarezza sui tanti luoghi comuni che contrassegnano molte popolazioni del passato. Genti le cui tradizioni sono state spesso oggetto di totale diffamazione da parte di storici intenzionati a macchiarne la memoria, per motivazioni quasi sempre ideologiche. Motivazioni che certamente non sono finite al tempo degli Spartani e dei Fenici …
I khmer rossi che Terzani non vide
Nel 1976 ho pubblicato 'Cambogia rivoluzione senza amore' dalla Sei, dopo che altre editrici cattoliche avevano rifiutato il volume «troppo anticomunista». Su 'L’Unità', Sarzi Amadè scrisse che ero «un missionario finanziato dalla Cia». Un mio dibattito sui profughi registrato alla Rai con Francesco Alberoni e Vittorio Citterich non venne poi trasmesso. È difficile oggi capire l’atmosfera di quel tempo! Ai crimini dei comunisti non solo non ci credevano, ma non si potevano nemmeno raccontare! Ma non si capisce nemmeno perchè un giornalista come Terzani, in Vietnam come in Cambogia, non ha mai dato la minima attenzione a quei missionari che si trovavano sul posto da una vita. Se si fosse degnato di prendere contatto con i missionari francesi del Mep, avrebbe incominciato a capire qualcosa di quel genocidio.
Dunque sfiora il ridicolo l’affermazione che Terzani «fu tra i primi a fornire qualche informazione sulla loro esistenza (dei Khmer rossi) ai giornali europei»!
Pagani e cristiani amici-nemici
Di Antonio Giuliano
Oltre a ribadire una volta di più la storicità di Gesù, simili testimonianze fanno luce sul rapporto tra Roma antica e il cristianesimo delle origini. Perché non si può capire fino in fondo la novità della rivoluzione di Cristo fuori dal contesto storico dell’epoca. Anzi, son proprio gli autori pagani del tempo a far emergere la differenza cristiana. È questa la convinzione che ha ispirato l’esemplare saggio di Robert Louis Wilken, professore di storia del cristianesimo all’Università della Virginia.
Lo studio delle fonti antiche non cristiane può rivelarsi sorprendente. Wilken focalizza l’esperienza dei primi cristiani con gli occhi dei loro oppositori: Plinio il Giovane, Galeno, Celso, Porfirio e Giuliano l’Apostata, vissuti a cavallo tra il II e il IV secolo. Sono cinque figure di rilievo del mondo romano che non risparmiarono accuse anche assai dure nei confronti del cristianesimo.
Eppure molti pagani non ignorarono affatto le Scritture ed ebbero subito la percezione di ciò che distingueva il 'movimento' di Cristo dalla religione tradizionale. In taluni casi i critici pagani contribuirono perfino alla formazione della teologia cristiana. Wilken cita a tal proposito Galeno, medico e filosofo, il quale sollevò per primo la discussione intorno a quella che sarebbe diventata una pietra miliare del pensiero cristiano: la creazione di Dio dal nulla.
Il primo autore romano a menzionare il movimento cristiano fu Plinio il Giovane, governatore della Bitinia (l’odierna Turchia), nel II secolo. Iniziò lui a bollare il cristianesimo come 'superstizione'. E più tardi il filosofo Celso scriverà che Gesù era un mago e uno stregone. Ma tutti i culti stranieri venivano etichettati come superstiziosi. Che poi la società romana fosse poco religiosa o immorale sembra solo uno stereotipo. In realtà la pietà dei romani si esprimeva in una religiosità civile, pubblica. Gli dei rientravano in molte manifestazioni sociali. Era pertanto ritenuto un affronto l’astensione dei cristiani dalle attività civiche, dal servizio militare o dai giochi, come gli spettacoli dei gladiatori o le gare atletiche, veri e propri avvenimenti religiosi. Ai critici pagani il cristianesimo appariva come una scuola filosofica, colpevole di allentare i legami tra la religione e il mondo politico. Se non proprio una setta pericolosa che reclutava i suoi seguaci negli strati più bassi della società. I discepoli di Gesù sembravano più interessati alla conversione degli individui, al loro cambiamento spirituale e morale. Ma tra intellettuali pagani e cristiani non ci furono solo ingiurie o invettive. Verso la fine del II secolo gli apologeti di Cristo cominciarono a controbattere. Origene rispose a Celso, Cirillo vescovo d’Alessandria replicò a Giuliano, Agostino a Porfirio. Nacque un dialogo autentico in cui si affermava l’originalità del cristianesimo: la fede in un Dio fatto uomo e la sua Chiesa, una comunità che andava oltre quella statale. Ma fu uno scambio di idee che non escludeva la ragione: «Gli insegnamenti della nostra fede – affermò Origene – sono in completo accordo con le nozioni universali».
Wilken sradica un luogo comune che dall’illuminismo in poi vede il cristianesimo in opposizione all’antichità classica e la fede sostituirsi alla ragione: «Uno degli aspetti per i quali i pagani provavano più fastidio – scrive invece lo storico americano – era il fatto che, per esporre il loro insegnamento, i pensatori cristiani avessero adottato le idee e i metodi del pensare greci». Porfirio disse che Origene «giocava a fare il greco» e Celso rimproverava i cristiani di far uso dell’allegoria, un prodotto della ragione greca. Ma anche Ambrogio, vescovo di Milano nel IV secolo, per comporre la sua opera sulla vita morale prenderà a modello il trattato di Cicerone sull’etica, dandogli lo stesso titolo: «Dei doveri». Così come Agostino si avvicinerà alla comprensione di Dio attraverso le letture neoplatoniche. «E se i pagani continuarono per tre secoli a comporre libri contro i cristiani – sostiene Wilken – è la prova che prendevano sul serio le idee dei pensatori cristiani». Perché in fondo avvertivano qualcosa di misterioso nei seguaci di Cristo che un testo anonimo del II secolo, la Lettera a Diogneto, descriveva così: «Vivono nella loro patria, ma come forestieri… Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo... Sono uccisi, e riprendono a vivere ... Sono poveri, e fanno ricchi molti... Sono ingiuriati e benedicono… E condannati gioiscono come se ricevessero la vita».
Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia. Pagine 270. Euro 27,90
Quando Praz ampliò la nozione di Romanticismo
Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Bur Rizzoli. Pagine 450. Euro 13,00
Con la 194 aborti ridotti? Magari fosse così
di Gian carlo Blangiardo
Eppure non è difficile rendersi conto che alla causa ipotizzata (la legge 194) non può essere ricondotto alcun effetto di riduzione delle Ivg, semplicemente perché rispetto agli anni in cui il ricorso all’aborto volontario era ai massimi livelli nulla è cambiato sul piano normativo. Sarebbe plausibile attribuire alla 194 il merito di aver ridotto gli aborti, solo se con il passare degli anni dalla sua entrata in vigore le si potesse accreditare una qualche azione di prevenzione. Ma chi si sentirebbe oggi di affermare onestamente che è proprio grazie alla legge 194 che si sono potute prevenire più di 100mila Ivg annue? Negli ultimi 30 anni, le donne hanno forse trovato attraverso la legge 194 la soluzione ai problemi di varia natura che suggerivano loro di interrompere una gravidanza? No di certo.
Così come non hanno trovato nell’applicazione della legge alcuna azione di disincentivo o di contrasto. È innegabile che l’offerta e il quadro entro cui avvalersi della 194 non si è affatto modificato nel tempo in senso restrittivo. Anzi, si potrebbe legittimamente affermare che una decisione che i primi anni scontava ancora qualche resistenza di ordine morale e culturale, a lungo andare viene ormai percepita, per quanto difficile e dolorosa, come 'normale'.
Soprattutto da parte di chi – si pensi alle meno che trentenni – ha sempre convissuto con l’attuale normativa. Non è dunque la «saggia e lungimirante» legge 194 che ha modificato la realtà delle statistiche sull’aborto volontario. Se una riduzione c’è stata e se è stata di quelle dimensioni – il dubbio è legittimo, posto che oggi è certamente più agevole «risolvere i problemi» con tecniche che sfuggono alla rilevazione statistica e quindi al relativo conteggio – il merito non va certo attribuito alla 194, che proprio sul piano della prevenzione ha dimostrato la sua assoluta inefficacia: è semplicemente la domanda di Ivg che, nonostante il crescente contributo delle donne straniere (comunque ancora relativamente modesto), si è ridotta.
Verosimilmente, a seguito di una contraccezione più diffusa, così come della comparsa di metodiche di intervento – si pensi alla pillola del giorno dopo – che non esistevano negli anni Ottanta e, in positivo, anche delle crescenti iniziative del volontariato pro-life che si è prodigato nell’aiutare a risolvere i problemi che inducono ad abortire. Smettiamola di credere, e di proclamare, che la legge 194 abbia meriti per gli oltre 100mila casi che mancano alla conta rispetto a trent’anni fa. Semmai, ricordiamoci delle sue responsabilità per i 140mila che ancora oggi avvengono.
La vita quotidiana ai tempi della rivolta ' 68
Di Gian Franco Venè
E Fanfani creò il «potere bianco»
Di Alberto Melloni
Meglio alla lingua o all’ombelico? Quanto si rischia con il piercing
40% Su 100 infezioni da piercing, questa la percentuale di quelle all’ombelico, zona ad alto rischio in quanto facilmente esposta al pericolo di macerazione
Su 100 casi di infezione, questa la quota che riguarda l’orecchio, ma la cifra alta si spiega soprattutto con il gran numero di persone che scelgono questo piercing. Le infezioni serie sono l’1%
Su 100 infezioni, 12 sono al naso; 5 al capezzolo; 8 riguardano insieme lingua, palpebre e genitali: qui i pochi casi di infezione si spiegano però con la rarità dei piercing in queste aree
Precauzioni: l’igiene da rispettare e verificare Per cautelarsi, chi intende sottoporsi a piercing dovrebbe innanzitutto badare all’igiene dei locali dove lavora l’operatore, tenendo presente che sala d’attesa, sede dell’intervento, zona di smaltimento rifiuti dovrebbero essere in tre aree separate. Alla larga da piercing nei seminterrrati e niente piercing con operatori «ambulanti». Chi esegue il piercing dovrebbe indossare guanti, ma anche mascherina e occhiali. Meglio ancora se utilizza un camice. Obbligatorio l’uso di materiale monuso per effettuare i trattamenti. Buon segno se, dopo aver chiarito caratteristiche e rischi del piercing, l’operatore vi sottopone un consenso informato da firmare. Una volta a casa, non trascurate l’igiene della zona trattata e evitate di grattarvi.
Paperone, un capitalista avido ma con sentimento
di Giulio Giorello
Se la maglia nera diventa laboratorio d'avanguardia
19 marzo 2008
Alle origini del fallimento
di Ernesto Galli Della Loggia
Tanti esempi di altruismo, nati sulla scia del dolore
di Ruggiero Corcella
Premi letterari, ecco le solite polemiche
di Maurizio Cucchi
Periodicamente si torna a parlare di premi letterari, con le inevitabili polemiche e le dichiarazioni di personale orrore, più o meno sincero, di molti scrittori e affini. Il clima, in genere, è quello della enfatizzazione di un fenomeno che in fin dei conti è più semplice e qualunquistico limitarsi a deprecare che cercare di sostenere o migliorare. Personalmente, mi è capitato e capita più volte di essere coinvolto, come concorrente o giurato, in premi di poesia o persino di narrativa, e devo dire che raramente mi sono davvero stupito di qualcosa. Semmai mi stupiscono quegli autori (tipo Sebastiano Vassalli) che dopo aver vinto un po’ dappertutto si dichiarano fieramente contrari alle gare letterarie e arrivano persino a far scrivere sui libri che non concorrono a premi.
La prima osservazione da fare, secondo me, è questa: i premi corrispondono, nei traffici che comportano e nell’incoerenza che sanno suscitare, a quella che è oggi la nostra società letteraria. Alcuni dei maggiori (in genere di narrativa) sono un fatto più mondano che culturale, poco o nulla utile alla vera letteratura, più vicini al festival di Sanremo, semmai, che a una normale e serena manifestazione legata al libro e alla letteratura (che sempre meno, del resto, vengono a coincidere). E siccome la confusione tra opere e semplici prodotti di mercato regna sempre più, la qualità degli esiti e dei premiati finisce con l’essere sempre più bassa.
In ogni caso i grossi premi (ma forse soltanto un paio, dopo tutto: Strega e Campiello) muovono grosse e comunque rilevanti vendite. Dunque perché stupirsi se gli editori cercano di accaparrarseli? Forse gli scrittori preferiscono il piccolo editore nascosto, rispetto a quello che più normalmente può dar loro visibilità e contratti interessanti?
I premi che hanno un’eco sono pressoché esclusivamente premi di narrativa, perché sempre di più, causa il mercato che impone ovunque le sue regole, si è creata una sorta di incongrua identificazione tra letteratura e narrativa. Il che respinge ai margini la saggistica, la critica letteraria e la poesia, pubblicate sempre di meno e conseguentemente lette sempre di meno. I premi di poesia, si obietterà, sono numerosissimi. È vero, e in genere costituiscono il solo o quasi il solo riconoscimento pubblico destinato al poeta, oltre che, come sappiamo, il solo riconoscimento economico, che potremmo più semplicemente considerare una modesta forma di indennizzo per un’attività artistica e letteraria che la nostra società riconosce, ma che non ritiene degna di reddito o sostegno di alcun genere. Va anche ricordato che esiste una rete fittissima di premi letterari sommersi, premi, cioè, del cosiddetto sottobosco, con giudici e concorrenti ignoti e domenicali, che distribuiscono denaro, spesso pubblico, e non semplici patacche come sarebbe meglio, a grotteschi personaggi, a sedicenti scrittori e poeti generalmente sprovveduti.
Mi rendo conto di aver riaperto la questione senza chiuderla in alcun modo. Una cosa, però, si può ragionevolmente affermare. Un premio si giudica dalla qualità dei suoi vincitori. Già, e come si giudica la qualità?, può obiettare qualcuno. Be’, amici: imparando a leggere …
«Avvenire» del 7 febbraio 2008
Care, lunghe e all’estero: le nuove gite scolastiche
Le proteste I genitori si lamentano per le cifre che sono costretti a pagare. E c’è chi deve rinunciare Di Annachiara Sacchi
Gli stage
Non solo musei, monumenti, panorami. L’ultima novità del turismo studentesco sono gli stage linguistici. Una o due settimane di studi all’estero (al posto delle regolari lezioni) per imparare inglese e francese. «Il fenomeno - racconta Giuseppe Amabile, direttore del tour operator International Know How - è esploso negli ultimi due anni. Una classe di Gela ha appena prenotato 15 giorni a New York». I prezzi: dai 500 ai 900 euro.
Costi e proteste
Già, i costi. La spesa media per una gita è intorno ai 267 euro per studente (192 per i viaggi in Italia, 332 per quelli all’estero). Ma si può arrivare a 600-700 euro. Anche i ragazzi delle medie (in alcuni casi perfino delle elementari) hanno iniziato a viaggiare. Settimana bianca, scuola natura, cinque giorni a Roma. «Così non ce la facciamo», sospirano mamme e papà. Il dilemma: dire no ai propri figli (rischiando di creare drammi in famiglia e in classe) o non arrivare alla fine del mese? Maria Grazia Colombo, presidente dell’Agesc, l’associazione che riunisce i genitori delle scuole cattoliche, commenta: «La gita deve essere accessibile a tutti. Se diventa motivo di discriminazioni perde la sua missione educativa». È d’accordo Davide Guarneri, presidente dell’Age, Associazione italiana genitori: «I costi sono fonte di continue lamentele da parte dei nostri associati. Hanno ragione: il viaggio di istruzione ha senso solo se necessario. Non è obbligatorio farlo tutti gli anni». Presidi e low cost «Non oltre i 400 euro per studente». Ecco il tetto massimo di spesa stabilito al liceo classico Tito Livio di Padova. «E solo all’ultimo anno», aggiunge la dirigente, Daria Zangirolami. Per tutti le altre classi bastano 200-300 euro. «Ma rimangono spese considerevoli, ce ne rendiamo conto». Qualche scuola ha deciso di usare i voli low cost, sperando di risparmiare. «Niente di più sbagliato», spiega Innocente Pessina, a capo del Berchet di Milano (dove i ragazzi di una terza spenderanno 610 euro l’uno per 5 giorni a Belfast). Il motivo è semplice: «L’agenzia fa un preventivo, noi accettiamo, e al momento del saldo c’è la sorpresa: il prezzo dell’aereo è aumentato». Il consiglio dei presidi: chiedere il preventivo ad almeno tre agenzie e limitarsi a pagare un anticipo. «Si salda al rientro».
Responsabilità e rischi
Gita a Venezia. Sul ponte di Rialto la ragazza si accascia. Riesce solo a dire: «Prof, ho fatto una ca..ata. Mi sono fatta una canna». Poveri docenti. Costretti a rimanere svegli per intere nottate, a inseguire i ragazzi per le strade di mezza Europa, ad assumersi tutte le responsabilità se succede qualcosa. Sono sempre meno gli insegnanti che accettano di accompagnare i minorenni (che siano delle medie o delle superiori). La lettera di un prof: «Il nostro preside ci ha fatto firmare un documento in cui ci avvisa che la nostra responsabilità sugli alunni è estesa 24 ore su 24. Questo ha portato sgomento e preoccupazione». Troppi rischi. «I docenti vanno capiti - osserva Guarneri dell’Age - ma qualcosa si può fare. Consegnare la mappa della città a tutti i ragazzi, preparare cartellini di riconoscimento per i più piccoli, distribuire l’elenco con i numeri di telefono. Pochi accorgimenti da preparare durante l’anno». Il Touring Club ha un’altra idea: creare, in collaborazione con il ministero dell’Istruzione, un «manuale del viaggio di istruzione». «Se il prof conosce le regole del gioco - conclude Ruozi - diventa tutto più facile. La gita non si improvvisa».
«Basta con le notti da incubo»
Di Giulio Benedetti
Benigni: "Io, Dante e Gesù Cristo"
di Maurizio Caverzan
Domani sera lo vedremo ancora su Raiuno con il XXVI dell’Inferno e poi mercoledì, in prima serata con il XXXIII, il canto del Conte Ugolino. Pura follia per la nostra tv. Se un marziano precipitasse in Italia e guardasse i quiz, i reality e i giochini, imbattendosi nel Benigni dantesco intriso di poesia, amore e spiritualità, troverebbe in lui un compagno. Il Benigni che disvela e declama la condanna dei lussuriosi Paolo e Francesca «galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse», dell’eretico Farinata degli Uberti che «el s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto», del Conte Ugolino, traditor della sua Pisa che «la bocca sollevò dal fiero pasto», è un marziano di questa tv, un alieno, un extraterrestre non solo per l’ardire del cimento - la Divina commedia - o per il contesto che ha scelto - la volgarissima televisione - ma anche per il senso dell’avvenimento contenuto in ciò che fa e dice lo stesso Benigni.
Per esempio: questa intervista - niente politica è la condizione posta - avrebbe dovuto svolgersi via e-mail, ma poi lui ha preferito che ci parlassimo «perché spero che la voce, il tono, il suono della parola, trasmettano qualcosa di più di un testo scritto, magari preciso preciso, ma alla fine statico».
È così il nuovo Benigni: quando si muove fa succedere qualcosa e lui stesso desidera che succeda. Perché, prima di tutto, dev’essere successo qualcosa in lui, se è vero che da qualche tempo si mostra più sensibile, più attento ai temi della spiritualità e del cristianesimo. Niente di nuovissimo se ci si pensa. Però, fin dai tempi dell’ultimo del Paradiso - «Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile alta e più che creatura» - recitato al Festival di Sanremo, correva il 2002, qualcosa dev’essere pur accaduto...
«Quella - mi travolge, subito torrenziale - è stata la cosa più vertiginosa, più folle: Dante al Festival di Sanremo. È il luogo che lo trasforma, lo fa esplodere. Dante scoppia in un posto così, che sembra il suo contrario. C’avevo una paura... Ma quando ho paura di una situazione, mi vien voglia di buttarmi, di andarci dentro. Come quando ho fatto La vita è bella, o il film sulla mafia, o sull’organo sessuale femminile. Andare a cercare il rischio, i posti sconosciuti, le zone pericolose è la missione dei comici».
Gli specialisti storcono il naso per l’esegesi linguistica di Benigni. Non è rigorosa, non è ortodossa, dicono. «Ci sono tanti modi di leggere Dante. C’è quello adolescenziale, dell’immedesimazione. C’è quello giovanile, della ricerca dei messaggi, quando ognuno di noi vuol trovare la via per diventare adulto. A me la Commedia è entrata dentro fin da ragazzo. Prima la leggevo come se stessi andando in farmacia, mi curava da tutti i mali. Poi ho imparato ad ascoltarla con innocenza, che per me è il modo giusto, quando la ascoltavo dai contadini, dai vecchi di casa mia. E ho scoperto che Dante ti fa sentire che ci sei solo tu, ti spiega tutti i dettagli, come in una confidenza personale. Quando mi chiedono se è ancora moderno è come se mi chiedessero se è moderno il sole, l’acqua. Io voglio solo trasmettere il fatto che mi piace, che mi dà gioia».
Trasmette anche una densità spirituale inaspettata... «Dante ci fa entrare in quello che solo l’intelligenza è in grado di cercare ma, da sola, non è capace di trovare. La sua forza è essere profondamente laico. Non ha atteggiamenti pappalardeschi, come direbbe lui, da falsi devoti. È religioso senza essere mai pretesco, bigotto. Non si rivolge a Dio, alla Madonna, ai santi. Si rivolge alle Muse, ad Apollo. Il suo universo è la poesia. Si può leggere la Divina commedia senza credere in Dio, ma non senza conoscere il cristianesimo. A parte che tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo... La poesia ci aiuta a compiere un’esperienza irripetibile di libertà, è finzione e ritmo, ma ci aiuta a intraprendere un grande viaggio alla ricerca di uno sguardo. Quello sguardo che solo le donne posseggono e che ci introduce nel punto più segreto del mondo».
Nelle lectio Dantis Benigni passa spesso dalla Commedia al Vangelo, si sofferma a spiegare le parabole, mostra di subire il fascino della persona di Gesù Cristo... «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Si legge il Vangelo e ci si chiede “chi è questo qui?”. Io lo leggo per piacere - leggo anche altri libri della Bibbia come quello della Sapienza - ma resto sconquassato dal Vangelo, basta un rigo delle parabole. Ha una forza spettacolare, viene da alzarsi in piedi sulla sedia... C’è dentro una violenza che ti mette le ali. Una forza che ti scarabocchia tutta la vita. Perché ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro te stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé. Per me è una cosa sconcertante» si entusiasma Benigni. Che poi frena, come pensando ad alta voce: «... anche se non sono sempre della mia opinione... Lo dico per sdrammatizzare, per relativizzare, per prenderla leggera».
Sarà, Benigni, ma lei oggi sembra un altro... A differenza di altri artisti in voga, ha una posizione più costruttiva... «Come diceva Vauvenargues, in realtà sono poche le cose che ci consolano perché sono poche quelle che ci affliggono. Io faccio il comico e anche i comici cambiano. Le cose comiche, le sciocchezze, sono sublimi. La felicità non sta nell’assenza dei contrasti, ma nell’armonia dei contrasti. È questa armonia a essere costruttiva. Se uno vedesse quello che ero vent’anni fa non mi riconoscerebbe. Certi uomini sono come le montagne: più si innalzano e più diventano freddi. Io dico grazie a Dio perché ci sono i comici che ci ricordano sempre che siamo piccoli».
Ha usato la parola delle parole, Benigni. Felicità. Ma quando gli chiedo che cos’è per lui, si ritrae. «Non glielo direi mai. I comici hanno sempre un volto triste. Ma, come diceva Stanislavskij, per trasmettere felicità bisogna essere felicità. Che cos’è per me non glielo dirò mai. Al massimo - rilancia - se un giorno ci incontriamo, posso farglielo vedere».
Già, della felicità non si parla. Semmai, s’incontra.