Al di là del giudizio sui dati di Reporters sans frontières, resta il fatto che in Italia c’è un eccesso di minacce e pressioni contro i giornalisti. Sarebbero necessari alcuni emendamenti al testo in discussione alla Camera
di Caterina Malavenda *
Caro direttore, nell’ultimo anno, l’Italia è scivolata dal 49°al 73° posto nella graduatoria sulla libertà di stampa in 180 Paesi, stilata da Reporters sans frontières e, quale che sia l’opinione sulla sua attendibilità, non è comunque una bella notizia. Fa, però, ancora meno piacere sapere che tale regressione viene attribuita in parte alle minacce nei confronti dei giornalisti, provenienti il più delle volte dalla criminalità organizzata e seguite spesso da aggressioni fisiche o da incendi dolosi; ed in parte al numero elevato di processi per diffamazione ingiustificati, che possono dissuadere dal diffondere notizie vere, ma scomode, anche senza il ricorso ad amputazioni o censure. Duole dire che i giornalisti sarebbero meno esposti alle minacce se l’opinione pubblica li avvertisse davvero come un tassello indispensabile di una democrazia matura e non li considerasse, come sovente accade, una presenza scontata, a volte inutile e persino fastidiosa; e se cortei e manifestazioni di solidarietà venissero organizzati ogni volta che serve e non solo quando accade l’irreparabile.
Certo, contro le minacce si può fare poco: protezioni, scorte e buoni consigli fanno perdere al giornalista la libertà di muoversi, incontrare fonti, trovare notizie; sicché una minaccia seria e attendibile finisce per risultare il miglior modo di toglierlo di mezzo, se davvero dà fastidio.
Molto di più si potrebbe fare per eliminare, invece, il secondo fattore che limita la libertà di informazione, in modo per fortuna meno cruento ma assai più diffuso e capillare: la lite temeraria e la querela pretestuosa.
Purtroppo, non sembra essere questa la priorità, con buona pace di graduatorie e declassamenti. Da anni il Parlamento tenta di eliminare il carcere per i giornalisti imputati di diffamazione, e non ci è ancora riuscito non certo per scarsa volontà politica.
L’ostacolo maggiore è stato, infatti, la forte opposizione di coloro che dovrebbero beneficiare di questa decisione e che non sono disposti ad accettare le altre novità che con la legge, ora in seconda lettura alla Camera, si pretende di introdurre.
Sembra incredibile, ma non è masochismo: perché, diciamolo, in Italia nessun giornalista è mai andato in prigione per diffamazione; mentre è una prospettiva assai poco allettante quella di dover pubblicare una rettifica senza replica, anche quando sarebbe indispensabile, o di cancellare dall’archivio interi articoli, a semplice richiesta del potente di turno che vuole rifarsi l’immagine.
Ed è proprio così che si dovrebbe fare, se la legge venisse approvata così com’è.
Sebbene il rapporto di Reporters sans frontières consiglierebbe di ripensarci, e nonostante si stia lavorando proprio sulla diffamazione e siano anche stati presentati emendamenti che vanno in tal senso, pare che nessuna modifica sarà introdotta per rendere almeno poco remunerativo agire senza ragione, anche nei confronti dei giornalisti (ma non solo).
Per un professionista a tutela decrescente, qual è oggi il giornalista - spesso un freelance pagato a pezzo, con pochi euro - è affrontare un processo il vero incubo, non certo la remota prospettiva di passare qualche giorno in cella.
Subire una causa, sia essa civile o penale, comporta infatti spese e preoccupazioni, ma subirla ingiustamente è insopportabile, specie se la prospettiva è quella di non recuperare comunque un euro di quel che si è speso e di rischiare che intanto l’editore si rivolga ad altri.
Eppure, basterebbe intervenire sulle norme che oggi non prevedono alcuna reale conseguenza per chi, senza averne motivo, fa causa - il che spiega anche il proliferare di iniziative infondate nei confronti dei giornalisti a mero scopo dissuasivo.
Basterebbe, ad esempio, imporre al querelante che perde di pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna al risarcimento, in sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o, peggio, con dolo; porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di recuperare. Pochi e calibrati interventi su norme già esistenti, dunque: e l’effetto deflattivo, anche quando la «vittima» è un giornalista, sarebbe immediato.
I deputati, però, sono ostili a introdurre qualunque emendamento per evitare che la legge debba tornare al Senato e lì possa subire ulteriori modifiche o addirittura arenarsi.
Ci ripensino, perché questa sarebbe una buona occasione, forse l’ultima, per risalire in una classifica nella quale dovremmo primeggiare e che, invece, oggi ci umilia.
* Avvocato, esperto in Diritto dell’informazione
Certo, contro le minacce si può fare poco: protezioni, scorte e buoni consigli fanno perdere al giornalista la libertà di muoversi, incontrare fonti, trovare notizie; sicché una minaccia seria e attendibile finisce per risultare il miglior modo di toglierlo di mezzo, se davvero dà fastidio.
Molto di più si potrebbe fare per eliminare, invece, il secondo fattore che limita la libertà di informazione, in modo per fortuna meno cruento ma assai più diffuso e capillare: la lite temeraria e la querela pretestuosa.
Purtroppo, non sembra essere questa la priorità, con buona pace di graduatorie e declassamenti. Da anni il Parlamento tenta di eliminare il carcere per i giornalisti imputati di diffamazione, e non ci è ancora riuscito non certo per scarsa volontà politica.
L’ostacolo maggiore è stato, infatti, la forte opposizione di coloro che dovrebbero beneficiare di questa decisione e che non sono disposti ad accettare le altre novità che con la legge, ora in seconda lettura alla Camera, si pretende di introdurre.
Sembra incredibile, ma non è masochismo: perché, diciamolo, in Italia nessun giornalista è mai andato in prigione per diffamazione; mentre è una prospettiva assai poco allettante quella di dover pubblicare una rettifica senza replica, anche quando sarebbe indispensabile, o di cancellare dall’archivio interi articoli, a semplice richiesta del potente di turno che vuole rifarsi l’immagine.
Ed è proprio così che si dovrebbe fare, se la legge venisse approvata così com’è.
Sebbene il rapporto di Reporters sans frontières consiglierebbe di ripensarci, e nonostante si stia lavorando proprio sulla diffamazione e siano anche stati presentati emendamenti che vanno in tal senso, pare che nessuna modifica sarà introdotta per rendere almeno poco remunerativo agire senza ragione, anche nei confronti dei giornalisti (ma non solo).
Per un professionista a tutela decrescente, qual è oggi il giornalista - spesso un freelance pagato a pezzo, con pochi euro - è affrontare un processo il vero incubo, non certo la remota prospettiva di passare qualche giorno in cella.
Subire una causa, sia essa civile o penale, comporta infatti spese e preoccupazioni, ma subirla ingiustamente è insopportabile, specie se la prospettiva è quella di non recuperare comunque un euro di quel che si è speso e di rischiare che intanto l’editore si rivolga ad altri.
Eppure, basterebbe intervenire sulle norme che oggi non prevedono alcuna reale conseguenza per chi, senza averne motivo, fa causa - il che spiega anche il proliferare di iniziative infondate nei confronti dei giornalisti a mero scopo dissuasivo.
Basterebbe, ad esempio, imporre al querelante che perde di pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna al risarcimento, in sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o, peggio, con dolo; porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di recuperare. Pochi e calibrati interventi su norme già esistenti, dunque: e l’effetto deflattivo, anche quando la «vittima» è un giornalista, sarebbe immediato.
I deputati, però, sono ostili a introdurre qualunque emendamento per evitare che la legge debba tornare al Senato e lì possa subire ulteriori modifiche o addirittura arenarsi.
Ci ripensino, perché questa sarebbe una buona occasione, forse l’ultima, per risalire in una classifica nella quale dovremmo primeggiare e che, invece, oggi ci umilia.
* Avvocato, esperto in Diritto dell’informazione
«Corriere della sera» del 17 febbraio 2015