L'organismo internazionale responsabile degli standard tecnici della Rete (IETF) ha da poco approvato un nuovo codice di stato del protocollo HTTP. Il neo arrivato, omaggio allo scrittore Ray Bradbury, dovrebbe far capolino sui nostri monitor ogni volta che la pagina richiesta è bloccata per "ragioni legali"
di Rosita Rijtano
451 sono i gradi Fahrenheit a cui brucia la carta, secondo l'immaginifica fantasia dello scrittore Ray Bradbury, che nel suo romanzo (dal quale François Truffaut trasse il film "Fahrenheit 451") tratteggia una società distopica dove è vietato leggere e avere dei libri. E 451 sarà anche il numero dell'errore che presto potremo vedere sugli schermi dei pc quando ci sarà negato l'accesso a una pagina web censurata. Perché l'Internet Engineering Task Force (IETF), cioè l'organismo internazionale responsabile degli standard tecnici della Rete, ha da poco approvato un nuovo codice di stato del protocollo HTTP. Tradotto per i meno tecnologici: in pratica, si tratta di quei messaggi che servono per comunicarci le informazioni riguardanti il trasferimento dei dati tra il nostro computer personale e il server web che ospita il sito su cui vogliamo navigare. E che per convenzione vengono condivisi dalla comunità hi-tech. Quelli con un numero compreso tra il 400 e il 599 segnalano: attenzione, qualcosa non funziona.
Si va dal famoso e fin troppo comune 404, seguito dal perentorio "not found" che sta a indicare una risorsa non disponibile, all'autorizzazione negata del 401, passando per il 500, errore interno del server, e il 504: il gateway timeout, che generalmente si verifica a causa di una grande mole di lavoro. L'elenco dei "crac" è lungo. E si è appena arricchito grazie all'aggiunta di un nuovo elemento. L'errore 451, appunto. Il neo arrivato dovrebbe far capolino sui nostri monitor ogni volta che la pagina richiesta viene bloccata per via di "ragioni legali", come la censura governativa. E configurarsi, quindi, al pari di un'etichetta ad hoc per denunciare il sempre più pervasivo controllo statale sul web. Uno strumento tutt'altro che inutile. La cui gestazione, però, ha avuto tempi lunghi. Infatti, la sua introduzione è stata proposta per la prima volta già nel lontano 2013, proprio per omaggiare lo scrittore dell'Illinois morto quell'anno. Autore dell'input? Tim Bray, un ingegnere di Google, che aveva a sua volta ripreso un'osservazione di Terence Eden. I fatti: dopo il blocco per violazione di copyright di Pirate Bay da parte delle autorità britanniche, sugli schermi di chi abitava in Inghilterra e voleva visualizzare la pagina compariva il messaggio "403" che significa "il server ha capito la richiesta, ma si rifiuta di soddisfarla". Tuttavia, notava Eden, non era il sito di file sharing a impedire l'accesso agli internauti inglesi. Bensì il governo del Regno Unito. Da qui l'invocata necessità di una maggiore accuratezza."Non potremo mai disfarci del tutto delle restrizioni legali sulla libertà di parola. D'altra parte, credo che quando tali divieti sono imposti, ciò deve avvenire in modo trasparente", spiegava Bray in un'intervista al Guardian.
Ma la sua idea non è stata accolta dal gruppo di tecnici e ricercatori dell'IETF. Fino ad oggi. Le ragioni del cambio di posizione le scrive Mark Nottingham, presidente dell'IETF HTTP Working Group: "Da quando il controllo su Internet è diventato più visibile e prevalente, ci è giunta voce che i responsabili dei siti avrebbero gradito l'opportunità di fare questa distinzione. Ancora più importante: i membri della comunità volevano avere la capacità di scoprire i casi di censura in modo automatico". Non si tratta di un'esigenza di poco conto se si pensa che, secondo il report stilato dall'organizzazione non governativa Freedom House, nel 2015 la libertà online è diminuita in tutto il mondo per il quinto anno consecutivo. Sui 65 governi presi in esame sono stati ben 42 quelli che hanno chiesto alle compagnie private o agli utenti internet di limitare, o cancellare, i contenuti sul web per ragioni politiche, religiose e sociali. Contro i 37 dell'anno precedente. Si è alzato anche il livello di sorveglianza e in molti hanno provato a limitare o proibire strumenti che proteggono la privacy, ad esempio la crittografia. Il declino maggiore? In Francia, dove dopo la strage di Charlie Hebdo è stata adottata una legge liberticida, paragonata al Patrioct Act statunitense post 11 settembre 2001. Così, commenta Stefano Zanero, professore associato al Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, l'approvazione del 451 a mo' di standard diventa "un modo elegante di protestare ed esprimere preoccupazione per questa deriva". Oltreché uno strumento di precisione.
Certo, come ci spiega Salvatore Previti (analista programmatore senior), "il fatto che un codice esista non significa che verrà usato. In teoria, potrei programmare il mio server web per ritornare qualsiasi codice io voglia. È solo una convenzione". Un esempio noto e divertente è l'Hyper Text Coffee Pot Control Protocol (HTCPCP): un protocollo di rete per il controllo, il monitoraggio e la diagnostica delle caffettiere, pubblicato per il pesce d'aprile del 1998. Con tanto di errore 418 (usato da Google per i suoi scherzetti) che avverte "il server" a cui vogliamo collegarci "è una teira e non è in grado di preparare il caffè". In questo caso la faccenda è più seria. "Sospetto che in alcune giurisdizioni, i governi disabiliteranno l'uso del 451 per nascondere ciò che stanno facendo. Non possiamo fermarlo", ammette lo stesso Nottingham. Ma non lascia spazio al cinismo: "Se lo fanno, mandano un forte segnale a te, in qualità di cittadino, su quale sia il loro intento. E penso valga la pena saperlo".
«La Repubblica» del 1 gennaio 2016