30 dicembre 2019

2020: andante con moto

di Alessandro D’Avenia
Sul finire del 1808 a Vienna è caduta così tanta neve che, alla sera del 22 dicembre, la città sembra scomparsa in un silenzio che costringe a prepararsi a ciò che sta per accadere. Nel Theater an der Wien si gela, ma al concerto natalizio non è rimasto un posto libero. Al pianoforte siede il maestro in persona: Ludwig van Beethoven. Benché abbia solo 38 anni sarà l’ultima esibizione pubblica: la sordità che lo ha colpito dieci anni prima peggiora rapidamente. Vuole suonare da solista il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore perché la posta in gioco è la sopravvivenza. Infatti è proprio in queste note che ha nascosto il suo doloroso segreto, soprattutto nel secondo movimento: andante con moto. Il brano è ispirato — dicono gli studiosi — al mito di Euridice: un dialogo tra Orfeo, il pianoforte, e gli dei inferi, l’orchestra, per ottenere la restituzione dell’amata moglie, morta a causa del morso di un serpente proprio durante la festa di nozze. Il movimento comincia con le battute fatali dell’orchestra, che però, nota dopo nota, si lascia conquistare dalla penetrante malinconia del solista fino a sposarne, inaspettatamente in questa forma musicale, il tema: la morte si rivela più debole dell’amore. Beethoven mette in musica la ferita sempre aperta tra la promessa di felicità a cui ci sentiamo chiamati e la sua inesorabile delusione, trasforma in note il nostro desiderio più profondo: chi e cosa amiamo non deve finire.
Le note del pianoforte modulano il canto delle cose (che non dovrebbero mai andar) perdute: una madre, un padre, un fratello, una sorella, un marito, una moglie, un figlio, una figlia, un amico, un’amica, l’infanzia, la giovinezza, l’amore, i sogni, la gioia, la bellezza, l’intelligenza, la memoria, l’anima, il corpo... Orfeo canta la promessa di felicità della vita e la sua fine improvvisa e inaccettabile, per questo è sceso nel labirinto della morte: per riavere la moglie amata a qualsiasi costo. Come si può far risorgere ciò che è morto, far rinascere ciò che è senza vita? Beethoven cerca la risposta sui suoi 88 tasti: alla fine del movimento la preghiera di Orfeo piega il granitico e funesto no dell’orchestra, Euridice viene restituita al suo amato. Ma mentre nel mito, Orfeo, volgendosi indietro, la perderà nel viaggio di risalita, Beethoven inventa un altro finale: salvifico. Il Concerto n.4 si risolve infatti in un gioioso terzo movimento, un rondò vivace con cui il maestro ci porta dentro la festa della vita che non finisce, proprio lui che sta diventando sordo, all’insaputa della folla estasiata mentre lo ascolta. Non sta solo suonando un pezzo geniale, sta affrontando una cruenta battaglia che solo lui conosce e può combattere: riscrivere il destino crudele della sordità, trasformare il dolore in bellezza, convertire la morte in vita nuova. E proprio così si salvò.
Solo pochi anni prima di quella serata, infatti, la disperazione lo aveva portato vicino al suicidio, come aveva scritto nella famosa lettera-testamento ai fratelli: «Non mi era ancora possibile dire: “Parlate più forte, gridate, perché io sono sordo!”. Ah, come mi sarebbe possibile rivelare proprio la debolezza di un senso che io dovrei possedere più perfetto di ogni altro, un senso che in passato ebbe una perfezione che certamente poche persone del mio mestiere hanno mai avuto? Tali esperienze mi condussero quasi alla disperazione. Poco mancò che io mettessi fine alla mia vita. Solo l’arte mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile dover lasciare il mondo prima di aver compiuto tutto quello per cui sentivo di essere stato creato». Il maestro si salva perché sa di avere un compito irrinunciabile: si aggrappa al piano fino alla fine dei suoi giorni, a 57 anni, del tutto sordo negli ultimi dieci, e non smette di comporre, con gambe e orecchio attaccati allo strumento per sentirne almeno le vibrazioni, opere che aprono alla musica del futuro. Quello per cui sa «di essere stato creato», fare bellezza, è vita anche se lui non può goderne. In questo 2019 al tramonto, trovate mezz’ora di silenzio — se ne esiste ancora uno così lungo — per ascoltare il Concerto n. 4 e in particolare i cinque minuti del secondo movimento nell’interpretazione al piano di Pollini o di Barenboim. Mentre lo fate, sostituite il solito «anno nuovo, vita nuova» con un beethoveniano «anno nuovo, bellezza nuova», quella che possiamo fare sempre, seppur minima, lì dove e come siamo, anche se abbiamo perso pezzi di vita o ci siamo persi nella vita. «Nel campo che mi è stato designato voglio distribuire ai miei fratelli i doni che ho ricevuto da Dio. Senza egoismo»: queste parole, che il maestro lesse più volte, annotò e sottolineò in uno dei suoi libri preferiti (Osservazioni sulle opere di Dio di C. C. Sturm), voglio siano d’augurio a ciascuno di voi, cari lettori, per il 2020.
«Corriere della sera» del 30 dicembre 2019

26 dicembre 2019

Veder le stelle con gli occhi di Dante

Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press). In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello… per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein – e Dante – predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice (Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica… l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza (Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ». Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli. Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà – misteriosa, umana e materiale – con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
«Avvenire» del 18 dicembre 2019

07 dicembre 2019

A volte per leggere basta guardare le figure

Da Dante rivisto da un maestro dei manga a nuove edizioni di Alice e Pinocchio: illustrare un testo si conferma prima di tutto opera di interpretazione, persino indelebile
di Alessandro Zaccuri
Primo Levi faceva risalire la sua avversione nei confronti dei ragni al ricordo infantile di una delle celebri incisioni dantesche di Gustave Doré, quella in cui, nel XII canto del Purgatorio, il poeta contempla un ritratto di Aracne. «La fanciulla che aveva osato sfidare Minerva nell’arte del tessere – si legge nell’Altrui mestiere – è punita con una trasfigurazione immonda: nel disegno è “già mezza ragna”, ed è genialmente rappresentata stravolta», con il petto al posto della schiena e le zampe che le spuntano dal corpo. Si tratta della stessa immagine riprodotta per ben due volte, prima nell’insieme e poi nel dettaglio, all’interno della rivisitazione della Divina Commedia effettuata dall’artista giapponese Go Nagai e ora pubblicata in un unico, imponente volume da J-Pop (a cura di Matteo de Marzo, traduzione di Giovanni Lapis, pagine 776, euro 29,90).
Parlare di un Dante in versione manga sarebbe davvero riduttivo, perché il lavoro di Go Nagai – uno degli inventori dei super robot che tanto hanno contribuito al diffondersi dell’immaginario nipponico nel mondo – si basa su uno studio meticoloso del repertorio di Doré e adotta di volta in volta la soluzione del calco oppure della reinvenzione. Certo, qui Beatrice ha il volto di tante eroine già viste negli anime e questo Virgilio venuto da Oriente tende ad assumere un atteggiamento molto più enfatico ed esclamativo di quanto si sia normalmente portati a immaginare. Dante non c’è tutto (l’Inferno occupa più della metà dello spazio, con una conseguente riduzione del Purgatorio e più ancora del Paradiso), ma in compenso c’è quasi tutto Doré. Ed è su questo aspetto che è bene fermarsi a riflettere. In un fondamentale saggio degli anni Settanta (Guardare le figure, riproposto nel 2011 da Carocci) Antonio Faeti sosteneva una tesi che ancora fatica a trovare consenso.
Lungi dallo svolgere una funziona meramente ornamentale, in un’opera narrativa le illustrazioni consentono un percorso di lettura che si svolge in collaborazione, e non in conflitto, con il testo. Non per niente, Alessandro Manzoni aveva voluto supervisionare in modo tanto scrupoloso le tavole commissionate a Francesco Gonin per I Promessi Sposi del 1840, promuovendo così una sostanziale continuità fra parola letteraria e segno grafico. Quello che Manzoni aveva già intuito, insomma, è che le “figure” non soltanto integrano il racconto, ma ne costituiscono una prima e spesso indelebile forma di interpretazione. Il Dante di Go Nagai non sarebbe probabilmente piaciuto a Levi, ma in qualche maniera anche due letture tanto discordanti sono però accomunate dal fatto di discendere dall’universo visionario di Doré, che della Commedia è stato interprete non meno che illustratore. Molte delle novità uscite in queste settimane forniscono interessanti occasioni di verifica.
Prendiamo il caso di Pinocchio, classico senza tempo che si appresta a rivendicare un’ulteriore attualità grazie all’ormai imminente film diretto da Matteo Garrone. I libri da tenere letteralmente d’occhio sono almeno due. Il primo porta il marchio Scholé (pagine 288, euro 19,50), si apre con un’introduzione di Giuseppe Lupo e riproduce le immagini che l’indimenticabile Jacovitti realizzò per Le avventure di Pinocchio pubblicate da La Scuola nel 1945. Anche se mancano i proverbiali salami, il tratto del grande disegnatore è già riconoscibile, in un delicato equilibrio tra fedeltà al dettato di Collodi e l’apporto personale di una sorridente ironia destinata a imporsi con maggior evidenza nelle successive versioni del Pinocchio di Jacovitti, quella a fumetti apparsa sul Vittorioso nel 1946 e, infine, quella edita nel 1964 da Ave e ripresa di recente da Stampa Alternativa. Più complesso il caso del Pinocchio curato dall’italianista Salvatore Ferlita per il Palindromo (pagine 152, euro 15,00), dove la riscoperta del testo «rimosso» del 1881, corrispondente ai primi quindici capitoli del libro che conosciamo, è accompagnata dalle illustrazioni originali e adeguatamente cupe di un giovane pittore siciliano, Simone Stuto.
Più che un burattino, il protagonista di questa Storia di un burattino è una creatura da romanzo gotico, non dissimile dal mostro di Frankenstein, precocemente imbruttita e segnata della sofferenza. Nelle intenzioni di Collodi la vicenda doveva concludersi con l’impiccagione di Pinocchio, che muore pronunciando quell’esclamazione, «Oh babbo mio! se tu fossi qui!», che per Ferlita costituisce un non inconsapevole richiamo alle ultime parole di Cristo sulla croce. Non sempre il legame tra illustrazione e interpretazione risulta così stretto, ma non per questo i risultati sono meno significativi.
Ecco allora che i preziosi disegni di Mauro Evangelista per la nuova edizione di Il principe felice e altre storie di Oscar Wilde che Bompiani affida a una piccola schiera di traduttori (pagine 252, euro 16,00) riescono a istituire una distanza suggestiva rispetto all’immaginazione dello scrittore irlandese. A maggior ragione, chiedono di essere valorizzate per la loro funzione critica, nella chiave di un’anticipazione delle istanze surrealista, le tavole che Salvador Dalí eseguì nel 1969 per il capolavoro di Lewis Carroll e che adesso vengono offerte al lettore italiano nell’edizione di Alice nel paese delle meraviglie allestita da Franco Lonati per la collana “Parola dell’Arte” di Morcelliana (pagine 138, euro 16,00). Un contributo di particolare rilevanza, questo di Dalí, perché riesce a mettere in questione e talvolta perfino a ribaltare l’impianto visivo di cui il libro tradizionalmente si avvale dal lontano 1865, quando il pittore londinese John Tenniel divenne il Doré, o magari il Gonin, di Carroll. Le illustrazioni possono riscrivere un racconto in molte maniere, ciascuna delle quali ha una sua legittimità. C’è la via, oggi molto seguita, della graphic novel, che permette a Havier Fernández e a Fanny Marín, rispettivamente sceneggiatore e disegnatrice, di riportare alla superficie la drammatica ambiguità di uno dei romanzi più importanti del cileno Roberto Bolaño, Stella distante (a cura di Giulia Zavagna, Sur, pagine 192, euro 20,00). L’intreccio fra parola e immagine, questa volta, permea già la trama, al centro della quale sta un aguzzino della polizia segreta che, dopo essersi infiltrato come poeta tra i giovani intellettuali di sinistra, raccoglie un’allucinante documentazione fotografica sulle stragi e sulle sevizie compiute dal regime di Pinochet.
Ma l’illustratore può anche agire come autore in proprio, come dimostra la divertita appropriazione di una delle più famose fiabe di Hans Christian Andersen da parte di Steven Guarnaccia: il suo I vestiti nuovi dell’imperatore (Corraini, pagine 32, euro 18,00) è una parodia delle ossessioni imposte dalla moda, con immagine e testo che giocano a scambiarsi di posto. Non diversamente, la revisione alla quale l’opera di Gustave Flaubert è sottoposta da Giancarlo Ascari e Pia Valentinis rende pressoché impossibile distinguere la citazione dall’imitazione. Ne deriva un Dizionario illustrato dei luoghi comuni (Centauria, pagine 120, euro 18,00) da ammirare non meno che da leggere. Perché la letteratura sarà anche l’«occupazione degli oziosi», secondo la definizione sorniona di Flaubert. Ma non è detto che un libro, «qualunque esso sia», sia «sempre troppo lungo». Guardare le figure può essere un modo per accorciare le distanze, lasciandosi guidare dal gusto e dall’intuizione. E non sempre, per fortuna, va a finire che si ha paura dei ragni. Più spesso ci si appassiona e si diventa lettori senza neppure rendersene conto.
«Avvenire» del 6 dicembre 2019

Scuola: ecco perché i migliori studenti sono cinesi

di Alice Scaglioni
Hanno superato i loro coetanei in tutte le materie prese in considerazione: matematica, scienze e persino la lettura e la comprensione dei testi. Non c'è più alcun dubbio: gli adolescenti cinesi sono gli studenti migliori al mondo.
A rivelarlo è lo studio triennale che l'OCSE svolge su studenti quindicenni in tutto il mondo. Dai dati che emergono dalla ricerca si evince che gli scolari che provengono dalle quattro province cinesi di Pechino, Shanghai, Jiangsu e Zhejiang hanno ottenuto risultati ben più alti della media in scienze e matematica. Un traguardo eccellente, che cozza con il reddito delle famiglie da cui provengono gli studenti. La maggior parte di queste infatti vive con possibilità inferiori rispetto alla media internazionale. Circa 1 studente su 6 (16,5%) a Pechino, Shanghai, Jiangsu e Zhejiang (Cina) e 1 su 7 a Singapore (13,8%), hanno raggiunto i massimi livelli in matematica. Un dato che è pari solo al 2,4% nei paesi OCSE.
E che dire delle capacità nel campo della lettura? Secondo i dati dell'OCSE il 10% degli studenti cinesi più svantaggiati hanno mostrato risultati migliori rispetto alla media. L'unica pecca riguarda il divario di genere: le studentesse cinesi infatti hanno sotto-performato rispetto ai coetanei maschi, in tutte e tre le discipline.
«La qualità delle loro scuole oggi alimenterà la forza delle loro economie domani», ha commentato il segretario generale dell'OCSE Angel Gurria nella nota allegata ai dati, ma si è anche detto rammaricato del fatto che i risultati migliori non siano stati ottenuti nei Paesi che hanno investito nella formazione. Un segno che mette in luce come forse il sistema scolastico vada rivisto. «Se consideriamo il fatto che quelle quattro province cinesi hanno un reddito medio procapite molto inferiore alla media Ocse, è deludente che la maggior parte dei Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico non abbia fatto registrare alcun sostanziale miglioramento rispetto alla prima rilevazione PISA del 2000».
«Corriere della sera» del 7 dicembre 2019