20 ottobre 2024

Angelica contesa da tanti uomini sceglie (e insegna) il vero amore

La straordinaria attualità della vicenda sentimentale raccontata nell’Orlando furioso: la protagonista femminile è una donna emancipata che non si fa possedere, ma fugge e si fa beffe dei maschi
di Marco Erba
Nell’Orlando furioso, capolavoro del poeta rinascimentale Ludovico Ariosto, la figura di Angelica si impone subito all’attenzione. Angelica, principessa del Catai (la Cina), giunge in Occidente insieme al paladino cristiano Orlando, uno dei guerrieri più valorosi dell’esercito di Carlo Magno. L’opera è infatti ambientata secoli prima, all’epoca degli sconti tra cristiani e saraceni spesso enfatizzati dalla letteratura. Ma si sa, la narrazione dello scontro di civiltà, sovente finalizzata a consolidare il potere politico, funziona in tutte le epoche.
Per Ariosto però questo scontro di civiltà è solo lo sfondo per narrare meravigliose avventure, con arguta ironia. Non c’è alcun realismo storico nel suo racconto: si parla, ad esempio, dei saraceni che assediano Parigi, un falso così clamoroso da essere divertente.
Angelica, dunque, giunge al campo cristiano. I suoi modi, la sua bellezza orientale, il suo fascino soggiogano moltissimi cavalieri, che dimenticano il re e la guerra santa e desiderano solo conquistare il cuore della principessa. Per Angelica nasce una contesa tra Orlando e suo cugino Rinaldo, altro guerriero valorosissimo. Re Carlo ne approfitta: toglie Angelica a Orlando, la assegna al vecchio e saggio Namo, duca di Baviera, e promette la donna a quello dei due cugini che meglio si comporterà nell’imminente battaglia con i saraceni.
Finora Angelica è solo un simulacro, un oggetto di desiderio. È una donna vista come un trofeo da possedere, di cui si guarda solo l’attraente involucro. Angelica è il desiderio inconfessabile di ciascuno: una bellezza irraggiungibile, e che per questo accende ancor di più di passione. Un seducente corpo senz’anima. La descrizione di Ariosto potrebbe anche oggi interrogarci su come vengono presentati i corpi, sia femminili che maschili, sui social, nella pubblicità, a livello mediatico. Persone o oggetti? Storie o icone? Sostanza o apparenza?
Ariosto vive in una società maschilista. L’uomo agisce, decide, governa. La donna gli appartiene: di essa può disporre.
Ma l’autore del Furioso è un genio e spariglia le carte. Angelica non si fa possedere, sfugge. Non solo, si fa beffe di ogni maschio alfa che pensa di poterla dominare.
I saraceni sconfiggono i cristiani. Angelica approfitta del caos, salta su un cavallo e si lancia al galoppo nel bosco. Parte così un infinito inseguimento, senza esito per i paladini.
Angelica a un certo punto si nasconde in un cespuglio, presso al quale giunge Sacripante, re di Circassia, saraceno. Anch’egli è innamorato di lei. Prorompe in un lamento d’amore, senza sapere che Angelica è proprio lì, al suo fianco, e lo ascolta. La principessa decide così di uscire allo scoperto per farsi aiutare. Sacripante, a questo punto, si rivela per ciò che è: uno smargiasso, che pensa di essere in grado di usare gli altri come vuole, grazie al suo potere e alla sua stazza. Sacripante paragona la verginità di Angelica a una rosa e si dice certo di poter cogliere questo fiore. Il guerriero usa parole che alla nostra sensibilità suonano brutali, violente, agghiaccianti:
Corrò la fresca e matutina rosa,
che, tardando, stagion perder potria.
So ben ch’a donna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
ancor che se ne mostri disdegnosa,
e talor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno,
ch’io non adombri e incarni il mio disegno.
«Mi prenderò Angelica» dice Sacripante. «A lei piacerà; piace a tutte le donne, anche se a volte fingono di no. Ma io non mi fermerò di certo, neanche se mi respinge, tanto è per finta».
Parole atroci e, purtroppo, ancora attualissime: la volontà di Angelica non conta, in consenso non esiste: c’è solo il brutale desiderio maschile. Ariosto si fa beffe di Sacripante. Il rozzo re di Circassia ha appena finito di parlare ed ecco che spunta un cavaliere vestito di bianco. Il nuovo venuto sfida Sacripante a duello, lo sconfigge in un lampo e lo lascia a terra umiliato. Pochi versi dopo si scopre chi è il misterioso cavaliere: è Bradamante, una fortissima guerriera cristiana. Una donna!
Il maschilismo brutale di Sacripante viene dunque umiliato da una donna libera, controcorrente, che invece di restare nel ruolo sociale che la società dell’epoca le vorrebbe imporre, decide di combattere e di sfidare gli uomini alla pari, sconfiggendoli. Un’icona affascinante, che anticipa di secoli le lotte per l’emancipazione femminile.
Sacripante, ferito nell’orgoglio, vedrà sfuggirsi anche Angelica poco dopo, quando a lui si contrapporrà in un nuovo scontro lo stesso Rinaldo, in precedenza citato. Tutti si battono per possedere Angelica e lei fugge sempre, ricordandoci che l’amore è dono reciproco, non è mai cattura e conquista.
Dopo mille peripezie, anche Angelica troverà l’amore. E accadrà non con un guerriero oberato di trofei, non con un tronfio cavaliere pieno di sé, non con qualcuno che indossa una impenetrabile armatura. L’amore non tollera corazze, non può riguardare gli egolatrici incapaci di sentire e vedere l’altro.
L’amore è dono, appunto. L’amore è tenerezza, è compassione, è cura. Per questo i poeti spesso paragonano l’amore a una ferita: è un modo iperbolico per dire che amare significa sentire l’altro dentro, provare la sua gioia, ma anche essere disposti a condividere la sua sofferenza.
L’amore vero di Angelica nasce dalle ferite. Ferite che Medoro, un oscuro fante saraceno, ha subìto perché sorpreso dai cristiani mentre era impegnato nella nobile impresa di dare sepoltura al corpo del suo re Dardinello, caduto in battaglia e dimenticato. Medoro è una persona nobile d’animo e generosa: l’amore si radica nella parte più bella di noi e la risveglia. L’amore rifiuta le dinamiche di potere.
Angelica si imbatte in lui, quasi morto; lo cura, grazie alle tecniche mediche che ha imparato in Oriente. E lì accade un miracolo:
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte; insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.
Angelica, a poco a poco, si scopre innamorata di Medoro. Prendendosi cura di lui più che di sé stessa, donandogli ciò che ha, scopre un amore ben diverso da quello preteso dagli arroganti paladini. Un amore autentico: Assai più larga piaga e più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l’altrui che ’l proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
ch’a risanar chi lei fere e tormenta.
Angelica «più cura l’altrui che il proprio male». Amare non è dimenticarsi di sé stessi, non è umiliarsi: amare è però mettere il bene dell’altro al primo posto. Se ciò avviene reciprocamente, il cammino può iniziare.
È Angelica a rivelare il suo amore a Medoro. Anche questo passaggio è contro ogni regola dell’epoca, che vuole che sia l’uomo a chiedere in sposa la donna. Angelica invece fa il primo passo, è contraccambiata: i due si sposano nell’umile casa del pastore che li ha accolti. Un matrimonio antitradizionale, senza riti né banchetti. Un matrimonio semplice, che punta all’essenza. L’amore rende liberi, non si fa rinchiudere in schemi. L’amore apre avventure nuove, non è una storia già scritta.
Angelica e Medoro partono insieme. Orlando, il grande paladino che in virtù del suo valore e della sua smisurata forza si credeva in diritto di possedere la principessa del Catai, giunge nei pressi della casa del pastore, nei luoghi in cui è sbocciato l’amore tra i due. Quando scopre cosa è accaduto, si dispera, si strappa la corazza, distrugge tutto ciò che incontra, ormai folle.
Rivedrà Angelica tempo dopo, emergendo nudo dalla sabbia della spiaggia di Tarragona: la principessa sta per caso passando di lì con Medoro. Orlando la insegue, cerca di catturarla; lei gli sfugge per l’ennesima volta. Ma la cosa terribile è che Orlando, ormai pazzo, non la riconosce nemmeno:
Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:
così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.
Il suo inseguimento è bestiale. Orlando vede un “delicato volto” e lo desidera. Non vede la persona, non la riconosce, perché la passione egoistica e il desiderio di possesso nulla hanno a che fare con l’amore. Lo stalker non vede l’altro, non lo riconosce. Vede solo il suo desiderio, vede solo sé stesso.
«Avvenire» di lunedì 14 ottobre 2024

17 ottobre 2024

La teoria del bellum iustum

di Elio Marinoni
È sorprendente lo sforzo speculativo prodotto dall’intellighenzia romana, soprattutto nell’ultimo secolo della repubblica e in età augustea, per giustificare il processo di espansione dello stato attraverso le guerre di conquista: ne nacquero la teoria della guerra giusta e quella della missione imperiale di Roma, che interpretava la conquista come dominio dei migliori, apportatore di prosperità e di pacificazione alle popolazioni sottomesse. Teorie tutt’altro che superate, se solo pensiamo quante operazioni militari vengano ancor oggi ammantate dal velo del peacekeeping.
L’inarrestabile espansione dello stato romano, dapprima da città stato a potenza italica e poi da questa a impero mondiale, trova una legittimazione nell’elaborazione di due teorie: quella del bellum iustum («guerra giusta») e quella della missione imperiale del popolo romano. La prima, espressa in modo particolarmente chiaro da Cicerone, tende a rappresentare la guerra come un’extrema ratio alla quale ricorrere solo in difesa della propria sicurezza e di quella dei propri alleati, e per porre le condizioni di una pace migliore (De republica, III, 34-35; De officiis, I, 35). Il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire una pace migliore vale anche per la conflittualità all’interno dello stato: «Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra», afferma Cicerone (Filippiche, VII, 16, 9) avendo di mira Antonio. È il principio espresso proverbialmente dal motto Si vis pacem, para bellum, un principio di cui è facile constatare la permanenza in molti stati moderni. La teoria del bellum iustum si estende anche alle modalità di conduzione della guerra: «C’è anche un diritto di guerra, così come in pace» fa dire lo storico augusteo Livio a Furio Camillo (Ab urbe condita, V 27, 6); e al comportamento del vincitore nei confronti dei vinti, che dev’essere ispirato a criteri di giustizia e di moderazione (Cicerone, De officiis, I 35).
L’idea che il popolo romano sia stato chiamato da un’entità superiore a governare i popoli trova una premessa teorica già in Cicerone: «la natura stessa ha assegnato il dominio assoluto ai migliori con grande vantaggio dei deboli» (De republica, III, 37); ma viene compiutamente elaborata dagli autori dell’età augustea. Virgilio fa predire a Giove «un impero senza fine» ai Romani, che saranno «signori del mondo» e con Augusto estenderanno l’impero fino all’Oceano, fino ad assicurare la pacificazione del mondo intero (Eneide, I, vv. 276-294). Il concetto è ribadito nei celeberrimi moniti che l’ombra di Anchise rivolge a Enea: «Tu, o Romano, ricorda di governare con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre l’abitudine alla pace, usare clemenza ai sottomessi e sterminare i superbi» (Eneide, VI, vv. 851-853). Alle virgiliane profezie di Giove e di Anchise fa da pendant in Livio la profezia di Romolo: «Va’, annunzia ai Romani che gli dei vogliono la mia Roma capo del mondo; curino pertanto l’arte militare, e sappiano […] che nessuna umana potenza potrà resistere ai Romani» (Storia di Roma dalla fondazione, I 16).
L’espansione territoriale avvenuta nel corso dei secoli è dunque interpretata come un’opera di pacificazione dei popoli sotto il dominio civilizzatore, giusto e clemente di Roma. Non lo affermano solo i poeti e gli scrittori ma l’imperatore stesso, sia attraverso i rilievi allegorici dell’Ara Pacis Augustae, che raffigurano un mondo prospero e felice pacificato dalle armi romane, sia nell’autobiografia ufficiale, da lui dettata e fatta esporre in pubblico (Res gestae divi Augusti).
Negli anni delle guerre civili succeduti all’assassinio di Cesare, Virgilio e Orazio si erano fatti interpreti dell’ansia di pace e di rinnovamento che attraversava il mondo romano, vagheggiando una nuova età dell’oro a Roma (Ecloga IV di Virgilio) o un’utopica isola dei beati (Epodo 7 di Orazio), ma successivamente questi poeti si fecero portavoce dell’ideologia augustea, che giustificava la guerra sia pure interpretandola come strumento di pacificazione. Un totale ripudio della guerra, soprattutto come scelta di vita individuale, si trova invece nei poeti elegiaci (Tibullo, Properzio, Ovidio), che a essa contrappongono la milizia d’amore (si vedano p. es. Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 53-55; Properzio, Elegie, III, 5, 1-2; Ovidio, Gli amori, III, 2, vv. 49-50).
Il ripudio della guerra si esprime efficacemente nella maledizione all’inventore delle armi che apre l’Elegia I, 10 di Tibullo (e che sarà posta da Ermanno Olmi in epigrafe al suo film Il mestiere delle armi): «Di quale natura fu l’uomo, che per primo produsse le orribili spade? Quanto feroce e veramente di ferro egli fu! Allora sorsero stragi di uomini, sorsero allora battaglie; allora si schiuse una più rapida strada verso la morte funesta» (vv. 1-4). Alla maledizione subentra però, nei versi successivi (7-10), una riflessione sull’avidità come vera causa di tutte le guerre. L’avidità di ricchezza e di potere è additata altresì come l’esclusivo motore della politica romana di espansione nelle denunce dell’imperialismo romano da parte dei capi di popolazioni straniere, di cui la storiografia latina ha lasciato trapelare la voce: dal re del Ponto Mitridate (Sallustio, Storie, IV, 69) al capo gallico Critognato (Cesare, De bello Gallico, VII, 77, 15-16) al calèdone Calgàco, che parla dei Romani in questi termini: «Predatori del mondo intero, […] rubare, massacrare, rapinare, lo chiamano con falsi nomi impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace» (Tacito, Agricola, 30, 4-5). La condanna della guerra è integrata negli elegiaci dall’elogio della pace, associata all’idea di prosperità (p. es. Tibullo, Elegie, I, 10, vv. 45-50). La pace, invocata dai poeti e ufficialmente proclamata dalla stessa propaganda imperiale, non era però un’esigenza largamente condivisa, in particolare da coloro che della guerra campavano. Lo dimostra l’accoglienza riservata dalla truppa, nel 69 d. C., alla predicazione pacifista di Musonio Rufo, un cavaliere romano imbevuto di stoicismo, ritenuta intempestiva da Tacito: «costui, insinuandosi tra le truppe e mettendo in risalto i vantaggi della pace e i pericoli della guerra, andava facendo scuola in mezzo a quella gente d’arme. Fatto […] che ai più dava fastidio, non mancando poi chi avrebbe voluto toglierselo dai piedi e dargliene un sacco, se, piegandosi alle esortazioni dei meno scalmanati e alle minacce degli altri, non l’avesse smessa con quella poco opportuna cattedra di sapienza» (Storie, III 81). Era stato il greco Polibio (II sec. a. C.), a lungo vissuto a Roma, a capire che l’impero romano aveva ormai, nei 53 anni di conquiste territoriali dal 221 al 168 a. C., globalizzato il mondo: «Anteriormente […] le vicende delle varie parti del mondo erano per così dire isolate le une dalle altre […]. Dopo questi avvenimenti invece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario […] e i fatti sembrano tutti coordinarsi a un unico fine» (Storie, I, 1, 1-3).
Allo stesso modo, toccherà a un greco profondamente integrato, l’intellettuale Elio Aristìde, celebrare, alla fine del II sec. d. C., la pax Romana, riconoscendo che «per essere tranquilli basta essere Romani o piuttosto sudditi di Roma» e che i Romani «misurando l’ecumene, aggiogando con ponti d’ogni sorta i fiumi, tagliando i monti per aprire la strada ai carri, riempiendo il deserto di rifornimenti» hanno «messo in tutto il mondo ordine e ricchezza» (Elogio a Roma, 100-101).

03 marzo 2024

Il complesso di Telemaco (M. Recalcati)

di Massimo Recalcati
Quello che qui nomino come “complesso di Telemaco” vuole essere un modo per accostare il nuovo disagio della giovinezza provando a dare una chiave di lettura inedita alla relazione tra genitori e figli in un tempo – quale è il nostro – in cui, come faceva già notare Eugenio Scalfari in un articolo di quindici anni fa intitolato significativamente Il padre che manca alla nostra società (su “la Repubblica” del 27 dicembre 1998), l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è eclissata, è irreversibilmente tramontata. La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva sono noti da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre. Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi non indica una crisi provvisoria della funzione paterna destinata a lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Rilanciare il tema del tramonto dell’imago paterna non significa rimpiangere il mito del padre-padrone. Personalmente non ho nessuna nostalgia per il pater familias. Il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurarne l’antica e perduta potenza simbolica, ma piuttosto quello di interrogare ciò che resta del padre nel tempo della sua dissoluzione. È questo che mi interessa. In tale contesto la figura di Telemaco mi appare un punto-luce. Essa mostra l’impossibilità di separare il movimento dell’ereditare – l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto – dal riconoscimento del proprio essere figli. Senza questo riconoscimento non si dà alcuna filiazione simbolica possibile.
Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre. L’ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna quella dell’invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’auto-accecamento – come marchio indelebile della colpa –, quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio che Telemaco si confonda con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per il padre-eroe è una malattia sempre in agguato. Il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle! Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, padri-papa, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica. Le nuove generazioni sono impegnate – come farà Telemaco – nel realizzare il movimento singolare di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità. Certo, il Telemaco omerico si aspetta di vedere all’orizzonte le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Eppure egli potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. Nel complesso di Telemaco in gioco non è l’esigenza di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone. La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.
Introduzione al volume «Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre», Feltrinelli, Milano 2013, pp. 1-6

01 febbraio 2024

Il cristianesimo tra cancel culture e apologetica. Ma una terza via c’è

Né glorificare, né ripudiare. O distinguere i buoni dai cattivi. Invece, come nei casi di Lutero contro gli ebrei e del “Sillabo”, si può creare uno spazio per storie diverse e per il dibattito
di Pierre Gisel
Anticipiamo alcuni stralci del dossier «La trappola del nuovo inizio», contenuto nel primo numero del 2024 del quindicinale “Il Regno-Attualità”. In esso il teologo Pierre Gisel, docente emerito della Facoltà di Teologia dell’Università di Losanna, mette in guardia dal desiderio di purificazione della storia e di “nuovo inizio” portato avanti da cancel culture e wokismo.
La cancel culture – «cultura dell’annullamento» o «della cancellazione» – ha invaso la scena pubblica. Si tratta di cancellare quel passato che non possiamo più riconoscere come nostro o che non vogliamo più che torni alla ribalta. Questo perché il passato è troppo pieno di colpe o di crimini, di violenza, schiavitù e repressione delle differenze, siano esse di genere, razza o cultura. Colpe e crimini che una storia costruita – quella dei vincitori – ha rimosso e ricoperto di una visione ideale, ma ingannevole e distorta. Questa cancel culture viene ora rafforzata dal woke, il «risveglio» che le minoranze hanno avuto nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti. Un movimento di base che mira a portare davanti ai nostri occhi e alle nostre responsabilità la realtà della schiavitù (e oltre a ciò, d’ogni oppressione e servitù), la realtà delle donne, tra seduttrici fatali e streghe (e oltre a ciò, d’ogni dominazione binaria), la realtà delle culture disprezzate (e oltre a ciò, di tutte le differenze nei modi di vivere lo spazio e il tempo, e le relazioni con il mondo e con gli altri esseri umani), la realtà degli eretici (e oltre a ciò, di tutti i dissidenti o semplici minoranze). Si chiede giustizia, giustamente, e uguaglianza, altrettanto giustamente, ma ciò può aprire la porta a un egualitarismo sul quale è bene interrogarsi.
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)
Come controesempio di quello che la cancel culture comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il Sillabo romano del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)
Il Sillabo tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.
«Avvenire» di martedì 30 gennaio 2024

16 gennaio 2024

Nuovi video

Sul mio canale youtube ho inserito nuovi video legati alla letteratura latina.

Nel dettaglio ti segnalo i video su Ennio, Catone e Terenzio.


Buono studio
Postato il 16 gennaio 2023