31 marzo 2014

Sommersi dalle e-mail

Tecnologie
di Silvia Guzzetti
Lavoriamo troppo e siamo droga­ti da posta elettronica e telefoni­ni, con gravi conseguenze per la nostra salute e il benessere del­la vita famigliare. Parola di Tom Jackson, uno dei più importanti esperti internazionali di flusso delle informazioni, che consiglia – proprio lui – di staccare il computer e spegnere il te­lefonino. Basta andare ad una delle sue lezioni, nel­la facoltà di Economia dell’università di Loughborough, dove dirige il centro di Information and knowledge management ovvero «Gestione delle informazioni», per capire quanto sono pericolosi troppi suo­ni, bip e messaggi che arrivano tutti insie­me.
La condizione nella quale viviamo, nor­malmente, oggi. «Se un eccesso di infor­mazioni – ovvero overload of information, materia nella quale mi sono specializzato – si verifica in un ufficio, capita un disastro che si può tenere sotto controllo. Se si trat­ta di una cabina di pilotaggio di un elicot­tero le cose vanno ben diversamente: si ac­cende una spia e si sente uno strano ru­more; il pilota è assalito da mille pensieri. 'Che cos’è il problema?', 'Non riesco a ca­pire che cosa sta succedendo?', 'Devo con­sultare il manuale di guida oppure no?','Che cosa succederà alla mia fami­glia?' ». Proprio la situazione che il professor Jack­son simula ogni volta, dentro l’aula uni­versitaria, proiettando sul grande schermo la cabina di un elicottero e facendo volare elicotterini telecomandati oltre il proietto­re, sulle teste degli studenti, verso un at- terraggio sicuro. «È il modo in cui il pilota fa i conti con questo uragano di informa­zioni a determinare se l’operazione andrà in porto. La stessa cosa capita a me duran­te la lezione.
A volte ce la faccio a tenere i nervi saldi e atterrare senza problemi. Al­tre volte c’è lo schianto e, per gli studenti, questa è la dimostrazione più efficace di quanto sia importante il mio corso», con­tinua Jackson. Studiare con lui aiuta i futuri manager del Regno Unito a riconoscere il tanto famige­rato stress, esplorando il primo modello matematico che ha definito, con precisio­ne, che cosa sia un eccesso di informazio­ni. Ne fanno parte fattori personali come la sensazione di non farcela e altri, più ogget­tivi, come il volume di notizie, la loro qua-­lità, la novità del compito che ci è stato af­fidato e quanto tempo abbiamo a disposi­zione per svolgerlo. Se, per esempio, l’in­carico è difficile e il tempo che abbiamo breve, ci stressiamo e rischiamo di fallire. Se questa difficile condizione dura per lun­ghi periodi di tempo la salute ne risente. La pressione sale, si rischiano malattie di cuo­re, problemi mentali e diabete. Il professor Jackson lavora con impiegati di società im­portanti e del governo britannico e studia come gli individui fanno i conti con un so­vraccarico di informazioni in ufficio. U­sando il suo modello riesce a determinare qual è il livello di stress in una certa orga­nizzazione e come ci si può fare i conti.
«Ab­biamo appena finito di lavorare con un’im­portante agenzia governativa e abbiamo calcolato il livello di stress di 30 impiegati e manager in un periodo di 3 mesi misu­rando, 6 volte al giorno, i livelli di cortisolo e la pressione del sangue – spiega il profes­sore –. Abbiamo scoperto che le e-mail pro­vocano i livelli di stress più alti perchè la gente ne è dipendente e non riesce a igno­rarle. Di solito, in ufficio, si risponde a una mail entro 6 secondi ma ci vogliono 64 se­condi per riprendersi dall’interruzione e tornare al proprio lavoro, perché il cervel­lo deve svuotarsi del nuovo compito portato dal messaggio e riprendere il vecchio. Spes­so un impiegato riceve fino a 96 emails in una giornata di lavoro e ha soltanto 3 mi­nuti di pausa tra un messaggio e l’altro». Una situazione che viene aggravata dal fatto che il nostro cervello può fare i conti soltanto con un minimo di 11 e un massimo di 15 compiti nello stesso momento prima di diventare sovraccarico, affaticato e non più produt­tivo.
Ogni nuova mail rappresenta un altro incarico e, se non lo completiamo, il cer­vello la memorizza come un lavoro che de­ve svolgere. Per questo è importante rac­cogliere le mails e guardarle soltanto ogni 40 minuti. «Purtroppo abbiamo verificato che non servono a molto programmi di trai­ning per far capire agli impiegati che sono vittime di una 'dipendenza da mail' per­ché, dopo qualche settimana, tornano al vecchio comportamento – continua Jack­son –. È molto più efficace inserire una fi­nestrella nella barra di comandi del com­puter. Schiacciandola l’impiegato scoprirà se ha rispettato i tempi giusti per guardare una e-mail o se si è fatto ricatturare dall’a­bitudine nociva di aprirle in continuazio­ne ». Secondo Jackson può capitare oggi di esse­re riuniti in famiglia e ciascuno guarda il telefonino o il tablet anzichè parlare con gli altri: «L’individualismo digitale rischia di distruggere le comunità locali. Nel mondo vengono inviati 198.000 tweets ogni minu­to, però non conosciamo più i nostri vici­ni, quelli che una volta tenevano d’occhio i nostri figli e ci avvertivano se facevano qualcosa che non andava bene».
«Avvenire» del 25 marzo 2014

Non la scelta ma il dono

Goethe, la donna, il «gender»
di Francesco D’Agostino
Un errore frequente che commettono coloro che parlano della teoria del "gender" è quello di ritenerla una teoria compatta, coerente, strutturata. Non è così: sotto l’etichetta del "gender" si accumulano (e un po’ nascondono) diverse visioni antropologiche, spesso persino contraddittorie tra loro, quasi sempre argomentate male e frettolosamente, tutte fragilissime, sia dal punto di vista filosofico che sociologico e politico.
Proprio per questo, però, criticarle è molto faticoso, perché non si sa mai, volta per volta, quale sia lo specifico paradigma oggetto della discussione. Il teorico del" gender" che ci ha sfidato, ad esempio, a confutare il paradigma A è in genere abilissimo, di fronte a una confutazione efficace, a provocarci nuovamente, sostituendo come un giocoliere il paradigma A, non più utilizzabile, con il paradigma B, C o Z, e riattivando una discussione defatigante tanto quanto infruttuosa.
Ecco perché da un po’ di tempo, quando sono coinvolto in un dibattito sulla teoria del "gender", uso un argomento trasversale rispetto a quelli usati comunemente e, almeno all’apparenza, stravagante: quello dell’eterno femminino, citando l’ultimo verso del Faust di Goethe: «das Ewig-Weibliche zieht uns hinan», e cioè «l’eterno femminino ci spinge verso l’alto». Naturalmente nessuno capisce sulle prime il senso della citazione, ma almeno il dibattito sul "gender" può essere fruttuosamente rimesso sul binario giusto.
Il verso di Goethe non solo è bello, ma incredibilmente preciso.
Afferma qualcosa di molto forte sull’identità sessuale umana. Ci spiega che è proprio dell’essere umano (del Mensch, maschio o femmina che esso sia, giovane o vecchio, forte o fragile) il desiderio di tendere sempre verso «l’alto», assumendo la statura eretta, amando la luce piuttosto che le tenebre, sentendo il fascino della novità e la noia della ripetizione, adorando la vita e aborrendo la morte. Ma l’essere umano non ha e non trova in se stesso la forza necessaria a dare a questa sua aspirazione profonda un orientamento stabile e garantito.
Ha bisogno di un aiuto. E questo aiuto lo troviamo nei recessi più profondi della nostra psiche, del nostro animo, del nostro io, quando da essi emerge la parola donna nel suo significato archetipico, cioè per l’appunto eterno. È il femminile che ci orienta verso l’alto, perché è la donna (e non l’uomo) colei che custodendo la vita nel suo grembo esprime la forma di amore più analogabile, per noi, a quello che Dio nutre per le sue creature. È in questo senso che ogni donna, nessuna esclusa, opera sempre per spingere in avanti e verso l’alto l’uomo: ciò che la Madonna ha fatto per Gesù, Beatrice per Dante, ciò che ogni madre fa per il suo bambino, ogni amata per il suo innamorato, la vedova di Zarepta per Elia, ciò che ogni donna fa quando risponde a un qualsiasi umanissimo bisogno di soccorso le venga rivolto, è ciò che qualifica il femminile e lo eternizza, perché non dipende da contingenze storiche o culturali, da scelte di vita o da assunzioni di identità, da obblighi religiosi o da precetti morali, ma dal fatto che è la donna e la donna soltanto (e non ad esempio la creatura angelica che non ha identità sessuale) ad avere avuto in dono (da Dio per il credente, dalla natura per il non credente) questa straordinaria "potenza" generativa, che non potrà mai esserle sottratta, nemmeno dalla sterilità biologica o vocazionale (come mostra il dolcissimo appellativo di madre col quale ci rivolgiamo alle religiose).
La possibilità (sacrosanta) da parte delle donne di poter accedere oggi a qualsiasi funzione sociale in piena parità con gli uomini viene interpretata dai teorici del "gender" come la possibilità inesausta, da parte di uomini e donne, di poter ricreare a piacimento la loro identità sessuale, banalizzandone la radice biologica, come se tale radice non esprimesse una valenza identitaria fondamentale. Di qui la duplice violenza che il teorico del "gender" fa, anche se inconsapevolmente, a se stesso e all’ordine delle relazioni interpersonali, che ne viene stravolto e deformato.
Erede arrogante e irritante, ma profondo, della tradizione ebraico-cristiana, Goethe ha visto benissimo: il "femminile" non è scelta, ma dono, che ha il suo senso eterno nel farsi a sua volta dono gratuito, continuo e inesauribile. Quando nelle nostre preghiere ringraziamo Cristo, lo ringraziamo per il dono che ci ha fatto della sua persona, non per il dono della sua virilità. Ma quando rendiamo grazie a Maria, la ringraziamo come Madre, per il dono che ci ha fatto della sua eterna femminilità. È da qui, credo, che potrebbero riprendere con maggiore profitto le discussioni, ormai così stereotipate, sul "gender", per aprirsi a un’intelligenza più profonda della nostra natura umana.
«Avvenire» del 31 marzo 2014

28 marzo 2014

L'editoria italiana salvata dalle... Peppe Pig!

Libri per ragazzi
di Rossana Sisti
Per mesi stazionano ai vertici delle classifiche, i bambini li adorano, li comprano in libreria (o, meglio, gli adulti li comparano per loro), li chiedono in prestito in biblioteca. Eppure neanche uno dei libri amati dai più piccoli compare nell’elenco di quelli che piacciono agli esperti e vengono segnalati tra i migliori sul mercato.
La conferma, il giorno dell’inaugurazione della 41ma Fiera del libro per ragazzi di Bologna, arriva dall’annuale indagine sui migliori libri per ragazzi del 2013 - quelli più prestati nelle biblioteche italiane e quelli più venduti in libreria - realizzata da LiBeR, autorevole rivista di critica letteraria e osservatorio dei fenomeni che interessano i libri di questo settore. Snobismo dei critici o invisibilità di quanti non si rassegnano alla serialità, alle mode o al facile intrattenimento spesso alimentato dai cartoon? Spiega il direttore Riccardo Pontegobbi: “Sembra proprio che l’editoria nazionale sia salvata dalle peppe pig, dagli stilton e dalle schiappe che con i loro grandi numeri hanno spinto il mercato dei ragazzi al +3,1 per cento, mentre il mercato complessivo del libro ha perso il 6,5 per cento. Del resto la macchina della serialità sta andando forte. I primi cinque posti della classifica dei prestiti in 400 biblioteche italiane sono occupati da altrettanti volumi della serie della Schiappa. A ridosso troviamo la maialina Peppa e il topo Stilton. E la massificazione dei gusti è confermata dall’analoga classifica degli acquisti. Stessi volumi, stessi personaggi. Niente a che vedere con la lista dei 180 libri che gli esperti, studiosi e osservatori del settore, giudicano migliori per contenuto e stile, e che comprende libri come Miss Charity di Marie-Aude Murail, Il fiume lento di Alessandro Sanna, Spiaggia magica di Crockett Johnson, Io sono soltanto un cane di Jutta Richter o La meravigliosa macchia di Pietro Corvo firmata da Guido Quarzo”.

SCARTO ENORME
Lo scarto è enorme, come se i due mondi non riuscissero a comunicare. “Molti libri, interessanti e apprezzabili – spiega Pontegobbi – non riescono a bucare la rete della comunicazione, mentre il best seller si impone continuamente, forte del fatto che se ne parla continuamente. E’ un fenomeno che alimenta se stesso. Il best seller seriale, spesso ridotto a un brand, a un marchio declinato in diverse forme, dalla maglietta all’astuccio allo zaino, possiede una forza quantitativa tale da intercettare più facilmente il lettore”.
A chi gli chiede tre parole chiave per definire le tendenze del mercato dei ragazzi Riccardo Pontegobbi sintetizza, parlando di una produzione sempre più globalizzata, frammentata e targhettizzata. “Sembrano parolacce - scherza - ma non lo sono. Il cinquanta per cento dei libri arriva da ogni parte del mondo. Crescono le collane ma hanno meno titoli e soprattutto perdono in personalità. Infine si produce per target. La fascia 0-6 anni è cresciuta moltissimo mentre si è rarefatta quella dagli 8 ai 10-12 anni. Molto rafforzata invece la produzione rivolta agli over 12 fino ai giovani adulti. Ancora il trionfo del crossover che coinvolge fasce di lettori sempre più ampie, un target alle cui esigenze gli editori cercano di rispondere. E questo influenza stili e generi. La contaminazione dei linguaggi e l’ibridazione dei generi letterari portate all’eccesso creano miscele indefinibili in cui non c’ è più l’avventura, la fantascienza, il poliziesco o lo storico a guidare la proposta editoriale ma tutto questo intrecciato insieme”.
«Avvenire» del 24 marzo 2014

25 marzo 2014

Latino a scuola. Tempo di cambiare?

Il dibattito
di Roberto Carnero
​Come cambia l’insegnamento del latino nella scuola della riforma Gelmini? Per legge sono state drasticamente ridotte le ore settimanali di questa materia un po’ in tutte le scuole (tranne che al liceo classico). Per molti questo è un male, un problema. Ma è anche vero che ogni cambiamento, se serve a ripensare lo statuto di una disciplina e le metodologie impiegate per trasmetterla, può anche determinare inaspettate evoluzioni positive. Peraltro la riforma ha rinominato la materia: da "Lettere latine" a "Lingua e cultura latina", evidenziando così il nesso tra lingua e civiltà. Ne discutiamo con alcuni esperti, soprattutto autori di manuali di latino per le scuole, dove forse mai come oggi si stanno sperimentando nuove soluzioni, anche grazie all’apporto delle tecnologie digitali applicate all’insegnamento.
Nicola Flocchini è, insieme con Piera Guidotti Bacci, l’autore del corso di latino più diffuso nei licei italiani, uscito in prima edizione nel 1991 col titolo Comprendere e tradurre (Bompiani Scuola, gruppo Rcs Education).
Con alle spalle una lunga carriera di professore e preside nei licei, ma anche di lettore di Lingua latina all’Università Cattolica di Milano, Nicola Flocchini ritiene che oggi si debba innanzitutto riscoprire le motivazioni allo studio di questa materia: «Dobbiamo trasmettere ai ragazzi un messaggio di fiducia e ottimismo, facendo capire ai nostri studenti che non stiamo imponendo loro una fatica inutile. È fin troppo ovvio ricordare che l’incontro col latino è l’incontro con le nostre radici. Ma direi soprattutto, nel contesto attuale, che la traduzione dal latino garantisce l’acquisizione di alcune competenze (scegliere i dati pertinenti, formulare ipotesi, fare inferenze, verificarle) che sono le stesse richieste dalla ricerca scientifica e dal problem solving. Lo studio della lingua di Cicerone insegna a gestire la complessità. Questa è una vera e propria emergenza educativa in un mondo sempre più complicato come il nostro, dove peraltro i ragazzi tendono a fuggire ciò che è difficile perché ne sono spaventati».
E il metodo? «Se puntiamo, come ci richiedono gli attuali programmi, alla traduzione dal latino, e non più a quella dall’italiano ormai da tempo abbandonata, l’insegnamento della grammatica, con tutto il peso delle varianti e delle eccezioni, può essere molto semplificato. Per questo i manuali vanno reimpostati, anche tenendo conto del minor tempo a disposizione. L’approccio più efficace è quello di partire da ciò che è noto, cioè l’italiano, proponendo ai ragazzi un confronto con le strutture del latino».
Piera Guidotti Bacci, anche lei docente di lungo corso nei licei, è d’accordo su questa esigenza di razionalizzare la didattica. «Il che però non significa – puntualizza – tagliare i contenuti in maniera indiscriminata. Una riduzione meramente quantitativa sarebbe una soluzione irrazionale. Si tratta di capire che alle diverse tipologie di scuola debbono corrispondere diversi metodi didattici: non possiamo pensare di lavorare allo stesso modo al classico e al linguistico (dove di latino si fanno soltanto due ore a settimana). Accanto alla classica traduzione, si possono proporre altri tipi di esercizi: ad esempio le domande di comprensione su un testo o l’analisi di un brano latino con traduzione a fronte».
Anche Ilaria Domenici (autrice per Paravia, gruppo Pearson, di un fortunato manuale dal titolo Id est, nonché di un nuovo libro di testo appena uscito, Monitor) punta molto sulla diversificazione delle attività: «Sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, nei miei libri propongo esercizi e giochi interattivi, anche con immagini e vignette, che vanno incontro alle modalità percettive dei nativi digitali. Ma ovviamente la tecnologia non è tutto. Si tratta, prima ancora, di capire che come insegnanti non possiamo dare più nulla per scontato. Poiché sempre più spesso ci capita di trovare allarmante la povertà lessicale dei nostri studenti, proprio una disciplina come il latino può servire ad ampliare il loro bagaglio linguistico. In altre parole, lo studio del latino non può più essere considerato fine a se stesso, ma va condotto in parallelo a quello dell’italiano e delle lingue straniere».
Concorda Raffaella Tabacco, professore ordinario di Letteratura latina e direttrice del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, che vanta una lunga esperienza di formazione degli insegnanti della scuola secondaria: «Andrebbe superata l’eccessiva grammaticalizzazione dello studio del latino. Quando ci si avvicina a una lingua straniera, la prima cosa che si impara è un certo numero di vocaboli di base, che aiutino a orientarsi nei diversi contesti comunicativi. Questo con il latino si fa molto poco, ritenendo, a torto, che il ricorso al vocabolario risolva ogni problema. Non è così; anzi, un uso scorretto del dizionario rischia di creare più difficoltà di quante ne elimini. Ovviamente il latino è diverso da una lingua moderna e dunque l’attenzione alla grammatica deve rimanere fondamentale. Ma lessico e regole grammaticali andrebbero contemperate in un modello didattico meno rigido e stantio». Che è, in fondo, quanto chiedono anche i ragazzi.
«Avvenire» del 20 marzo 2014

«I libri di testo li scriviamo noi». Prof e studenti diventano autori

di Paolo Ferrario
Libri scolastici e materiali didattici digitali prodotti in classe dagli insegnanti in collaborazione con gli studenti. È la novità più significativa, introdotta da una circolare del Ministero dell’Istruzione, riguardante l’adozione dei libri di testo per il prossimo anno scolastico.
Con l’obiettivo di «limitare il costo che annualmente le famiglie devono sostenere» per l’acquisto dei libri di testo - pienamente raggiunto nelle scuole-pilota dove questa innovazione è già una realtà (vedi articolo sotto) - la circolare ministeriale ha anche lo scopo di «favorire la promozione della cultura digitale», tramite appunto «l’elaborazione di una nuova generazione di libri scolastici, la cui fruizione possa avvenire su piattaforme aperte, funzionali alla collaborazione partecipata» fra docenti studenti ed editori. In pratica, i materiali prodotti da un gruppo di lavoro, grazie alla rete, potranno essere utilizzati anche da altre scuole, contribuendo così alla diffusione sui territori di esperienze e buone pratiche.
Ricerca e innovazione tecnologica sono tra le parole chiave di questa “rivoluzione” che, a partire dal 2014-2015, cambierà anche il modo di insegnare e, quindi, di imparare. Entro tre anni, si legge ancora nella circolare del Miur, le scuole «possono elaborare il materiale didattico digitale per specifiche discipline da utilizzare come libri di testo». A capo di questa operazione ci sarà un «docente supervisore», garante della «qualità dell’opera sotto il profilo scientifico e didattico». La produzione dei nuovi testi, dovrà avvenire «in collaborazione con gli studenti delle proprie classi, in orario curricolare e nel corso dell’anno scolastico». I testi così prodotti, dovranno essere inviati al Ministero dell’Istruzione per essere messi a disposizione di tutte le altre scuole.
Ulteriore novità della circolare è l’abolizione del «vincolo temporale di adozione» dei testi scolastici, fissato in 5 anni per la scuola primaria e in 6 per la secondaria di primo e secondo grado. Abrogato anche il «vincolo quinquennale di immodificabilità dei contenuti dei testi», che potranno così essere aggiornati. Dal prossimo anno, quindi, i collegi docenti potranno procedere a nuove adozioni per le prime e le quarte classi della primaria, per le prime della secondaria di primo grado e per le prime e terze di quella di secondo grado.
Infine, il capitolo risparmi per le famiglie. Il tetto di spesa sarà ridotto del 10% in caso di adozione di nuovi testi in forma “mista”, cartacea e digitale, con contenuti digitali integrativi. Il risparmio salirà al 30% se i nuovi testi saranno completamente in forma digitale, sempre con contenuti digitali integrativi. Eventuali sforamenti del tetto di spesa dovranno essere contenuti entro il limite massimo del 10 per cento e, specifica la circolare, dovranno essere «adeguatamente motivati».
«Avvenire» del 21 marzo 2014

Inquisizione, oltre gli equivoci

Storia
di Franco Cardini
Ormai, a parte le solite voci attardate e tendenziose, alla parola “inquisizione” non si reagisce più in modo scomposto. Studi recenti hanno fatto luce su un’istituzione dai molti aspetti ambigui e inquietanti, ma sulla quale si comincia a veder chiaro e a uscire dagli equivoci sia apologetici sia demonizzanti. Il che vale non tanto per l’Inquisizione medievale, per la quale il problema sono i pochi documenti, quanto per quella moderna, romana (gestita dalla Santa Sede) o spagnola (dipendente dalla corona iberica). Le ricerche di John Tedeschi e di Adriano Prosperi hanno impresso agli studi del settore una svolta.
Sull’Inquisizione romana, in stretto rapporto con il Concilio Tridentino, c’era già l’ampia ricerca di Chiara Quaranta su Marcello II Cervini (Il Mulino 2010). Il cardinal Cervini, collaboratore di papa Paolo III e figura di punta del Concilio di Trento, ascese al soglio pontificio nell’aprile del 1555 ma morì poco dopo; la Quaranta ha gettato nuova luce sulla sua figura. Ora il sicuro e lucido lavoro di Massimo Firpo ci fornisce uno strumento d’indagine adeguato a comprendere sul serio gli avvenimenti di quel cruciale triennio 1550-1553, immediatamente successivo al pontificato di Paolo III e segnato da quello di Giulio III (1550-1555).
L’indagine di Firpo è ancorata alla proposta di John O’Malley di eliminare le contrapposte e svianti espressioni “Controriforma” e “Riforma cattolica”. Firpo si pone all’interno della non esaurita polemica che ha visto protagonisti Hubert Jedin e Carlo Dionisotti e ha buone ragioni nel respingere le troppo comode vie d’uscita: come la proposta di un “cattolicesimo moderno” che si sarebbe affermato nel corso del XVI secolo.
Tra il 1520 e il 1580 Curia e Chiesa mutarono volto e la fondazione dell’Inquisizione romana fu centrale nella ridefinizione teologico-disciplinare, voluta dal Sant’Uffizio e culminata nei processi contro i valdesi e l’offensiva ai danni di Reginald Pole e di Giovanni Morone: il preludio alla sterzata del Concilio di Trento. Cervini e Carafa furono i registi di questa correzione di rotta, poi pontefici dopo Giulio III (Paolo IV Carafa fino al 1559).
Decisamente discontinuista, insomma, Firpo? Analizzando un breve periodo e incentrandosi sull’istituzione inquisitoria, ha buon gioco nell’affermare che furono appunto gli inquisitori a stabilizzare lo scisma tra cattolici e riformati: una soluzione tutt’altro che deterministicamente necessaria. La sconfitta di Pole e Morone significò la vittoria del Cervini e del Carafa anche contro le vere o supposte “simpatie luterane” dell’imperatore Carlo V e il “mondanismo” di Paolo III e Giulio III, che avevano sottovalutato le conseguenze del movimento riformatore.
Firpo non è per nulla circospetto nel denunziare lo “jedinismo” di O’Malley e dello stesso Paolo Prodi e nel dichiarare la sua esplicita avversione – rinforzando le tesi della Quaranta – nei confronti di qualunque edulcorazione della durezza della “rottura inquisitoriale” di una possibile pacificazione con iriformati, e dell’avvolgere la storia della Chiesa cinquecentesca nel rassicurante involucro del cattolicesimo moderno. A metà secolo, per l’Inquisizione romana si trattava di sbarrare il soglio pontificio ai fautori del compromesso. Ci riuscirono.
Questa bella ricerca storica non è solo la buona performance di uno studioso affermato o un esercizio erudito. Nel momento in cui torna attuale la ricerca di una rinnovata unità dei cristiani – il che significa riaprire il discorso sospeso dal 1563, chiusura del Concilio di Trento – questo libro è anche un sasso lanciato in uno stagno che peraltro non è mai stato immobile. D’altro canto, non c’è dubbio – e Firpo lo sottolinea – che la difesa inquisitoriale della gerarchia ecclesiale (la componente “controriformistica”) procedette di pari passo all’affermarsi di un giro di vite disciplinare e moralistico (la componente “cattoriformista”). Insomma, la compresenza “cattomoderna” delle due componenti, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Sarà interessante aspettare adesso la reazione dei “neojediniani”.

Massimo Firpo, La presa di potere dell’Inquisizione romana. 1550-1553,
Laterza. Pagine 288. Euro 22,00
«Avvenire» del 21 marzo 2014

Prometeo, incatenato dagli atei

La provocazione
di Andrea Vaccaro
Negli
«Sono venuto a portare il fuoco sulla Terra. E quanto vorrei che fosse già acceso» (Lc 12, 49): parole di Gesù o di Prometeo? Il mito di Prometeo continua ad ispirare espressioni artistiche e variazioni interpretative (solo nel 2013 si contano ancora, in Italia, tre libri dedicati al tema e due rappresentazioni teatrali), eppure nella cultura contemporanea sembra essersi cristallizzato, anche linguisticamente, il solo significato di auto-salvezza umana («arroganza prometeica») in chiave anti-religiosa.
Questo dato non può non suscitare, teologicamente, dispiacere e disagio, specie nel ricordare con nostalgia i bei tempi antichi che videro la profonda amicizia tra Gesù (leggasi: i cristiani) e Prometeo. Chiamarla "amicizia" è perfino dire poco, dal momento che, sin dai primi secoli, taluni autori cristiani giungono a parlare di Prometeo come di una prefigurazione cristologica all’interno della religione (mitologia) greca. Una sorta di Quinto Canto del Servo che proviene dal mondo delle Genti, con innegabili discrasie (di cui neppure il testo di Isaia è, in realtà, esente), ma anche con sorprendenti assonanze messianiche.
Il Prometeo incatenato di Eschilo è il dio elevato tra la terra e il cielo, alla vista di tutti, immobilizzato e agonizzante, «perché amò i mortali oltre misura»; è «un dio che soffre a causa degli dei», si potrebbe dire in nome della vecchia Legge divina del Sinedrio; è il giusto deriso e sfidato a liberarsi dal supplizio in virtù del proprio sedicente potere. La voce di Prometeo, così, preludeva alla verità, ma non fu compresa perché la pedagogia divina disseminava, ma non ancora raccoglieva la Rivelazione perfetta e pertanto gli astanti – come recita la versione eschilea ai versi 447-8 – «avevano occhi e non vedevano/ avevano orecchie e non udivano».
Addizionando le "assonanze" eschilee con il motivo tipicamente ovidiano di un Prometeo «plasmatore del primo uomo», Tertulliano (a nome di molti) non indugiò a tirare le somme e a dichiarare, sia nell’Apologeticum (XVIII, 2) sia nell’Adversus Marcionem (I, 1, 4), che l’unico Dio era il «vero Prometeo». La figura di Prometeo diviene a tal punto simbolo cristiano da accompagnare e proteggere il viaggio nell’aldilà in numerosi fronti di sarcofago, come ad esempio quello del 220 d.C. appartenente all’antica collezione Borghese, ora al Louvre, oppure quello della cripta della Chiesa di Saint Honorat (240 d.C.) addirittura per la sepoltura del vescovo Ilario, o quello esposto nei romani Musei Capitolini, risalente al 300 d.C. Commentando quest’ultima scultura, lo storico Edgar Quinet, nel suo Il mito di Prometeo nei suoi rapporti con il cristianesimo (1838), parla ragionevolmente del titano come del «profeta di Cristo nell’antichità greca» e lo storico dell’arte Robert Tuncan, nella sua Note sur le sarcophage «au Promethée» (1988), interpreta il fuoco consegnato agli umani, molto al di là del tradizionale «dono tecnologico», come l’insufflazione dell’anima immortale.
La prima ampia metà del secondo millennio vede la deflagrazione dell’abbraccio cristiano a Prometeo. La preziosa miniatura che illustra un manoscritto dell’Ovide moralisé (tra il 1316 e 1328) nella biblioteca di Lione propone, nello sfondo classico della Creazione, Dio Padre a destra, nell’atto di dar forma all’Universo, e Prometeo a sinistra, che dà vita ad una figura umana distesa al suolo. Tra il 1433 e il 1445, Prometeo entra anche nel cuore della cristianità, fermandosi sulla sua soglia, ovvero sulla porta bronzea della basilica di san Pietro, dove Antonio Averlino, detto «Il Filarete», scolpisce su committenza di papa Eugenio IV un Prometeo intento a formare il primo uomo.
Poi è la volta, sullo stesso soggetto, del Parmigianino, del Guercino, della Scuola del Sansovino, per una rassegna splendidamente offerta dal sito www.iconos.it (Cattedra di iconografia, Università La Sapienza) che ha al suo culmine l’illustrazione di Bernard Salomon «La creazione dell’uomo» del 1557, ove un maestoso Prometeo con barba bianca e corona si protende su Adamo, allungando l’indice della mano destra per toccargli una spalla, in un «significativo riadattamento» (Olga Raggio) della «Creazione» di Michelangelo.
Dall’arte alla filosofia: nel 1609 Francesco Bacone, senza tentennamenti, nel De sapientia veterum, può ancora dichiarare che «Prometeo indica in tutta certezza ed evidenza la Provvidenza divina», sottolineando i «molteplici spunti che, con mirabile concordanza, alludono ai misteri della fede cristiana». Bacone, tuttavia, è stato uno degli ultimi autori cristiani naturaliter amico di Prometeo. Si apriva, infatti, l’epoca del «grande purtroppo», cioè l’incredibile e improvvida incomprensione tra scienza e teologia. Una frattura che è ancora, storicamente, là dall’essere resa comprensibile, ma che negli effetti vide molti "figli" illustri allontanarsi dalla Chiesa e riporre in valigia, tra le altre cose, anche il mito di Prometeo.
E nel ’700 torna fuori un Prometeo dai connotati irriconoscibili. In un crescendo "ateistico" che dall’Illuminismo giunge fino a noi, si staglia il Prometeo di Voltaire «simbolo dell’eterno divorzio tra la Terra e il Cielo»; il Prometeo di Goethe, che accusa la divinità di accidia dinanzi alla sofferenza umana; l’«ateo guerriero» di Percy Bysshe Shelley che pur sulla croce sfida Giove (e non a caso seduce i gusti di Giulio Giorello nel suo Prometeo, Ulisse, Gilgamesh); il Prometeo che si guadagna «il primo posto tra i santi e i martiri» nello speciale calendario filosofico del giovane Marx.
Il punto più basso del rapporto tra Prometeo e la religione doveva però ancora essere toccato ed è accaduto in tempi più recenti allorché, dinanzi all’esponenziale incedere della genetica e di altre diavolerie tecnologiche, molti filosofi, nel cui coro si distingue bene la voce di Hans Jonas, accusano le arroganze, le pretese e gli impeti prometeici di condurre ineluttabilmente verso l’apocalisse. Con una strana corsa a ritroso Prometeo, da prefigurazione di Cristo elargitore di doni, si è trasformato nell’Adamo disobbediente che vuol diventare onnipotente a dispetto di Dio, suscitandone l’ira...
È una parabola ermeneutica che teologicamente amareggia molto, «perché i cristiani non si sognano di contrapporre i prodotti dell’ingegno e del coraggio dell’essere umano alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno». Parola di Concilio: Gaudium et spes n. 34.
«A» del marzo 2014

Candy Crush, incantesimo milionario: psicologia e neurologia alla base del successo

Parla la creatrice del videogame da 100 milioni di utenti, ora studiato anche nella Silicon Valley: "Superare la frustrazione porta sollievo"
di Einrico Franceschini
Un profondo senso di frustrazione e poi il fiotto di orgoglio e sollievo che si ricava dall’averla trasformata in un passo avanti. E’ questo il segreto commerciale dietro il successo planetario di Candy Crush, il giochino delle caramelle da spostare, allineare, eliminare, che impazza su telefonini, tablet e computer di mezzo mondo. Un segreto con una base psico-scientifica, che ora viene illustrato in apposite classi su e giù per la Silicon Valley californiana, dove altri protagonisti della rivoluzione digitale lo studiano attentamente con l’obiettivo di imitarlo.
Lo rivela stamane una pagina di inchiesta del Financial Times, che cerca di capire come mai un passatempo apparentemente infantile come il "gioco delle caramelle" ha permesso all’azienda basata a Londra e fondata da un italiano, il 46enne Riccardo Zacconi, di guadagnare quasi l’80 per cento dei suoi 2 miliardi di sterline di fatturato annuo e di prepararsi a una quotazione alla Borsa di Wall Street che dovrebbe collocare a quota 7,6 miliardi di dollari il suo valore complessivo.
Come è noto ai circa 100 milioni di persone che ci giocano praticamente tutti i giorni, più volte al giorno, e come sa anche chi non ci gioca sbirciando inevitabilmente lo schermo del telefonino o del tablet di chi ci sta vicino al caffè, a scuola, in ufficio, in metrò, Candy Crush è un gioco gratuito – perlomeno fino a un certo punto. Poi, per superare un livello, si può acquistare un "aiutino" per pochi centesimi e questo solitamente permette di fare progressi da un livello all’altro del gioco e così superare gli amici con cui si compete in una sorta di campionato. Pagando o meno, mano a mano che si superano livelli la difficoltà del gioco aumenta; e aumenta anche il tempo che richiede superarne uno, insomma andare avanti. Restare bloccati provoca un senso di frustrazione. Riuscire finalmente a essere promossi al livello successivo suscita una scarica di adrenalina paragonabile a segnare un gol in una partita di calcio.
"Quando si raggiunge l’apice della frustrazione, Candy Crush offre un modo per sconfiggerla e provare sollievo e soddisfazione", spiega Nicole Lazzaro, inventrice e ricercatrice del gioco, al quotidiano della City. E il segreto del successo del giochino è proprio questo cocktail di frustrazione seguita da profonda gratificazione. Non sono sensazioni scatenate a caso. La frustrazione, osserva l’ideatrice di Candy Crush, è una delle quattro emozioni che ogni gioco di questo genere deve mettere in moto. Le altre tre sono curiosità, desiderio e divertimento. Nel presentare le potenzialità del gioco agli investitori, la King Digital Entertainment, la società londinese che produce il gioco delle caramelle e altri videogame per telefonino o computer, sottolinea di avere trovato "un processo di sviluppo senza uguali" nell’industria dei videogiochi per ripetere con lo stesso trucco, se così lo si può definire, il successo di Candy Crush anche con altri giochi.
E’ un metodo che parte da un’analisi psicologica e in sostanza neurologica di come funzionano il cervello e l’animo umano. Ed è in realtà un sistema, nota il quotidiano finanziario britannico, che suona familiare ad altri settori dell’intrattenimento di massa: la riuscita di film, libri, canzonette, è spesso legata agli stessi elementi. Naturalmente qualcuno può dubitare che produrre un best-seller dell’entertainment sia davvero una scienza: in fondo anche il caso ha un ruolo nel successo di un film, di un romanzo, di un gioco, senza contare che in Candy Crush, come in altri videogame, l’abilità del giocatore deve in qualche modo sposarsi alla fortuna per compiere progressi. E tuttavia la formula segreta del gioco delle caramelle viene presa sul serio sia dalle aziende dell’industria dei videogame, sia dal mondo accademico. "Candy Crush è un gioco dal funzionamento perfetto", dice al Financial Times Mathias Crawford, che insegna "game design" (come disegnare un gioco – sì, esistono anche materie del genere nelle università americane) alla Stanford University. "Quando impari ad azionare i tuoi responsi pavloviani nel modo giusto, sei inevitabilmente portato a rispondervi". Cioè a continuare a giocare. E a fare guadagnare sempre più soldi ai creatori del giochino che sta conquistando la terra.
«la Repubblica» del 24 marzo 2014

23 marzo 2014

Turchia, Erdogan oscura Twitter Ma il Paese gli si rivolta contro

Svolta autoritaria. Dopo le rivelazioni sulla corruzione e a pochi giorni dal voto amministrativo
di Monica Ricci Sargentini
Anche il presidente Gül scrive sul social network: inaccettabile
«Sradicheremo Twitter» aveva gridato l'altro giorno durante un comizio a Bursa il premier turco Recep Tayyip Erdogan. «Me ne frego - aveva aggiunto - di quello che dirà la comunità internazionale». Parole pesanti, cui nessuno aveva dato peso pensando a una boutade da campagna elettorale. Invece giovedì, poco prima della mezzanotte, chi ha tentato di cinguettare si è ritrovato davanti un gelido comunicato dell'Autorità per le Comunicazioni Tecnologiche che annunciava il blocco del social network per ordine di un tribunale. Ma «il colpo di stato digitale» del premier, come è stato definito dai suoi oppositori, si è rivelato un boomerang. In poche ore la rete è stata invasa dalla rabbia degli internauti che, come ai tempi dei «çapulçu» (vandali) di Gezi Park, hanno dato prova di grande senso dell'umorismo: «Hey Tayyip, hai mai visto Gli uccelli di Hitchcock?» si legge in un fotomontaggio in cui uno stormo di uccellini azzurri con la testa coperta da maschere antigas, tengono per il becco alcune corde che stringono il primo ministro. Sotto ogni uccello c'è uno degli hashtag delle campagne che più hanno fatto infuriare Papa Tayyip, come #occupygezi e #diktator. Gli utenti del social network, circa 13 milioni, sono stati abilissimi a condividere le informazioni su come modificare le impostazioni in modo da poter cinguettare nonostante il divieto. Secondo il sito online di Hürriyet , nelle prime 10 ore di blocco sono stati registrati 500mila cinguettii dalla Turchia, il 30% di un giorno normale. Risultato: gli hashtag #TwitterisblockedinTurkey e #TurkeyBlockedTwitter sono diventati un «trending topic» mondiale. «Mi sembra che siamo tutti qui - twittava soddisfatto ieri mattina @MuratYetkin2 - il bando è stato aggirato in meno di 12 ore». Ma l'apoteosi per gli internauti è stata quando è apparso il tweet del capo dello Stato Abdullah Gül, cofondatore con Erdogan del partito islamico Akp: «Una chiusura totale delle reti sociali non può essere approvata - ha scritto -. Spero che questa situazione non duri a lungo». In barba al divieto hanno cinguettato anche il vicepremier Bülent Arinç e il sindaco di Ankara Melih Gökçek, considerato un utilizzatore maniacale del social network.
Sull'Akp, il partito filoislamico al governo, si è abbattuta una valanga di critiche, con paragoni a Iran e Corea del Nord dove le piattaforme social sono severamente controllate. Preoccupati gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e la Ue. Per la commissaria Ue alle nuove tecnologie Neelie Kroes: «L'interdizione da Twitter in Turchia è senza fondamento, inutile e vile. Il popolo turco e la comunità internazionale vedranno questo come una censura. Cosa che è davvero». Amnesty International parla di un «attacco senza precedenti alla libertà di espressione in Turchia». E Emma Sinclair-Webb, una ricercatrice di Human Rights Watch per la Turchia, dice che «la decisione del primo ministro Erdogan dimostra fin dove il premier si spingerà per censurare la diffusione delle registrazioni dannose dal punto di vista politico, che stanno circolando in rete». Finora nulla è bastato. Dal 17 dicembre ad oggi è stata approvata una legge che consente di chiudere le pagine web in meno di quattro ore e una normativa che di fatto mette il potere giudiziario nelle mani del governo. Nonostante ciò le intercettazioni sono continuate a uscire sui social network. E voci non confermate annunciano l'imminente uscita di nuove prove «schiaccianti» e perfino di video a luci rosse compromettenti per ministri e forse per lo stesso premier. E questo, a pochi giorni dalle cruciali elezioni amministrative del 30 marzo, ha esasperato oltremodo il premier.
Ieri il ministro turco dei Trasporti e delle Comunicazioni, Lufti Evan, ha spiegato di star semplicemente rispettando gli ordini del tribunale: «La Turchia non è un Paese che vieta internet. Dobbiamo essere uniti contro insulti e illegittimità». Ma il principale partito di opposizione ha sporto denuncia penale contro il premier per violazione delle libertà costituzionali dei cittadini. E un ricorso è stato presentato dall'associazione avvocati turchi, che ha chiesto l'annullamento della decisione. Twitter ha assunto un avvocato esperto di crimini informatici, lo stesso che aveva seguito in passato la causa contro il bando di YouTube. «Il premier reagisce agli attacchi in maniera scomposta e autolesionistica - ha commentato Janiki Cingoli, direttore di CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) che negli ultimi anni ha lavorato molto sul fenomeno Turchia - Non ci si può disconnettere dal mondo». E forse ora l'ha capito anche Erdogan. Quale sarà la prossima mossa del sultano di Ankara?
«Corriere della Sera» del 22 marzo 2014

19 marzo 2014

Scuola migliore se si valutano i prof

di Attilio Oliva *
Caro direttore, recentemente il Governo ha varato un regolamento (Dpr 80) per dare luogo, anche nel nostro Paese, a un Sistema nazionale di valutazione per la scuola. Esso prevede che per il momento debbano essere valutate tre cose: le singole scuole, i loro presidi-dirigenti e, attraverso i test nazionali dell’Invalsi, gli apprendimenti degli studenti.
Manca qualcosa secondo voi? Dove si parla degli insegnanti? Da nessuna parte, naturalmente, per la nota opposizione sindacale. Se i ragazzi sono più o meno motivati ed interessati all’apprendimento sembra che la responsabilità sia di altri: i dirigenti, gli ispettori, il sistema... Allora perché perder tempo a scoprire se i singoli insegnanti sanno fare il loro mestiere? Si dovrebbe però ricordare che sia i presidi-dirigenti delle scuole che gli ispettori del futuro Sistema nazionale di valutazione sono per legge reclutati tra i docenti. Non sarebbe allora utile per prima cosa individuare gli insegnanti più apprezzati dalla comunità scolastica in cui operano e in seconda battuta scegliere fra questi chi dovrà dirigere le scuole e chi dovrà valutarle? Non è forse giunto il momento, e le prime dichiarazioni del nuovo ministro Giannini ce lo fanno sperare, di lasciarci alle spalle quella allegra «fattoria degli animali» di orwelliana memoria che è la scuola italiana dove tutti sono uguali per definizione e di riconoscere e valorizzare quelli «più uguali» degli altri?
Buoni insegnanti riescono a compensare i deficit che derivano da condizioni famigliari difficili
È ormai dimostrato che i risultati delle scuole possono differire molto tra loro anche se operano negli stessi ambienti socio-economici. Ciò significa che l’ambiente non è una condizione rigida che stabilisce preventivamente il destino di ogni studente: buoni insegnanti riescono a compensare almeno in parte i deficit che derivano da condizioni famigliari difficili. È evidente allora che la differenza di qualità fra le scuole è determinata dagli insegnanti e dalla dirigenza. Ciò nonostante da molti decenni si reclutano i presidi-dirigenti (sono 8.000, inamovibili una volta nominati) senza prima verificare sul campo le attitudini alla leadership. E si reclutano gli insegnanti per lo più con sanatorie di varia natura che privilegiano l’anzianità di servizio come supplenti senza alcuna valutazione sulla professionalità dimostrata. A noi sembra irresponsabile quella società che non cura come dovrebbe i suoi educatori e non dà riconoscimenti di alcun genere a quelli notoriamente più apprezzati dalla comunità scolastica. In ogni scuola, invece, questi dovrebbero essere usati come modelli e leader pedagogici per aiutare gli altri a migliorare (specie i più inesperti).
I dirigenti dovrebbero far crescere gli insegnanti in un ambiente di lavoro stimolante, non lasciarli soli
Va sottolineato che lo sviluppo professionale degli insegnanti è anche conseguenza della capacità della dirigenza di farli crescere in un ambiente di lavoro stimolante, collaborativo e con forte aspirazione al miglioramento continuo. In realtà ciò accade raramente e gli insegnanti sono per lo più lasciati soli, veri e propri autodidatti di fronte a una scuola di massa sempre più difficile da gestire. Tutte le ricerche dimostrano infatti che gli insegnanti chiedono a gran voce di aver un feedback sul loro operato sia da parte dei superiori che dei pari. Solo a queste condizioni la scuola potrà diventare una «comunità di apprendimento» per tutti.
Anche per l’Ocse questi sono i problemi nodali da affrontare perché, come sostiene, «nessun sistema scolastico può essere migliore della qualità dei suoi insegnanti».
* Presidente Associazione TreeLLLe
«Corriere della Sera» del 18 marzo 2014

Dante & Co ai tempi del digitale

Come insegnare letteratura italiana oggi? Un aiuto per renderla più moderna e attraente dall’editoria digitale
di Alessandra Dal Monte
«Non focalizzarsi solo sull’Italia perché la letteratura nazionale oggi non basta più»
«Un tempo il professore di letteratura formava la classe dirigente del Paese. Oggi è schiacciato all’interno di una funzione più burocratica che intellettuale. E la letteratura viene intesa come un insieme di nozioni neutrali, un gruppo di competenze oggettive: non viene più messa in rapporto con l’immaginario dei giovani, con il loro vissuto». A parlare è Romano Luperini, 73 anni, critico letterario e autore di diversi manuali di letteratura italiana. Il contesto è la tavola rotonda «Insegnare la letteratura oggi», organizzata al liceo Virgilio di Milano. Che fare, allora, per riportare in auge la letteratura, materia fondamentale per la crescita culturale degli studenti? «Serve un nuovo paradigma didattico», sostiene Luperini.
Prima di tutto, bisogna ripristinare gli studi comparati. «Non focalizzarsi solo sull’Italia perché la letteratura nazionale oggi non basta più». Poi, tornare alla lettura diretta dei testi. «La parola lezione significa proprio questo, lettura. Le opere vanno lette direttamente, i ragazzi devono capirle e interpretarle. Solo così possono farle proprie, collegandole alla loro vita e alle loro esperienze». Per adottare questo approccio basato sulla centralità del testo i docenti devono spiegare le opere letterarie non solo dal punto di vista storico, ma anche antropologico. «Non bisogna limitarsi a collocare le opere in un contesto di avvenimenti, ma è necessario far emergere i miti, le immagini, i sentimenti di cui i testi parlano. Per aiutarsi l’insegnante può organizzare le lezioni per nodi tematici: scegliendo un tema e collegando a esso testi di periodi diversi ci si può concentrare sull’universo che la letteratura porta con sé». L’obiettivo è coinvolgere i ragazzi, fare in modo che si avvicinino ai testi e che li leghino al loro vissuto. «La “maturità” in letteratura significa questo: raggiungere un grado di preparazione tale per cui ci si riesce a stupire e a commuovere di fronte alle opere letterarie e alla loro grandezza», aggiunge Luperini.
I relatori seduti al tavolo con lui concordano sulla necessità di un nuovo paradigma didattico ma sottolineano i problemi: «I ragazzi oggi hanno sempre meno proprietà linguistica e hanno bisogno di motivazione», spiega Guido Baldi, professore e autore di manuali scolastici. Remo Ceserani, esperto di letteratura comparata, raccomanda di allargare gli orizzonti fuori dall’Italia. Lo storico della letteratura Giulio Ferroni si scaglia contro il modello scolastico della valutazione oggettiva, «che giudica la scuola come le agenzie di rating giudicano l’economia dei Paesi». Che fare, allora? Come motivare i ragazzi, come affrontare la povertà del loro linguaggio, come far piacere loro la letteratura? «Bisogna pensarla come sempre meno scollegata dalla realtà produttiva: la letteratura arricchisce gli studenti, li rende flessibili, li prepara a un approccio olistico che può essere utile anche nelle professioni tecnologiche. Basta antitesi tra letteratura e tecnologia», dice Mario Palumbo, titolare dell’omonima casa editrice palermitana.

L’editoria digitale aiuta a rendere più moderna e attrattiva la «vecchia» letteratura italiana

In effetti un aiuto per rendere moderna e attrattiva la letteratura viene proprio dall’editoria digitale. Molte case editrici stanno sviluppando portali appositi dedicati agli insegnanti che adottano i loro manuali. La Palumbo ha attivato Prometeo, che in tre anni conta oltre tremila docenti iscritti. Il sito mette a disposizione testi, immagini, video (interviste ad esperti, recite di una compagnia teatrale…) collegati al mondo della letteratura. Il docente può digitare un tema e veder comparire tutti i materiali collegati a quell’argomento, addirittura una lezione già pronta da spiegare ai ragazzi. Rcs Education offre un servizio simile con Aula digitale, sito a cui accedere attraverso delle credenziali per ideare percorsi didattici personalizzati e condividerli con gli studenti. Mondadori ha organizzato la sua piattaforma Libro+web, che integra i testi a contenuti multimediali. Certo, per poter sfruttare al meglio questi portali bisognerebbe avere la lavagna interattiva e i tablet in classe. Non tutte le scuole ne sono dotate. «Ma si tratta di materiali che possono anche solo servire da spunto per i docenti – spiegano gli esperti - una specie di aggiornamento autonomo molto pratico che porta gli insegnanti verso quel paradigma didattico basato sulla tematizzazione delle lezioni e sul recupero dei testi».
«Corriere della Sera» del 18 marzo 2014

14 marzo 2014

I teoremi sull’obiezione e la verità dei fatti

Dal presunto caso del «Pertini» all’atto del Consiglio d’Europa
di Eugenia Roccella *
In questi giorni ha avuto molto risalto, sulla stampa, il caso della signora Magnanti, che ha interrotto la sua gravidanza al quinto mese dopo aver saputo che la bimba che aspettava sarebbe stata affetta da una gravissima patologia. Valentina Magnanti accusa l’Ospedale Pertini di Roma di averla abbandonata a un aborto doloroso, gestito in solitudine, e ritiene che la responsabilità della mancata assistenza sia dei troppi obiettori di coscienza; la Asl ribatte che la paziente è stata seguita regolarmente e che erano presenti, quel giorno, due medici non obiettori.
Ma qui non si tratta di un eventuale episodio di malasanità, tanto più che il fatto è avvenuto ben quattro anni fa, e non c’è stata nessuna denuncia da parte della paziente. Perché dunque questa storia, giornalisticamente decotta e non sufficientemente verificata, riemerge dopo tanto tempo? L’improvviso interesse dei mezzi di comunicazione per il caso è probabilmente connesso al riacutizzarsi della guerra contro l’obiezione di coscienza, fenomeno da sempre mal tollerato dai sostenitori dell’aborto come “diritto”.
All’inizio della legislatura sono state presentate alla Camera numerose mozioni che, partendo dalla constatazione di un aumento del numero degli obiettori, impegnavano il governo a un’attività di controllo e verifica, e il ministero ha istituito un tavolo con le Regioni a questo scopo. I dati emersi, però, contraddicono la lettura per cui le eventuali difficoltà di applicazione della legge 194 sono dovute a una sorta di boicottaggio messo in atto dai medici obiettori. Il carico di lavoro per ogni ginecologo che pratica interruzioni di gravidanza è infatti sceso da 3,3 aborti a settimana negli anni Ottanta fino agli attuali 1,7: e questo considerando soltanto 44 settimane lavorative all’anno. Si può ribattere che la media nazionale non esclude che in alcune regioni vi siano situazioni diverse, ma anche le medie regionali non superano un massimo di 4 aborti a settimana (per esempio nel Lazio).
Silvio Viale, medico del Sant’Anna di Torino, noto per la campagna politica a favore della pillola abortiva, denuncia nel suo ospedale una situazione di pesante sproporzione: solo 23 medici non obiettori su un totale di 83 ginecologi, per 3.490 interruzioni di gravidanza all’anno. Ma se elaboriamo questi numeri, risulta che al Sant’Anna ogni medico effettua 3,4 aborti a ogni settimana, sempre su 44 settimane lavorative. Non appare dunque una situazione insostenibile, che reclami interventi correttivi urgenti.
Qualche giorno fa un oscuro organismo tecnico del Consiglio d’Europa ha emanato un documento contro l’Italia sostenendo che il numero dei medici obiettori impedisce l’attuazione della 194. Il documento è stato sollecitato dalla Ippf, un’organizzazione non governativa antinatalista che promuove aborto e contraccezione nel mondo. Il pronunciamento appare del tutto immotivato e pretestuoso, frutto di una non conoscenza dei dati italiani e di una volontà strumentale da parte dell’Ippf di attaccare l’Italia. Va ricordato che il nostro è uno dei pochissimi Paesi in cui l’Ippf non è attiva, perché l’aborto per legge non si può praticare a pagamento presso privati.
La tesi per cui i medici obiettori devono essere sottoposti a limitazioni particolari, se non mobbizzati, perché, come sostiene l’Ippf, «violano i diritti delle donne», non regge all’esame dei numeri e alla verità dei fatti. Ma questo non importa affatto a chi attacca l’obiezione di coscienza, cioè un diritto fondamentale di libertà che ogni Paese civile deve garantire. La battaglia contro gli obiettori serve a indebolire la legge 194, considerata ormai dallo schieramento abortista troppo moderata. Poiché cambiare la legge in Parlamento è ancora oggi assai difficile, si cerca di forzare la prassi, infilandosi in tutti gli spiragli possibili per smontare la legge e spostare ancora più avanti i confini del “diritto” all’aborto.

* Deputato del Nuovo Centro Destra
«Avvenire» del 14 marzo 2014

13 marzo 2014

Inutilità dello Spionaggio Universale: cosa (non) ci ha insegnato il comunismo

Ieri e oggi. Metà dei cittadini controllava l'altra metà. Anche per questo la Ddr è crollata
di Claudio Magris
La reazione più appropriata sembra quella del Vaticano:non abbiamo nulla da nascondere
Quand'era in una prigione comunista a Praga, Havel scrisse che ciò che accadeva in quei Paesi e regimi dell'Est era pure un memento per l'Occidente, perché mostrava a quest'ultimo il suo latente destino. Speriamo che l'intrepido campione di libertà si sia sbagliato e che, se il comunismo - straordinariamente capace di vincere le guerre e disastrosamente votato a perdere le paci - è andato a gambe all'aria l'Occidente non lo segua in questa caduta libera, come ogni tanto la durissima crisi economica, effetto e causa a sua volta di crisi politica, potrebbe indurre a temere.
La recente vicenda, offensiva e pasticciona, dello spionaggio universale potrebbe essere un indizio preoccupante. Se i regimi comunisti sono andati a rotoli, ciò è accaduto non soltanto ma anche perché, come scriveva Cesare Cases riferendosi alla Ddr, metà dei cittadini era impegnata a spiare l'altra metà e a riferire minuziosamente e macchinosamente i risultati quasi sempre nulli di tali spiate, anziché essere impegnata a produrre, a lavorare, a fornire servizi. Se non si zappa la terra né si mungono le mucche né si fanno correre puntuali i treni, pane latte e altre merci e cose necessarie non arrivano nei negozi, nelle case e negli stomaci.
Certo i servizi segreti e le loro spiate e intercettazioni svolgono in molti casi una funzione utile e necessaria; possono aiutare a smascherare associazioni criminali, prevenire delitti, scoprire truffe e furti eclatanti, segnalare preparativi di ostilità e di guerra, combattere il terrorismo.
L'utilità di tali risultati spesso però annega in un oceano di inutilità e perdita di tempo. Se preparassi un attentato, difficilmente darei per telefono, per lettera o per email, precise ed esplicite indicazioni sul luogo e l'ora in cui collocare gli ordigni micidiali e sugli esecutori della strage; parlerei, secondo un codice, di mia zia a letto col raffreddore o delle giornate che si fanno più brevi. Il messaggio criminoso può essere nascosto in centinaia di migliaia di messaggi di auguri e saluti e per individuarlo occorrono legioni di esperti decifratori, chiamati a scoprire se veramente andrò a New York per il compleanno di mio cugino.
Quando viaggiavo per la Romania di Ceausescu, le persone con cui facevo amicizia mi pregavano di non scrivere loro una volta tornato in Italia, anche se non avrei certo scritto cose più delicate di «buon Natale» o di «carissimi saluti e spero a presto». Immaginavo l'inutile e lungo lavoro che l'interpretazione di quelle mie banalità avrebbe procurato agli agenti segreti.
Non credo che i vari 007, specialmente americani, che hanno ficcato il naso nelle case altrui e soprattutto dei loro alleati abbiano scoperto granché. Si ha l'impressione, in generale, che abbiano scoperto soprattutto l'acqua calda, cosa certo disdicevole se l'hanno scoperta spiando dal buco della serratura Capi di Governo e di Stato mentre facevano la doccia in costume adamitico. La reazione più appropriata sembra quella bonaria e in realtà tagliente del Vaticano, il cui attuale Pontefice dimostra di possedere mirabilmente la grande ironia cattolica. Alla notizia che i servizi segreti americani avrebbero intercettato pure le telefonate di Papa Francesco, la risposta è stata «Non ci risulta e comunque non abbiamo nulla da nascondere». A questa faccenda che ha fatto tanto chiasso la Chiesa ha dedicato pochi secondi. Certo, purtroppo neanche un Papa ardito e originale come Francesco può permettersi un linguaggio più colorito e che sarebbe ancora più appropriato; ad esempio quello di una vecchia storiella triestina, che racconta di un tale il quale riteneva che le sue telefonate venissero origliate e registrate e allora, ogniqualvolta sollevava la cornetta, diceva per prima cosa: «Mona chi scolta».
«Il Corriere della Sera» del 3 novembre 2013

11 marzo 2014

Gender, deriva culturale che vuole negare la realtà

di Vittorio Possenti
Il tentativo di inserire un nuovo ostacolo tra scuola e famiglia con l’iniziativa dell’Unar di diffondere nelle scuole opuscoli all’insegna dell’ideologia del gender (Lgbt) è una prova ulteriore del terremoto antropologico in atto che cerca di indirizzare l’insegnamento secondo nuove ideologie, e dei rischi per il compito educativo primario che spetta alla famiglia.
La rivoluzione in corso scalza tradizioni millenarie e attraverso i grandi media mondiali propaganda una "nuova antropologia secolare". Questa rifiuta l’idea di una natura umana comune a tutti, e ritiene che l’essere umano sia una mera costruzione sociale in cui emergono la storicità delle culture, la decostruzione e la relatività delle norme morali, la centralità inappellabile delle scelte individuali. Nel caso della famiglia e della procreazione ciò implica che maternità e paternità siano realtà costruite socialmente, che possono essere liberamente ridefinite. Non vi sarebbe alcuna definizione stabile dei relativi ruoli, ma tutto risulterebbe sfuggente e malleabile. Si vuole insegnare che la famiglia padre-madre-figlio è una forma come un’altra di convivenza.
Lo tsunami antropologico si appella alla tecnica, alla libertà insindacabile dell’individuo, alla manipolazione del linguaggio, nel chiaro intento di formare una nuova comprensione dell’essere umano. La nuova antropologia secolare in grande spolvero non solo espone una versione dell’esistenza umana lontana dall’antropologia della tradizione, ma riesce ad influenzare i programmi e le politiche di molte organizzazioni internazionali, e ad essere presente in modo massiccio sui media mondiali. È divenuta l’antropologia di tante scienze sociali, ed un’ispirazione per la giurisprudenza.
Ne segue una seria difficoltà a far circolare una visione antropologica diversa, poiché quella "secolare" è considerata ovvia, autoevidente e scarsamente bisognosa di argomenti avvaloranti. Si avverte ad ogni livello, compreso quello del gender, il tentativo di cambiare la realtà attraverso alterazioni del linguaggio. L’operazione linguistica è facile da scoprire: basta escludere i termini naturali e venerabili di padre e di madre, di uomo e di donna, ed adottare quelli neutri di genitore A e di genitore B per manipolare la realtà. Quest’ultima rimane quella che è e che è sempre stata, ma nel contempo attraverso operazioni nominalistiche si cerca di trasformare la testa delle persone mediante un cambiamento di linguaggio. Si dice: maschi e femmine si nasce, uomini e donne di diventa; hai 14 anni e sei maschio, ma se vuoi puoi diventare donna.
In certo modo il gender ha reso obsoleto il primo femminismo, quello della competizione fra uomo e donna secondo cui la donna, per essere se stessa, si deve costituire quale antagonista dell’uomo. Nella questione del gender la base biologica è pienamente disponibile per il soggetto: la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è ritenuta primaria. La differenza sessuale non si fonderebbe su una realtà biologica: anzi i confini tra uomo e donna non sarebbero naturali ma mobili e culturali, e l’identità sessuale diventa una scelta libera, mutabile anche più volte nella vita di una persona. In tal modo la teoria del gender può essere impiegata per favorire il punto di vista di determinate categorie. E ciò può diventare un’agenda politica per il futuro, in modo da contrattare continuamente il confine tra il culturale-modificabile e il naturale-immodificabile.
In breve l’essere umano non avrebbe più alcuna natura o essenza ma sarebbe solo un prodotto sociale, l’esito esclusivo della costruzione della propria identità. Ma chi propugna l’ideologia del gender ha mai osservato un bambino od una bambina che giocano, e che nel gioco esprimono intensamente la loro differenza? All’origine di tale ideologia stanno le culture della piena liberazione sessuale degli anni 60 (W. Reich), della cancellazione delle differenze, della psicanalisi trionfante, l’incrocio tra antropologia americana e strutturalismo francese.
Era la società repressiva che occorreva assolutamente abbattere: «Fate all’amore, non fate la guerra», come se il fare all’amore tolga di per sé la quota di violenza insita in noi. Salvo poi ad accorgersi che né il desiderio era saziato, né la violenza esorcizzata. Se sostiamo ancora un momento sul piano antropologico, si coglie che nella questione del gender, ed in quella connessa dell’unione omosessuale cui si vuole attribuire il nome e lo status di matrimonio, si manifesta in sommo grado il rifiuto del principio di realtà, del common sense e uno scatenato nominalismo, secondo cui basterebbe cambiare i nomi per cambiare le cose.
Chiamare matrimonio e famiglia l’unione omosessuale che è intrinsecamente infeconda, significa appunto non voler fare i conti con la realtà e dare rilievo ai nomi invece che alle cose. E questo non è un buon biglietto da visita per una civiltà che può continuare a fiorire se non "delira", ossia se non esce dai solchi del reale. Secondo la mia opinione i tribunali ed i parlamenti che istituiscono la "famiglia omosessuale" oltrepassano quanto a loro è consentito e diventano espressione di un positivismo giuridico illimitato, in cui niente vale di per sé e tutto è contrattabile.
Cancellando le differenze tutto diventa una melassa indistinta dove A vale B, anche se A e B sono diversi. L’obiettivo primario rimane quello di dissolvere l’identità maschile e quella femminile, che rimanendo distinte formano la realtà dell’umano. Al principio dell’umano non sta infatti l’uniformità ma la differenza. Naturalmente i sostenitori del gender si appellano alla non discriminazione.
Ma dal fatto ovvio e condivisibile che è doveroso respingere ogni discriminazione in ambito civile, sociale, lavorativo e offrire pari opportunità non segue affatto l’esistenza di un diritto a tutto: anzi trattare diversamente cose diverse è un necessario atto di giustizia, di ragionevolezza e di chiarezza. Dire che Anna è donna e madre, e Paolo uomo e padre è la pura verità, e sarebbe follia negarlo. Quindi stiamo attentissimi a non impiegare indiscriminatamente il pur importante criterio di non-discriminazione, perché alla fine ne sortiranno mortali assurdità.
Per egualizzare tutto e neutralizzare tutto possiamo chiamare mele le pere in modo da cancellare ogni differenza tra i frutti? In altre parole, al di sopra del criterio valido di non discriminare ingiustamente negli ambiti civili e lavorativi sta il principio di realtà che esige che soggetti e situazioni che sono e rimangono diversi non siano confusi ma accostati e trattati diversamente.
«Avvenire» del 5 marzo 2014

La Grande Bellezza è il desiderio e la risposta

di Alessandro D’Avenia
«Ho cercato la grande bellezza», dice il protagonista dell’omonimo film, alla fine del suo percorso umano e spirituale. «E non l’ho trovata». È la constatazione rassegnata. Rimane solo la promessa non mantenuta di un amore giovane e freschissimo. La realtà purtroppo è un grande trucco, provoca illusioni e conseguenti delusioni. Si vive di sogni o di ricordi. Il velo di Maia copre il nulla.
La prima parte del film di Paolo Sorrentino in corsa per l’Oscar è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal torpore esistenziale e letterario dei meandri quasi infernali delle feste romane, «i cui trenini sono i più belli perché non portano da nessuna parte», per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché "spirituali": un vescovo in odore di papato e una suora austera fino a destare paura. Ma validi non si dimostrano: il primo perché carnale, la seconda perché angelica. Nessuno dei due è spirituale, nel senso di albergare la vita dello Spirito nella carne.
Il vescovo alla confidenza del protagonista sulle sue inquietudini spirituali si allontana o cambia discorso parlando di carne e vino (non quelli eucaristici). La suora, soprannominata "la Santa", invece mangia radici e dorme per terra. Proprio lei in una scena suggestiva raduna attorno a sé bellissimi uccelli di cui dice di conoscere «il nome di battesimo», e li fa volare soffiando loro sopra, nell’alba, un frammento di grande bellezza in cui il creato è l’alfabeto che Dio usa per dialogare con l’uomo.
Ma la santità capace di questo – scavata in uno sguardo perso nel vuoto, in rughe profondissime ma senza la vitalità di madre Teresa, nella salita slogata e dolorosa della Scala Santa – è un modello lontanissimo per l’uomo di tutti i giorni, figuriamoci per il protagonista dandy disilluso, timidamente in cerca di un paradiso non artificiale.
La narrazione cinematografica riconosce quindi la Chiesa come ultimo interlocutore e le chiede ragione della speranza (che è la grande bellezza del cristianesimo) che dice di avere. Ma il vescovo (carne senz’anima) e la Santa (anima senza carne) non hanno risposte appetibili per l’uomo del mondo che, del mondo nichilista ed edonista, ha riconosciuto "il trucco".
L’uomo del mondo chiede dove siano uomini del mondo come lui, ma con risposte. Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere. Dove sono i fedeli laici immersi nel mondo, «come l’anima nel corpo», si diceva dei primi cristiani? Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per il non plus ultra nel quotidiano?
Eppure, la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo. La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia... e ha reso quindi ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva quella singola e apparentemente insignificante esperienza. Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi, trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha un lavoro e una famiglia.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, se reintroduciamo la contemplazione all’interno dell’azione quotidiana, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento. Ma questo è possibile solo grazie a una vita dallo "stile sacramentale", in cui il visibile rimanda a una pienezza di cui è ombra: «...la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno». Sono parole della Lumen fidei (n.40), che forse potremmo prendere sul serio.
È impossibile contemplare senza vita sacramentale, perché la trasformazione è gratis data sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni singolo uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, le sue bollette e il traffico. Quel tocco divino che rivela nell’agire ordinario la grande bellezza, che non è da mettere nelle cose ma è nelle cose e nelle persone, perché ce l’ha già messa Dio.
Contemplativo può essere chiunque risponda a questa chiamata continua, reale, forte nella vita ordinaria: sul tram, in macchina, in cucina, a tavola. Solo nel sacramento lo sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto si aprono alla grande bellezza, che quotidianamente balugina nelle 24 ore e fa nuove tutte le cose di quelle 24 ore. E si trova non solo nel silenzio di una chiesa, ma nel caricare una lavatrice e nel fare una lezione, nell’inserire dati in un computer e in una passeggiata al parco, nell’ascoltare musica e nel chiacchierare con un amico... In tutto, perché tutto è grazia e tutto è buono per chi crede. Il mondo diventa tempio, pur mantenendo l’autonomia che Dio gli ha conferito.
Ma solo chi vive sacramentalmente la vita vede la vita per quello che è: frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento. Il cristiano contemplativo è il vero edonista: immerso nel mondo senza esserne sommerso. Dio è un padre che si china su un bambino e gli regala il mondo perché giochi con lui. Dio non è una dottrina astratta per pochi o una serie di leggi impossibili da rispettare. Dio è un gioco padre-figlio, un gioco impegnativo come tutti i giochi divertenti.
La grande bellezza, la grandissima bellezza, è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scovata dalla contemplazione nell’agire quotidiano, l’ancoraggio a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti "risorgono", i gesti tutti, e la loro grandezza non è determinata dal loro incerto successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro.
Troppo cristianesimo triste – papa Francesco ha detto recentemente che «i cristiani tristi non credono nello Spirito Santo» – assomiglia a quelle coppie in cui l’amore dato per scontato si spegne, non viene più espresso, celebrato, festeggiato. Il mondo non è più il teatro dove l’altro si muove, ma ritorna muto e ripetitivo. Lo stile non è più luminoso e aperto, ma grigio e ripetitivo, ripiegato su di sé.
Non c’è più nessuna liturgia amorosa, non c’è più segno che ricordi l’altro: nessuna foto nel portafogli o sulla scrivania, nessun piatto preferito in tavola. Solo se cerchiamo di affermare, approfondire, rendere consapevole e impegnativo l’amore di Dio, allora tutto in noi si trasforma, come un giovane che s’innamora, o come un amore che dimora nella giovinezza.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario. Senza questo la vita è dis-graziata, esiliata dalla grazia. Del bianco delle vesti di Cristo, nella Trasfigurazione, ci viene detto che non poteva ottenerlo nessun lavandaio. Le vesti, persino le vesti, a contatto con la carne del Verbo, diventano luce e bellezza. Persino i vestiti diventano segno di Dio, stilista impareggiabile già dell’erba del campo, figuriamoci dell’uomo che per le strade faticose del mondo brama la Grande Bellezza.
«Avvenire» del 29 gennaio 2014

Ancien Régime

di Massimo Gramellini
L’altra sera in televisione è accaduto qualcosa di inedito. Un premier apparentemente di sinistra, ma di sicuro installato da elettori di sinistra al vertice del principale partito della sinistra, attaccava i sindacati su una rete di sinistra, tra gli applausi incontenibili del pubblico in studio. Ascoltati dal retropalco, quegli applausi erano ancora più impressionanti: molti spettatori battevano addirittura i piedi. E non si trattava di una feroce setta di capitalisti o del fan club di Brunetta, ma di persone normali che avevano appena chiesto l’autografo a Sorrentino e un’ora dopo si sarebbero messe in coda col telefonino per farsi immortalare accanto alla Littizzetto. La cordiale ostilità verso i sindacalisti ricorda quella verso i giornalisti, gli uni e gli altri assimilati ai politici per varie ragioni. Intanto perché li frequentano assiduamente, al punto che talvolta diventano politici anche loro. E poi perché, a torto o a ragione, vengono considerati collusi col potere anziché suoi fieri contraltari.
La difesa dei garantiti ha tolto autorevolezza ai sindacati, vissuti dalle fasce sofferenti della popolazione come una forza conservatrice e ostile al merito, in nome di un concetto asettico di uguaglianza che finisce sempre per deprimere i più volenterosi. L’altro applauso, domenica sera, Renzi lo ha incassato quando ha detto che i cassintegrati andrebbero impiegati nelle biblioteche. A qualcuno sembrerà incredibile, ma a molti italiani persino un cassintegrato sembra un privilegiato. E la Cgil - come Confindustria, del resto - un simbolo dell’ancien régime che ha arrugginito il Paese.
«La Stampa» dell'11 marzo 2014

08 marzo 2014

Rinascimento addio? Idea di dignità

È incontestabile la portata della svolta che rivoluzionò la letteratura, le arti, la religione e il sapere scientifico
di Giuseppe Galasso
Le Goff sbaglia

Quella primavera svegliò il mondo rivendicando la dignità dell’uomo

«Tagliare la storia a fette». Lo si dice per indicare la «storia a cassettini»: in uno la politica, in un altro l’economia, e così via; oppure per fare fronte alle implicazioni dello specialismo, che parcellizza scienza e tecnica; oppure per le varie epoche e tempi in cui si suole ripartire la fitta trama della storia. Su quest’ultima questione, in particolare, la discussione non è nuova. Divampò nella storiografia europea già tra Ottocento e Novecento. Da un lato c’era chi definiva un arbitrio le scansioni cronologiche, che, introducendovi fratture o «svolte» che la vita e la storia non conoscono, ne rompono l’ininterrotta corrente. Dall’altro lato c’era chi opponeva a ciò la realtà obbligante dei vari momenti della storia, per cui fare storia è, anzitutto, periodizzare.
Al taglio della storia in fette cronologiche si è applicato Jacques Le Goff con tutta la sua notoria, amplissima dottrina. Se ne occupa, in particolare, riguardo a Medioevo e Rinascimento. Lo fa, è ovvio, con tutta la sua esperienza di studioso, si può dire, di ogni piega e risvolto, innanzitutto, di Medioevo e dintorni; e lo fa anche come studioso che al tempo nella storia ha dedicato pagine fondamentali come quelle sul «tempo della Chiesa» e sul «tempo dei mercanti».
Nel nuovo libro il suo obiettivo è, in effetti, il Rinascimento: periodizzazione inutile e infondata, a suo avviso, in un corso storico ininterrotto dalla fine dell’età antica fino al secolo XVIII, che forma un lunghissimo Medioevo. Fino all’ultimo quest’epoca conserva i suoi caratteri di fondo e cioè, anzitutto, la visione cristiana della vita. Ad essa appartengono anche Cristoforo Colombo e Shakespeare: il primo cercava qualcosa in nome della sua fede cristiana, il secondo riflette e drammatizza il mondo tipicamente medievale di nobili, borghesi, ebrei, in cui viveva. Il cosiddetto Rinascimento non fa che prolungare il Medioevo, così come la Riforma protestante. Ciò sarebbe vero anche sul terreno della storia dell’arte, ossia nel dominio in cui meno ci si aspetterebbe una tale affermazione. Nella musica solo con Mozart si avrà il passaggio dall’artista artigiano all’artista indipendente, che è il segno della modernità. E così via, tra le luci suggestive di una sempre fervida immaginazione storica.
Quanto a rimanerne persuasi, è un’altra cosa. Un lunghissimo Medioevo (di 1500, non di 1000 anni) è stato teorizzato anche da altri e da tempo. Il Rinascimento, poi, è già in disgrazia, essendo caduto nel tritatutto di un revisionismo pregiudiziale e integrale, come tante altre nozioni (Medioevo compreso) della storiografia europea.
Ad esempio, che senso ha continuare a chiamare Medioevo quei presunti 1500 anni? Età di mezzo tra antichità e modernità? Ma tutte le epoche storiche sono età di mezzo tra un passato e un futuro (quando c’è). Nella storiografia europea quel nome aveva un senso. Indicava un periodo oscuro, buio, di povertà artistica e culturale, cui aveva posto fine la grande primavera umanistica del Rinascimento, di cui l’Umanesimo era il contrassegno-principe.
Umanesimo il cui nome non era casuale, poiché presumeva che la rinascita, ossia il ritorno all’eccellenza artistica e culturale avveniva ed era intesa in rapporto a un concetto dell’umano, in cui quell’eccellenza era il contrassegno della dignità dell’uomo e di ciò che dell’uomo è degno. Poi il concetto si allargò. La Riforma si pose come rinascita dell’originario Cristianesimo evangelico. Le scienze riconobbero un loro nuovo inizio, che superava gli antichi in quella che noi definiamo «rivoluzione scientifica». Con l’Illuminismo la modernità teorizzata dai primi umanisti comprese tutti i campi della vita civile e, a sua volta, il Medioevo si fece ancora più buio. E non parliamo delle ripercussioni culturali, religiose, economiche, politiche della scoperta dell’America, già evidenti dalla metà del Cinquecento.
Peraltro, col tempo la storiografia moderna tese anche a riempire quell’oscurità di un alto senso storico, a vedervi sempre più una sua grande anima, nonché il travagliato processo che aveva partorito la società dell’Europa moderna, passando attraverso la rivoluzione culturale umanistico-rinascimentale. E ciò senza contare la scoperta e valorizzazione di tutte le luci, anche artistiche e culturali, e la finale fase di sviluppo demografico ed economico dei «secoli bui», per cui non si contano più le «rinascite» e i fermenti di modernità ravvisati nel vecchio Medioevo, senza rinunziare, peraltro, alla grande idea dell’Umanesimo e del Rinascimento come momento epocale della storia europea. Della storia europea, beninteso, ché fuori dell’Europa le nostre partizioni non hanno senso, così come non hanno senso per noi quelle cinesi, indiane, dell’islam e di altri (ma ora il nuovo verbo della World History ci assicura che anche questa vecchia idea sarà superata). Sta il fatto però che le partizioni europee sono quelle della parte del mondo che del mondo negli ultimi cinque secoli ha guidato il corso, e che, quindi, le sue partizioni hanno un particolare rilievo.
In tali partizioni il Rinascimento ha un luogo inaugurale che, per quanto ci si possa sforzare di disconoscerlo, è destinato a resistere e non è riducibile a una delle tante «rinascite» medievali venute poi di moda. I concetti storiografici che via via sorgono nel caldo stesso delle vicende storiche (come Medioevo e Rinascimento) hanno sempre basi e ragioni che non è lecito ignorare o sottovalutare. All’Oriente musulmano e bizantino l’Europa dei «secoli bui» appariva «barbara». Ci sarà stata qualche ragione. Gli europei dal secolo XV in poi parlavano di rinascita delle arti, delle lettere e delle scienze e se ne sentivano protagonisti. Avranno avuto anch’essi una qualche ragione.
Disconoscendo queste ragioni nate nel vivo del corso storico si ottiene solo di rendere tutto più confuso, indistinto. Rifiutando le ragioni dei contemporanei, si perde, infatti, un elemento storico, che, esso almeno, è un dato di fatto indubbio, e si entra in un gioco di «Lego» storiografico aperto a tutte le soluzioni. Il Medioevo potrebbe essere reso ancora più lungo e considerato alla fine solo con l’inizio dell’era digitale. Oppure, più breve, e finito già (e non sarebbe troppo male) con l’anno Mille, quando l’Europa cominciò a vestirsi di «una bianca veste di chiese» ed ebbero inizio tante altre cose, che anche il Rinascimento ereditò belle e fatte. A che giova?
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Perché Le Goff ha ragione

L’età dei miracoli è un’invenzione. Il parto della Modernità durò secoli
di Franco Cardini
La spinta verso l’innovazione risale almeno al Duecento ma roghi e oscurantismo bigotto furono duri a morire

Nel suo ultimo successo editoriale, Jacques Le Goff torna a presentarci una sua tesi forte che non è ancora stata recepita come dovrebbe, soprattutto da noi: quella di un «lungo Medioevo», che affonda le sue origini nella tarda Antichità e si protende tra XII-XIII e XVIII secolo, segnato da una sostanziale continuità nel mutamento. Lo strumento dialettico di cui egli si serve è il «disincanto» weberiano. Che cosa sono difatti l’«Antichità », il «Medioevo», il «Rinascimento», se non concetti convenzionali che c’illudono di controllare quel vivo flusso di eventi, di istituzioni, di strutture ch’è la storia?
Facciamo qualche esempio. Alla parola «Antichità» fu solo Montaigne, nel 1580, ad attribuire il senso che gli diamo noi: prima di lui, non si era fatto che polemizzare su ciò che fosse meglio, se quel ch’era «antico» o quel ch’era «moderno»; e si continuò anche dopo. Il «Medioevo», poi, se lo inventarono alcuni intellettuali tre-quattrocenteschi, a cominciare dal Petrarca, convinti che dopo la grande e perfetta stagione greco-romana, culminata con l’era augustea, il mondo fosse precipitato in una «età di mezzo» fatta di barbarie e di superstizione, dalla quale si era emersi solo ai loro giorni. Tre-quattro secoli dopo, alcuni illuministi ripresero e aggravarono la mistificazione umanistica: ed ecco il «buio Medioevo» di Voltaire e dell’Encyclopédie.
Ma, dopo la rivalutazione di quello stesso periodo in età romantica, furono gli intellettuali dell’Ottocento come Michelet e Burckhardt a riproporci un’Europa liberata dalle tenebre, inventando il nome stesso di un’età felice, tra Quattro e Cinquecento, nella quale la bellezza, l’armonia e la ragione antiche sarebbero prodigiosamente rinate: appunto la Renaissance, il «Rinascimento». Quel concetto attecchì soprattutto in Italia, sia perché essa ne era indicata come la culla, sia perché gli italiani, che non avevano conosciuto alcun Grand Siècle, alcun Siglo de Oro, dopo il Cinquecento scorgevano solo il trionfo dell’ignoranza, della repressione inquisitoriale, del barocco crocianamente inteso come «brutto», dell’oppressione straniera. Per questo sono soprattutto gli italiani a doversi liberare dal pregiudizio di un Rinascimento come breve e intensa stagione dei miracoli.
Ed ecco l’implacabile rullo compressore del disincanto legoffiano. Il Rinascimento sarebbe stato l’età della scoperta dell’individualismo, della liberazione della vita dalle pastoie dell’ipoteca religiosa, del razionalismo, dell’individuazione del bello nelle arti e nella musica, del razionalismo filosofico, dell’ampliamento del mondo con le scoperte geografiche e del perfezionamento delle risorse umane con le invenzioni? Vediamo.
Nessun dubbio sul prodigioso rinnovamento, specie artistico e intellettuale, verificatosi in Italia e soprattutto in città come Firenze (ma non solo) durante il Quattrocento. Il fatto è che esso era stato già anticipato e preceduto da una lunga serie di fasi innovative (a loro volta definibili come «Rinascimenti») in età carolingia, poi ottoniana, quindi e soprattutto fra XII e XIII secolo: la grande età del ritorno in Occidente della filosofia greca attraverso le traduzioni dall’arabo, insieme con la matematica, la medicina, l’astronomia-astrologia; della riscoperta della natura con la scuola di Chartres e l’arte gotica; dell’affermarsi di un robusto senso estetico, come ha dimostrato Umberto Eco; il momento nel quale si cominciarono anche ad affinare quegli strumenti creditizi che avrebbero preparato l’avvento dell’economia capitalistica; e in cui invenzioni come la bussola, la velatura mobile e il timone assiale, insieme con gli sviluppi cartografici, gli avvii dell’uso delle armi da fuoco e le prime esplorazioni oceaniche, aprirono la strada alla grande stagione di Colombo e di Vasco de Gama, mentre in politica dalle monarchie ancora «feudali» si sviluppavano, a cominciare dalla Francia del Due-Trecento, i precedenti dello Stato assoluto.
Quella dinamica, avviata prima del Rinascimento, si concluse solo molto più tardi. Individualismo e secolarizzazione dovettero combattere a lungo, in pieno Cinquecento, con un duro ritorno dell’autoritarismo religioso in area tanto cattolica quanto protestante: e solo fra Sei e Settecento si affermarono sperimentalismo, sensismo e perfino libertinismo.
Allo stesso modo, è vero che le scoperte geografiche cambiarono il volto dell’Europa: ma per questo ci vollero due secoli di lenta penetrazione delle novità. Ne sono simboli le nuove colture come il pomodoro e la patata, importate ai primi del Cinquecento, che solo dal secolo successivo intervennero a mutare costumi alimentari e convinzioni dietetiche: nello stesso periodo in cui si avviava il declino dei generi di vita tradizionali, con i loro ritmi e costumi. E il tutto avvenne non senza fasi di ristagno e d’inversione di tendenza. La grande tradizione magica sapienziale, che avrebbe condotto a Bruno e a Campanella, è frutto del Medioevo: mentre il «luminoso» Rinascimento fu tale anche perché di continuo rischiarato dai roghi di eretici e streghe. Sarebbe un escamotage troppo comodo attribuire tutto il male al Medioevo e tutto il bene al Rinascimento, presentando come «anticipazioni della Modernità» tutti gli aspetti del primo che ci sembrano positivi e ricacciando nelle nuove «tenebre del Medioevo» tutti i fenomeni regressivi dei quali la Modernità è punteggiata.
La gestazione della Modernità fu lunga e complessa: durò oltre mezzo millennio, dal XII secolo, che avviò il processo della «ragione naturale» abelardiana, fino alla prima rivoluzione industriale e quindi alle due rivoluzioni politiche del Settecento. Il «lungo Medioevo» di Le Goff è, appunto, il tempo di questa dinamica che condusse l’Europa a rendersi padrona del mondo. Tale grande stagione fu tuttavia sigillata da quella che già negli anni Trenta del secolo scorso Paul Hazard denunziava come la «crisi di coscienza» settecentesca; e di recente sembra giunta alla sua eclisse.
«Corriere della Sera» di marzo 2014

04 marzo 2014

Care icone rosse, raccontateci il vostro passato da vergogna

Articoli su "Roma fascista" e firme contro Calabresi. Militanza nella Rsi e imbarazzi. Quel che la sinistra non dice
di Luigi Mascheroni
L'intervista è la regina e insieme la puttana del giornalismo: se l'azzecchi esce il capolavoro, se sbagli domande è il disastro.
L'intervista di Daria Bignardi al grillino Alessandro Di Battista, in cui si insisteva sul passato fascista del padre (di lui), è stata un capolavoro o un fallimento? E l'intervista virtuale di Rocco Casalino a Daria Bignardi, in cui si insisteva sulla condanna come mandante di omicidio del suocero (di lei), è una caduta di stile o una mossa mediatica?
A proposito di intervista virtuale. Ecco un campionario di domande tabù ad uso di giornalisti coraggiosi che vogliano sfidare i mammasantissima del circo mediatico. Domande indicibili, per gli intoccabili. Ci sarà qualcuno capace di mettere in imbarazzo i soliti belli, buoni e santi? Perché a far le domande scomode ai berlusconiani brutti e cattivi sono capaci tutti. E quindi è arrivato il momento della prima intervista barbarica, in coppia!, a due Grandi Vecchi della cultura italiana, due padri della Patria, due difensori dei valori democratici di una Repubblica nata sul sangue della Resistenza e sul sacrificio di un'intera generazione di giovani che seppero gridare alto il loro NO al fascismo, Signore e signori, Eugenio Scalfari e Dario Fo... Applausi. Prego, accomodatevi. Che onore avervi qui, anzi Onore al Duce. Bene, iniziamo da Lei, Scalfari. Ci racconti un po'... Com'era lavorare per Roma Fascista? E collaborare con una rivista squadrista come Nuovo Occidente? Ci dica, secondo Lei, che è un grande liberale, in quegli anni c'era più o meno libertà rispetto al ventennio berlusconiano? No, dài, non si schermisca: è Lei, insieme agli intellettuali di riferimento di Repubblica come Asor Rosa, Eco e Camilleri, a sostenere che il berlusconismo sia peggio del fascismo... Allora? E Lei, Fo, mi dica: l'essersi arruolato volontario nella Rsi, paracadutista nel “Battaglione Azzurro” di Tradate, è per Lei motivo di orgoglio o di vergogna? La sua militanza a Salò venne fuori solo negli anni '70: perché Lei non ne parlò mai? La mette in imbarazzo? No... vero? Ci dica... Ha mai sparato a un partigiano?
A proposito di antifascisti. E lei, Barbara Spinelli, che dalla Stampa troppo poco antiberlusconiana nel 2010 ha deciso di tornare a Repubblica, un foglio dove davvero un giornalista può trovare tutta la libertà necessaria al proprio pensiero e alla propria scrittura, ci dica: com'è lavorare con un direttore come Scalfari, che mentre suo padre Altiero era al confino a Ventotenne, dirigeva Roma fascista? Avete mai parlato di queste cose?
No, dico questo perché è una notizia di ieri che le colpe dei padri ricadano sui figli... E il rapporto padre-figlio, come quello di suocero e nuora, è molto delicato. Signore e signori, è arrivato il momento di Mario Calabresi. Applausi. Bene, si accomodi. Allora, Lei oggi dirige la Stampa, ma per anni è stato caporedattore centrale a Repubblica: cosa si prova a passare tutti i giorni i pezzi di uno condannato come mandante dell'omicidio di suo padre? Ci faccia capire bene: sono cose importanti, alla gente che ci ascolta da casa interessano, eccome. Lo so, toccare il tasto Calabresi è scomodo, ma le domande tabù vanno fatte. Lei, Paolo Mieli, e lei Eco, e Lei Oliviero Toscani: nel '71, insieme con tanti altri intellettuali, firmaste la lettera aperta a L'Espresso contro il commissario Calabresi, ammazzato da Lotta Continua. Deprecabile, vero? Parliamone: lo rifareste oggi?
A proposito di appelli. E Lei Vauro? Assieme ai Wu Ming e molti altri, ha firmato il manifesto che difende un terrorista, assassino e latitante come Cesare Battisti. Ci racconta come è andata? Ha mai incontrato i famigliari delle persone ammazzate da Battisti? Li ha abbracciati? Ha portato loro dei romanzi di Battisti? A proposito, nell'elenco dei firmatari, all'inizio, c'era anche Lei, Signore e signori..., Roberto Saviano. Poi si tirò indietro. Ce ne parla? E ci parla del suo processo per plagio? Alcune parti di Gomorra sono state copiate da articoli di altri giornalisti, senza citazione - No Corrado Augias, non sto parlando con Lei, dei suoi libri bruciati e copiati parliamo nella prossima intervista - Mi scusi, Saviano, dicevo: allora, cos'è successo? La Mondadori è molto sensibile su questa cosa del plagio... Anche adesso che Lei è passato a Feltrinelli? Saviano, a proposito, ma è vero che Lei da piccolo frequentava a Napoli le palestre dove boxavano i ragazzi del Fronte della Gioventù? È solo una voce, giusto? O è la solita macchina del fango? No, lo dico perché sa com'è: ormai quando uno tira fuori il passato fascista di qualcuno - fosse anche il padre di un grillino - tutti gridano alla macchina del fango ...
«Il Giornale» del 5 febbraio 2014

Il cyber-bullismo fa paura agli adolescenti

s. i. a.
Un pericolo. Molto Serio. ll cyber-bullismo e il sexual-bullying on-line sono avvertiti come tali dal 72% dei ragazzi tra i 12 e i 17 anni e i social network, sono ritenuti, per il 61% degli adolescenti, la modalità d'attacco preferita.
È quanto emerge da una ricerca sul bullismo anche sessuale su internet condotta dalla cooperativa onlus Pepita che ha lanciato la campagna educativa «Io clicco positivo». L'indagine, condotta con interviste dirette a scuola, in oratori e discoteche, a circa 2.000 minorenni, è stata presentata oggi in un incontro, organizzato da Renzo Magosso dell'Associazione lombarda dei giornalisti (Alg), al Circolo della Stampa di Milano.
E si è parlato di tanti fatti di cronaca: giovanissimi accusati di essere gay o ragazzine fatte passare per prostitute e che talvolta non reggono più e decidono di farla finita; pestaggi violenti ripresi e messi in Rete, messaggi e filmati personali finiti on-line con conseguenze gravi per chi ne è inconsapevole protagonista. Di solito si colpisce la vittima con la diffusione di foto e immagini denigratorie o tramite la creazione di gruppi contro.
L'85% degli interpellati ha ammesso di aver mentito o di mentire su internet riguardo alla propria età; il 98% dispone di un cellulare che si collega alla Rete e il 95% di questi si collega con WhatsApp. Il 70%, altro dato preoccupante, naviga senza alcun controllo dei genitori e il 10% ha assistito a episodi di cyber-bullismo o si è sentito un cyber-bullo. E ancora: solo il 10% di chi è stato vittima di cyber-bullismo ha avuto il coraggio di parlarne con qualcuno e il 70% dei ragazzi che hanno un profilo Facebook ignora che tutto il materiale pubblicato diventa di proprietà del social-network e che anche cancellando foto, video o post il tutto rimane comunque on line.
«Gli adolescenti non devono essere lasciati soli nel senso della solitudine - ha sottolineato Luisa Poluzzi, direttore generale di Gsa (Giornalisti specializzati associati) - bisogna trovare un punto di incontro nel loro linguaggio perché a quella età il gruppo diventa importantissimo. Tendono a escludere il resto del mondo e allora può capitare un cortocircuito che li fa diventare vittime o cyber-bulli».
Per il presidente di «Pepita» Ivano Zoppi la campagna «Io clicco positivo» vuole creare il messaggio più lungo del mondo e cioè che di cyber-bullismo bisogna parlare tutto l'anno. I ragazzi posseggono tanti strumenti, ma spesso non hanno la capacità di usarli correttamente, di distinguere il male dal bene e qui è forte il richiamo agli adulti, agli educatori, di stare vicino a questi ragazzi».
«Avvenire» del 26 febbraio 2014