Esce lunedì L’arte di essere fragili, l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia: “Il poeta ci insegna ad accettare la paura per potersene liberare”
di Alessandro D’Avenia
Esiste un metodo per la felicità duratura, uno stare al mondo che dia il più ampio consenso possibile alla vita senza rimanere schiacciati dalla sua forza di gravità, senza soccombere a sconfitte, fallimenti, sofferenze, anzi trasformando questi ultimi in ingredienti indispensabili a nutrire l’esistenza? Si può imparare il faticoso mestiere di vivere giorno per giorno in modo da farne addirittura un’arte della gioia quotidiana?
Giunto alla soglia dei miei quarant’anni, tempo fecondo di bilanci, il segreto di quest’arte di esistere senza paura di vivere, o meglio accettando anche la paura, credo di averlo trovato, ed è quanto di più prezioso io abbia. In queste pagine, caro lettore, vorrei raccontartelo, come in una chiacchierata fra amici, magari nella penombra di una sera senza incombenze. Anzi, preferirei che te lo raccontasse l’amico che me lo ha svelato, colui che quando avevo diciassette anni varcò la soglia di camera mia per non uscirne più. Nella nostra stanza facciamo entrare solo chi ha il diritto di vederci scoperti, senza difese, persino nudi. (…)
Pensa, lettore, a ciò che ti sta accadendo adesso, all’atto di sconsiderata fiducia che si consuma nel leggere un libro al fuoco antichissimo e moderno di una lampadina, nella condizione orizzontale del proprio letto: stai permettendo a un estraneo di entrare nella tua notte, il momento in cui abbassi le difese. Con questo gesto affronti la paura del buio e ti rendi disponibile al mistero.
Così è accaduto a me con chi mi ha svelato il segreto de la felicità, l’ultimo a cui avrei pensato, da ragazzo, di concedere la chiave della mia stanza: Giacomo Leopardi.
(...)
Aprirsi al mistero
Leopardi ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi erano sensi finissimi, da «predatore di felicità». A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla Terra; per questo ebbe un destino scelto e non subìto, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi, e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni.
In queste pagine pongo domande (la letteratura serve a fare interrogativi, non interrogazioni) e rispondo a Leopardi, che mi ha a sua volta accolto amorevolmente nelle sue «stanze» (così si chiamano le strofe delle poesie) scrivendomi lettere accorate e vigorose: questo è un epistolario intrattenuto con lui in uno spazio-tempo creato dall’atto della lettura, lo spazio-tempo della bellezza, che vince sul tempo misurato dagli orologi ed espande la vita come solo amore e dolore, scrittura e lettura possono fare.
Ma questo libro è anche un atto di fedeltà a due dei progetti mai realizzati da Giacomo. Egli avrebbe voluto scrivere una Lettera a un giovane del ventesimo secolo, come accenna nello Zibaldone nell’aprile del 1827, e mi piace immaginare che a ricevere quella lettera sia stato proprio io, nato centocinquant’anni dopo quella nota, nel secolo verso il quale egli si sentiva proiettato. Leggere ciò che un altro uomo ha scritto è entrare in relazione epistolare con lui: lui ci scrive, noi, a distanza di migliaia di ore, rispondiamo. La poesia è un messaggio in bottiglia, che vive della speranza di un dialogo differito nel tempo. Questo è stata per me, adolescente naufrago nella sua stanza, la poesia di Leopardi.
Le età dell’uomo
L’altro progetto che lasciò incompiuto era un poema, in prosa e versi, sulle età dell’uomo. Costretto a vivere più in fretta di tutti noi, per via delle sue condizioni fisiche, Leopardi mi ha insegnato ad accostarmi alle età della vita con parole precise, rendendole così reali e abitabili, e mi ha aiutato a trovare gli strumenti dell’arte del vivere quotidiano in ogni tappa dell’esistenza, identificando il fine per cui esiste e la passione felice che deve attraversarla e guidarla.
Il libro è quindi diviso in sezioni che segnalano i passi dell’esistenza umana e ciò che può illuminarli dall’interno. Leopardi ha distillato, come si fa con gli ingredienti dei profumi, le tappe che ci accomunano tutti, qualunque siano longitudine e latitudine di appartenenza, qualunque sia la «dote» che la vita ci ha offerto. Queste componenti fondamentali dell’essenza della vita le chiamo: adolescenza, o arte di sperare; maturità, o arte di morire; riparazione, o arte di essere fragili; morire, o arte di rinascere. Arte è ciò che chi ha talento per la vita (tutti) può imparare e migliorare giorno per giorno, perché ogni tappa sia illuminata, guidata e riscaldata da un fuoco che non si spegne, quello della passione felice di essere al mondo come poeti del quotidiano e non stremati superstiti o pallide comparse. Non esclamiamo forse, di un momento di gioia: «È pura poesia»?
La semplicità
Queste pagine non contengono soluzioni semplici, perché semplice la vita non lo è mai, e non lo è stata per Leopardi in particolare, ma suggeriscono come un po’ più semplici potremmo essere noi, con uno sguardo più puro sulla vita (…) e la sua possibile felicità, che, come scrive Leopardi, non ne è che il compimento, per raggiungere il quale «è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro» (Zibaldone, 31 ottobre 1823).
Se ti fidi, lettore, prometto di aiutarti a cercare questa vita e a risvegliare questo amore.
Giunto alla soglia dei miei quarant’anni, tempo fecondo di bilanci, il segreto di quest’arte di esistere senza paura di vivere, o meglio accettando anche la paura, credo di averlo trovato, ed è quanto di più prezioso io abbia. In queste pagine, caro lettore, vorrei raccontartelo, come in una chiacchierata fra amici, magari nella penombra di una sera senza incombenze. Anzi, preferirei che te lo raccontasse l’amico che me lo ha svelato, colui che quando avevo diciassette anni varcò la soglia di camera mia per non uscirne più. Nella nostra stanza facciamo entrare solo chi ha il diritto di vederci scoperti, senza difese, persino nudi. (…)
Pensa, lettore, a ciò che ti sta accadendo adesso, all’atto di sconsiderata fiducia che si consuma nel leggere un libro al fuoco antichissimo e moderno di una lampadina, nella condizione orizzontale del proprio letto: stai permettendo a un estraneo di entrare nella tua notte, il momento in cui abbassi le difese. Con questo gesto affronti la paura del buio e ti rendi disponibile al mistero.
Così è accaduto a me con chi mi ha svelato il segreto de la felicità, l’ultimo a cui avrei pensato, da ragazzo, di concedere la chiave della mia stanza: Giacomo Leopardi.
(...)
Aprirsi al mistero
Leopardi ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi erano sensi finissimi, da «predatore di felicità». A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla Terra; per questo ebbe un destino scelto e non subìto, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi, e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni.
In queste pagine pongo domande (la letteratura serve a fare interrogativi, non interrogazioni) e rispondo a Leopardi, che mi ha a sua volta accolto amorevolmente nelle sue «stanze» (così si chiamano le strofe delle poesie) scrivendomi lettere accorate e vigorose: questo è un epistolario intrattenuto con lui in uno spazio-tempo creato dall’atto della lettura, lo spazio-tempo della bellezza, che vince sul tempo misurato dagli orologi ed espande la vita come solo amore e dolore, scrittura e lettura possono fare.
Ma questo libro è anche un atto di fedeltà a due dei progetti mai realizzati da Giacomo. Egli avrebbe voluto scrivere una Lettera a un giovane del ventesimo secolo, come accenna nello Zibaldone nell’aprile del 1827, e mi piace immaginare che a ricevere quella lettera sia stato proprio io, nato centocinquant’anni dopo quella nota, nel secolo verso il quale egli si sentiva proiettato. Leggere ciò che un altro uomo ha scritto è entrare in relazione epistolare con lui: lui ci scrive, noi, a distanza di migliaia di ore, rispondiamo. La poesia è un messaggio in bottiglia, che vive della speranza di un dialogo differito nel tempo. Questo è stata per me, adolescente naufrago nella sua stanza, la poesia di Leopardi.
Le età dell’uomo
L’altro progetto che lasciò incompiuto era un poema, in prosa e versi, sulle età dell’uomo. Costretto a vivere più in fretta di tutti noi, per via delle sue condizioni fisiche, Leopardi mi ha insegnato ad accostarmi alle età della vita con parole precise, rendendole così reali e abitabili, e mi ha aiutato a trovare gli strumenti dell’arte del vivere quotidiano in ogni tappa dell’esistenza, identificando il fine per cui esiste e la passione felice che deve attraversarla e guidarla.
Il libro è quindi diviso in sezioni che segnalano i passi dell’esistenza umana e ciò che può illuminarli dall’interno. Leopardi ha distillato, come si fa con gli ingredienti dei profumi, le tappe che ci accomunano tutti, qualunque siano longitudine e latitudine di appartenenza, qualunque sia la «dote» che la vita ci ha offerto. Queste componenti fondamentali dell’essenza della vita le chiamo: adolescenza, o arte di sperare; maturità, o arte di morire; riparazione, o arte di essere fragili; morire, o arte di rinascere. Arte è ciò che chi ha talento per la vita (tutti) può imparare e migliorare giorno per giorno, perché ogni tappa sia illuminata, guidata e riscaldata da un fuoco che non si spegne, quello della passione felice di essere al mondo come poeti del quotidiano e non stremati superstiti o pallide comparse. Non esclamiamo forse, di un momento di gioia: «È pura poesia»?
La semplicità
Queste pagine non contengono soluzioni semplici, perché semplice la vita non lo è mai, e non lo è stata per Leopardi in particolare, ma suggeriscono come un po’ più semplici potremmo essere noi, con uno sguardo più puro sulla vita (…) e la sua possibile felicità, che, come scrive Leopardi, non ne è che il compimento, per raggiungere il quale «è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro» (Zibaldone, 31 ottobre 1823).
Se ti fidi, lettore, prometto di aiutarti a cercare questa vita e a risvegliare questo amore.
«La stampa» del 28 ottobre 2016