14 novembre 2020

Italo Calvino e Ariosto

Introduzione inedita del 1960 ai Nostri antenati
di Italo Calvino
Ora contenuta in Romanzi e racconti, Mondadori 1991
Rileggo Ariosto. Mi è stato, in questi anni, tra tutti i poeti della nostra tradizione, il più vicino e nello stesso tempo il più oscuramente affascinante. Limpido, ilare, incredulo, senza problemi, eppure in fondo così misterioso, così abile a celare se stesso. Ariosto così lontano dalla tragica profondità che avrà Cervantes, ma con tanta tristezza pur nel suo continuo esercizio di levità cd eleganza. Ariosto così abile a costruire ottave su ottave con il puntuale contrappunto ironico degli ultimi due versi rimati, tanto abile da dare talora il senso d'una ostinazione ossessiva in un lavoro folle. Ariosto cosi pieno d'amore per la vita, così sensuale, così realista, così umano ...
Il suo rapporto verso la letteratura cavalleresca è complesso: egli poteva veder tutto soltanto attraverso la deformazione ironica, eppure mai rendeva meschine le virtù fondamentali che la cavalleria aveva espresse, mai abbassa· va la nozione di uomo che aveva animato quelle vicende, anche se a lui non restava che tradurle in un gioco ritmico e colorato. Ma voleva, così facendo, salvare qualcosa d'esse, in un mondo che già le aveva date per perdute, qualcosa che poteva esser salvato sole in quel modo ... [...]
È evasione, tenersi oggi all'Ariosto? No, ci insegna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, d'immaginazione-, d'ironia, d’accuratezza formale, e come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d'una concezione del mondo, servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell'epoca dei cervelli demonici e dei voli spaziali. È un'energia volta verso il futuro, ne son certo, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo ...
Postato il 14 novembre 2020

Italo Calvino, La struttura dell’«Orlando» (1974)

Pubblicato in «Terzoprogramma», 2-3, 1974, pp. 51-58 (testo scritto di un intervento radiofonico andato in onda il 5 gennaio 1975)
di Italo Calvino
Riportato nel volume postumo Perché leggere i classici (1991)
L’Orlando Furioso è un poema che si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire. Si rifiuta di cominciare perché si presenta come la continuazione d’un altro poema, l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, lasciato incompiuto alla morte dell’autore. E si rifiuta di finire perché Ariosto non smette mai di lavorarci. Dopo averlo pubblicato nella sua prima edizione del 1516 in quaranta canti, continua a cercare di farlo crescere, dapprima tentando di dargli un seguito, che restò tronco (i cosiddetti Cinque Canti, pubblicati postumi), poi inserendo nuovi episodi nei canti centrali, cosicché nella terza e definitiva edizione, che è del 1532, i canti sono saliti a quarantasei. In mezzo c’è stata una seconda edizione del 1521, che testimonia d’un altro modo del poema di non considerarsi definitivo, cioè la politura, la messa a punto della lingua e della versificazione a cui Ariosto continua ad attendere. Per tutta la sua vita, si può ben dire, perché per arrivare alla prima edizione del 1516, Ariosto aveva lavorato dodici anni, e altri sedici anni fatica per licenziare l’edizione del 1532, e l’anno dopo muore. Questa dilatazione dall’interno, facendo proliferare episodi da episodi, creando nuove simmetrie e nuovi contrasti, mi pare spieghi bene il metodo di costruzione di Ariosto; e resta per lui il vero modo d’allargare questo poema dalla struttura policentrica e sincronica, le cui vicende si diramano in ogni direzione e s’intersecano e biforcano di continuo.
Per seguire le vicende di tanti personaggi principali e secondari il poema ha bisogno d’un «montaggio» che permetta d’abbandonare un personaggio o un teatro d’operazioni e passare a un altro. Questi passaggi avvengono talora senza spezzare la continuità del racconto, quando due personaggi s’incontrano e il racconto, che stava seguendo il primo, se ne distacca per seguire il secondo; talora invece mediante tagli netti che interrompono l’azione nel bel mezzo d’un canto. Sono di solito i due ultimi versi dell’ottava che avvertono della sospensione e discontinuità nel racconto: coppie di versi rimati come questa:
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
oppure:
Lasciànlo andar, che farà buon camino,
e torniamo a Rinaldo paladino.
o ancora:
Ma tempo è omai di ritrovar Ruggiero
che scorre il ciel su l’animal leggiero.
Mentre queste cesure dell’azione si situano all’interno dei canti, la chiusa d’ogni singolo canto invece promette che il racconto continuerà nel canto successivo; anche qui questa funzione didascalica è assegnata di solito alla coppia di versi rimati che concludono l’ottava:
Come a Parigi appropinquosse, e quanto
Carlo aiutò, vi dirà l’altro canto.
Spesso, per chiudere il canto, Ariosto riprende a fingersi un aedo che recita i suoi versi in una serata di corte:
Non più, Signor, non più di questo canto;
ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto.
oppure ci si mostra – testimonianza più rara – nell’atto materiale dello scrivere:
Poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto, e riposar mi voglio.
L’attacco del canto successivo invece comporta quasi sempre uno slargarsi dell’orizzonte, una presa di distanza dall’urgere della narrazione, sotto forma o d’introduzione gnomica, o di perorazione amorosa, o di elaborata metafora, prima di riprendere il racconto al punto in cui è stato interrotto. E appunto in apertura di canto si situano le digressioni sull’attualità italiana che abbondano soprattutto nell’ultima parte del poema. È come se attraverso queste connessure il tempo in cui l’autore vive e scrive facesse irruzione nel tempo favoloso della narrazione.
Definire sinteticamente la forma dell’Orlando Furioso è dunque impossibile, perché non siamo di fronte a una geometria rigida: potremmo ricorrere all’immagine d’un campo di forze, che continuamente genera al suo interno altri campi di forze. Il movimento è sempre centrifugo; all’inizio siamo già nel bel mezzo dell’azione, e questo vale per il poema come per ogni canto e ogni episodio.
Il difetto d’ogni preambolo al Furioso è che se si comincia col dire: «è un poema che fa da continuazione a un altro poema, il quale continua un ciclo d’innumerevoli poemi», il lettore si sente subito scoraggiato: se prima d’intraprendere la lettura dovrà mettersi al corrente di tutti i precedenti, e dei precedenti dei precedenti, quando riuscirà mai a incominciarlo, il poema d’Ariosto? In realtà, ogni preambolo si rivela subito superfluo: il Furioso è un libro unico nel suo genere e può essere letto – quasi direi: deve – senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi.
Che l’autore faccia passare la costruzione di questo universo per una continuazione, un’appendice, una – com’egli dice – «gionta» a un’opera altrui, può essere interpretato come un segno della straordinaria discrezione di Ariosto, un esempio di quello che gl’inglesi chiamano understatement, cioè lo speciale spirito d’ironia verso sé stessi che porta a minimizzare le cose grandi e importanti; ma può pure essere visto come segno d’una concezione del tempo e dello spazio che rinnega la chiusa configurazione del cosmo tolemaico, e s’apre illimitata verso il passato e il futuro, così come verso una incalcolabile pluralità di mondi.
Fin dall’inizio il Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto in cui tre cavalieri inseguono Angelica che fugge per il bosco, in una sarabanda tutta smarrimenti, fortuiti incontri, disguidi, cambiamenti di programma.
È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degli inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento «errante» della poesia d’Ariosto.
Tali caratteristiche dello «spazio» ariostesco possiamo individuarle sulla scala del poema intero o dei singoli canti così come su una scala più minuta, quella della strofa o del verso. L’ottava è la misura nella quale meglio riconosciamo ciò che Ariosto ha d’inconfondibile: nell’ottava Ariosto ci si rigira come vuole, ci sta di casa, il suo miracolo è fatto soprattutto di disinvoltura.
Per due ragioni soprattutto: una intrinseca dell’ottava, cioè d’una strofa che si presta a discorsi anche lunghi e ad alternare toni sublimi e lirici con toni prosastici e giocosi; e una intrinseca del modo di poetare d’Ariosto, che non è tenuto a limiti di nessun genere, che non si è proposto come Dante una rigida ripartizione della materia, né una regola di simmetria che lo obblighi a un numero di canti prestabilito e a un numero di strofe in ogni canto. Nel Furioso, il canto più breve ha 72 ottave; quello più lungo 199. Il poeta può prendersela comoda, se vuole, impiegare più strofe per dire qualcosa che altri direbbe in un verso, oppure concentrare in un verso quel che potrebbe esser materia d’un lungo discorso.
Il segreto dell’ottava ariostesca sta nel seguire il vario ritmo del linguaggio parlato, nell’abbondanza di quelli che De Sanctis ha definito gli «accessori inessenziali del linguaggio», così come nella sveltezza della battuta ironica; ma il registro colloquiale è solo uno dei tanti suoi, che vanno dal lirico al tragico allo gnomico e che possono coesistere nella stessa strofa. Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti dei suoi versi sono diventati proverbiali: «Ecco il giudicio uman come spesso erra!» oppure: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» Ma non è solo con queste parentesi che egli attua i suoi cambiamenti di velocità. Va detto che la struttura stessa dell’ottava si fonda su una discontinuità di ritmo: ai sei versi legati da una coppia di rime alterne succedono i due versi a rima baciata, con un effetto che oggi definiremmo di anticlimax, di brusco mutamento non solo ritmico ma di clima psicologico e intellettuale, dal colto al popolare, dall’evocativo al comico.
Naturalmente con questi risvolti della strofa Ariosto gioca da par suo, ma il gioco potrebbe diventare monotono, senza l’agilità del poeta nel movimentare l’ottava, introducendo le pause, i punti fermi in posizioni diverse, adattando diverse andature sintattiche allo schema metrico, alternando periodi lunghi a periodi brevi, spezzando la strofa e in qualche caso allacciandone una all’altra, cambiando di continuo i tempi della narrazione, saltando dal passato remoto all’imperfetto al presente al futuro, creando insomma una successione di piani, di prospettive del racconto.
Questa libertà, questo agio di movimenti che abbiamo riscontrato nella versificazione, dominano ancor più a livello delle strutture narrative, della composizione dell’intreccio. Le trame principali, ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi. Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi, cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intorno al tronco più propriamente epico del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordie in campo d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come il suo ombelico geografico:
Siede Parigi in una gran pianura
ne l’ombilico a Francia, anzi nel core;
gli passa la riviera entro le mura
e corre et esce in altra parte fuore:
ma fa un’isola prima, e v’assicura
de la città una parte, e la migliore;
l’altre due (ch’in tre parti è la gran terra)
di fuor la fossa, e dentro il fiume serra.

Alla città che molte miglia gira
da molte parti si può dar battaglia;
ma perché sol da un canto assalir mira,
né volentier l’esercito sbarraglia,
oltre il fiume Agramante si ritira
verso ponente, acciò che quindi assaglia;
però che né cittade né campagna
ha dietro (se non sua) fin alla Spagna.
(XIV, 104 sg.)

Da quanto ho detto si potrebbe credere che nell’assedio di Parigi finiscano per convergere gli itinerari di tutti i personaggi principali. Ma ciò non avviene: da quest’epopea collettiva è assente la maggior parte dei campioni più famosi; solo la gigantesca mole di Rodomonte torreggia nella mischia. Dove si sono cacciati tutti gli altri?
Occorre dire che lo spazio del poema ha anche un altro centro di gravità, un centro in negativo, un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi: il palazzo incantato del mago Atlante. La magia d’Atlante si compiace d’architetture illusionistiche: già al canto IV fa sorgere, tra le giogaie dei Pirenei, un castello tutto d’acciaio e poi lo fa dissolvere nel nulla; tra il XII e il XXII canto vediamo elevarsi, non lontano dalle coste della Manica, un palazzo che è un vortice di nulla, nel quale si rifrangono tutte le immagini del poema.
A Orlando in persona, mentre va in cerca di Angelica, capita di restare vittima dell’incantesimo, secondo un procedimento che si ripete pressoché identico per ognuno di questi prodi cavalieri: vede rapire la sua bella, insegue il rapitore, entra in un misterioso palazzo, gira e gira per androni e corridoi deserti. Ossia: il palazzo è deserto di quel che si cerca, ed è popolato solo di cercatori.
Questi che vagano per logge e per sottoscale, che frugano sotto arazzi e baldacchini sono i più famosi cavalieri cristiani e mori: tutti sono stati attratti nel palazzo dalla visione d’una donna amata, d’un nemico irraggiungibile, d’un cavallo rubato, d’un oggetto perduto. E ora non possono più staccarsi da quelle mura: se uno fa per allontanarsene, si sente richiamare, si volta e l’apparizione invano inseguita è là, la dama da salvare è affacciata a una finestra, che implora soccorso. Atlante ha dato forma al regno dell’illusione; se la vita è sempre varia e imprevista e cangiante, l’illusione è monotona, batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo. Il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo d’Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso d’un labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti degli uomini nello spazio aperto del poema e del mondo.
Anche Astolfo capita nel palazzo, inseguendo – ossia: credendo d’inseguire – un contadinello che gli ha rubato il cavallo Rabicano. Ma con Astolfo non c’è incantesimo che valga. Egli possiede un libro magico dove è spiegato tutto sui palazzi di quel tipo. Astolfo va dritto alla lastra di marmo della soglia: basta sollevarla perché tutto il palazzo vada in fumo. In quel momento viene raggiunto da una folla di cavalieri: sono quasi tutti amici suoi, ma invece di dargli il benvenuto gli si parano contro come se volessero passarlo a fil di spada. Cos’era successo? Il mago Atlante, vedendosi a mal partito, era ricorso a un ultimo incantesimo: far apparire Astolfo ai vari prigionieri del palazzo come l’avversario inseguendo il quale ciascuno di loro era entrato là dentro. Ma ad Astolfo basta dar fiato al suo corno per disperdere mago e magia e vittime della magia. Il palazzo, ragnatela di sogni e desideri e invidie, si disfa: ossia cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri. Atlante ridà libero corso per le vie del poema ai personaggi che aveva sequestrato. Atlante o Ariosto? Il palazzo incantato si rivela un astuto stratagemma strutturale del narratore che, per l’impossibilità materiale di sviluppare contemporaneamente un gran numero di vicende parallele, sente il bisogno di sottrarre, per la durata di alcuni canti, dei personaggi all’azione, di mettere da parte delle carte per continuare il suo gioco e tirarle fuori al momento opportuno. L’incantatore che vuol ritardare il compiersi del destino e il poeta-stratega che ora accresce ora assottiglia le fila dei personaggi in campo, ora li aggruppa e ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi.
La parola «gioco» è tornata più volte nel nostro discorso. Ma non dobbiamo dimenticare che i giochi, da quelli infantili a quelli degli adulti, hanno sempre un fondamento serio: sono soprattutto tecniche d’addestramento di facoltà e attitudini che saranno necessarie nella vita. Quello d’Ariosto è il gioco d’una società che si sente elaboratrice e depositaria d’una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i suoi piedi, tra scricchiolii di terremoto.
Il XLVI e ultimo canto s’apre con l’enumerazione d’una folla di persone che costituiscono il pubblico a cui Ariosto pensava nello scrivere il suo poema. È questa la vera dedica del Furioso, più della riverenza d’obbligo al cardinale Ippolito d’Este, la «generosa erculea prole» a cui il poema è indirizzato, in apertura del primo canto.
La nave del poema sta arrivando in porto, e ad accoglierla trova schierati sul molo le dame più belle e gentili delle città italiane e i cavalieri e i poeti e i dotti. È una rassegna di nomi e rapidi profili di suoi contemporanei e amici, quella che Ariosto traccia: è una definizione del suo pubblico perfetto, e insieme un’immagine di società ideale. Per una specie di rovesciamento strutturale, il poema esce da se stesso e si guarda attraverso gli occhi dei suoi lettori, si definisce attraverso il censimento dei suoi destinatari. E a sua volta è il poema che serve da definizione o da emblema per la società dei lettori presenti e futuri, per l’insieme di persone che parteciperanno al suo gioco, che si riconosceranno in esso.
Postato il 14 novembre 2020

01 novembre 2020

Rispetto o libertà? Il dilemma della satira

di Giuseppe Dalla Torre
È trascorso un tempo sufficiente dai tragici fatti di “Charlie Hebdo” per affrontare, con il dovuto distacco, una questione delicata e complessa. Sia chiaro subito: non sono assolutamente condivisibili le posizioni di chi, all’indomani dei fatti, si è lasciato sfuggire espressioni come «se la sono cercata». La vita umana è sacra, sempre, comunque; anche nel caso dei reati più efferati non è ammissibile il ricorso alla pena di morte. In una società civile non è ammissibile che chi si senta leso dal comportamento altrui, anche qualora fosse nel giusto, si faccia giustizia da sé. Uno dei cardini del contratto sociale che dà vita alle moderne democrazie è, infatti, il trasferimento all’autorità dello Stato dell’esercizio del potere di giudicare e di irrogare sanzioni.
Ciò detto, la vicenda parigina che ha tanto coinvolto l’opinione pubblica merita qualche considerazione. Occorre soffermarsi in particolare sulla libertà di professione della fede religiosa. Questo diritto strutturalmente postula una dimensione pubblica e non meramente privata del fatto religioso. La protezione della manifestazione dell’appartenenza religiosa ha senso specialmente nella pubblica agorà, dove in concreto può essere minacciata da altre posizioni religiose o ideologiche, siano esse portate dalla pubblica autorità o da poteri privati. Può essere lesiva della libertà religiosa un’ideologia della laicità che è in realtà laicismo: vale a dire una concezione contraria alla religione, che combatte la religione ritenuta come favola o mito da cui liberare la società. Ciò può avvenire con le armi della violenza fisica, come accaduto in tante dolorose esperienze di Stati che avevano posto l’ateismo tra i propri valori fondanti; ma ciò può avvenire anche con le armi della violenza morale e psicologica.
La tradizione francese, anche se conosce diverse concezioni della laicità, è decisamente segnata da una prettamente ideologica: la famosa laïcité de combat. È da domandarsi se l’ideologia laicista, laddove non rimanga espressione di una tra le tante identità esistenti nel corpo sociale, ma assurga ad un potere di fatto intimidatorio anche attraverso il dileggio e lo scherno, non possa sconfinare talora in una ingiusta violenza nei confronti dei credenti, che si concretizza in una violazione della libertà religiosa.Una seconda considerazione attiene alla libertà di manifestazione del pensiero. Non si può non cogliere oggi una certa degenerazione dell’antico (e nobile) genere della satira: da attacco agli abusi di chi è al potere (anche religioso) ai vizi individuali, a fatti specifici, a individui o gruppi determinati, tende a divenire strumento per colpire in forma caricaturale intere categorie di persone per il mero fatto della loro appartenenza, religiosa o etnica. Si tratta di un fenomeno che porta a tradire il ruolo critico, quindi positivo, della satira, facendo pericolosamente pendere questa verso forme di provocazione gratuite, senza finalità costruttive. Non si vede come irridere ferocemente persone e simboli venerati in una religione, o valori identificanti un popolo, possa essere una manifestazione di pensiero critico, costruttivo, volto al bene della società.
Una terza considerazione attiene al tema della violenza. In uno Stato democratico l’uso della forza è riservato alla pubblica autorità ed eccezionalmente al privato; questi può ricorrere legittimamente alla forza nei soli casi previsti in maniera tassativa dalla legge (si pensi alla legittima difesa). Ma violenza è solo quella fisica? Riflettendo la verità del reale, il diritto ha sempre conosciuto anche la violenza psichica o morale, e l’ha sempre considerata come un fatto civilmente e penalmente illecito, in quanto lesivo della libertà individuale o collettiva. La violenza non fisica, quella contenuta in espressioni del pensiero come talora nella satira, può considerarsi pienamente legittima? Se rientra nei compiti dello Stato bandire la violenza, in qualsiasi forma essa si manifesti nella società, non è mai ammissibile una tutela del sentimento individuale e collettivo contro manifestazioni di pensiero che incarnino violenza?
In una intervista concessa al “Corriere della Sera” del 3 febbraio 2015 Patrick Pelloux, il medico urgentista che il 7 gennaio fu il primo a soccorrere gli amici di “Charlie Hebdo” falciati dalle armi dei terroristi Saïd e Chérif Kouachi, ha tra l’altro affermato: «Rivendichiamo il nostro diritto alla blasfemia, che non è insulto, ma volontà di emancipazione dell’intelligenza». Ora che la blasfemia non sia insulto è quantomeno discutibile, ma certamente essa può concretarsi in una offesa; quanto poi alla “emancipazione dell’intelligenza”, si tratta di espressione che può tradire una volontà, tipicamente laicista, diretta a sradicare la religione anche attraverso la violenza di un pensiero offensivo.Quali conclusioni trarre da tutti gli interrogativi posti? Non certo l’auspicio di un ritorno a forme di censura, inammissibili in una società democratica; né si può confidare nei soli strumenti giuridici, che pure ci sono, di tutela giudiziale nei casi e nelle forme previste dalla legge. Il punto centrale è da rinvenire sul piano culturale ed etico. Appare necessario promuovere una cultura sensibile al fatto che, in una realtà sociale a pluralismo accentuato, la “casa comune” si costruisce non attraverso l’offesa, il vilipendio, l’aggressione sia pure solo “verbale”, sibbene attraverso un pensiero, anche critico, ma rispettoso e sostanzialmente solidale. Occorre comprendere che la satira non è uno strumento innocente; che essa, come ogni strumento, può essere utilizzata bene o male. Chi fa satira dovrebbe sempre chiedersi quali effetti essa può produrre sull’opinione pubblica, se di salutare critica al potere o non piuttosto di odio o dileggio nei confronti di determinate categorie di persone. In questo secondo caso essa può convertirsi in una silenziosa ma reale minaccia per la democrazia, disseminando semi di violenza e di discriminazione nella sua fragile costituzione. Anche in questo ambito, dunque, un impegno formativo e di sensibilizzazione si impone.
«Avvenire» del 13 maggio 2015

Le caricature di Maometto in Francia: ogni umano diritto ha responsabili limiti

di Giuseppe Dalla Torre
È davvero difficile essere d’accordo con questa sorta di entusiastico consenso che – in Francia soprattutto, ma in parte anche altrove – accompagna la ripubblicazione delle controverse caricature di Maometto da parte della rivista satirica 'Charlie Hebdo', in coincidenza con l’inizio del processo sulle stragi del 2015. Un disaccordo netto e basato su almeno due ordini di ragioni.
La prima, di carattere generale, attiene al principio di responsabilità che deve guidare l’agire umano. Esso comporta che, quand’anche si agisca esercitando un diritto riconosciuto dall’ordinamento – come nel nostro caso la libertà di manifestazione del pensiero – si tengano sempre nel dovuto conto i possibili effetti pericolosi o negativi nei confronti degli altri. Nel caso specifico la reazione jihadista del gennaio di quell’anno alla pubblicazione delle vignette satiriche, provocò – oltre alla strage della redazione del settimanale – la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ventidue.
Era assolutamente prevedibile che la pubblicazione pesantemente offensiva della coscienza islamica avrebbe potuto provocare una grave e persino criminale reazione, nel contesto di una società francese, e più in generale occidentale, attraversata da profonde tensioni per la presenza di radicali islamisti. Dunque, il principio di responsabilità avrebbe dovuto trattenere i redattori del settimanale satirico dal prendere di mira, e pesantemente, persone venerate nella religione islamica, specie in un momento di così alte inquietudini.
Ripeto: la legittima titolarità di un diritto non giustifica sempre, almeno da un punto di vista etico, il suo concreto esercizio qualora si possano così mettere in pericolo beni fondamentali della persona e della società. La seconda, di carattere più specifico, riguarda l’ambito e i limiti dell’uso della satira. Come noto è questo un genere letterario che ha una grande tradizione in Occidente, e che ha una precisa funzione positiva, in alcuni casi addirittura necessaria, nel mantenimento di una società democratica.
Nel senso che la satira ha la funzione di criticare, nel modo suo proprio, il potere nei suoi eccessi e nei suoi sviamenti; costituisce un contrappeso alla degenerazione politica o, comunque, dei centri di potere quali che essi siano. La satira smaschera, rende nudo, disarma chi è potente e usa la propria forza per sopraffare. Ma la satira assume un altro volto, questa volta negativo, quando aggredisce singole persone o gruppi, colpendo con l’ironia sferzante, estrema, le diversità etniche, religiose, di pensiero o di genere. Altra è la critica, anche vivace, anche serrata, anche pungente; altra è la manifestazione di un pensiero che si trasforma in vilipendio, in offesa, in ferita grave, o addirittura gravissima.
Non è lecito ad alcuno offendere i legittimi e più profondi sentimenti degli altri, a cominciare da quelli che sono gli affetti familiari. Chi tollererebbe frecciate satiriche pubbliche alla propria madre? Ma per ogni credente la religione è madre. Del resto non fu proprio quel periodico satirico francese a ironizzare pesantemente sulla tragedia del crollo del ponte Morandi? E non furono legittime e sacrosante le reazioni indignate, e direi corali, dell’opinione pubblica italiana? Sorprende pertanto che Emmanuel Macron abbia difeso ancora una volta 'la libertà di blasfemia', associandola alla 'libertà di coscienza': perché si tratta di cose ben diverse e perché anche la libertà di coscienza può incontrare legittimi limiti (ammetteremmo, in nome della libertà di coscienza, sacrifici umani?).
La questione presenta anche altri aspetti, che debbono essere presi in seria considerazione, come i limiti che pure si debbono apporre a quel delitto di 'blasfemia' per cui, proprio in certe terre a maggioranza islamica, i cristiani tanto soffrono. Occorre ovviamente trovare, nel concreto delle diverse realtà, il punto di equilibrio tra diritti in conflitto fra di loro. E questo è compito, delicato, che spetta a legislatori e giudici.
«Avvenire» del 5 settembre 2020