24 marzo 2020

La poesia, questa incredibile mutante

di Eugenio Giannetta
È ancora possibile la poesia? Con questa domanda Eugenio Montale, nel 1975, intitolava il suo discorso come Nobel per la letteratura, assegnato «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». Ciclicamente, nel tempo, molti poeti, critici e intellettuali, hanno continuato a farsi la stessa domanda, ma con più pessimismo: la poesia è morta? Fugando ogni dubbio, la risposta è no. È mutata, forse, perché «la poesia – scrive sempre Montale – non vive solo nei libri. […] L’arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo destinatario». Un destinatario, l’uomo in senso lato, che ogni 21 marzo, primo giorno di primavera, celebra la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’Unesco nel 1999 per la capacità che ha la poesia di andare oltre. Montale, nell’apertura degli Ossi di seppia, In limine, ha descritto così l’andare oltre, il quid definitivo al di là di confini, lingue, differenze di ogni genere, in cerca di un ideale di bellezza globale: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato – ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine ...».
La poesia è necessaria, forse e più che mai in questo tempo che esige una precisa definizione delle cose. In rete si trova agevolmente lo spezzone di un video, andato in onda su Rai 3, in cui Alessandro Baricco, raccontando l’arte del tiro con l’arco, prova a fissare la portata della poesia: «Se scrivi per mestiere e lo fai per molti anni, nel tempo cambi molte volte idea su quale sia il gesto dello scrivere, sul perché lo fai. La poesia non è una cosa vaga, sentimentale, una cosa che non hai capito bene. No, è il contrario, quando hai capito perfettamente, quando conosci ogni singolo dettaglio.
Lì capisci che il cuore della faccenda non riesci a dirlo, allora: poesia». In controtendenza rispetto a questi tempi di consumo sempre più rapidi, che provano a imporre una minore attenzione alla precisione e al valore delle parole, talvolta anche in narrativa, è interessante vedere come il poeta Alberto Pellegatta abbia deciso di creare una nuova casa editrice, Taut, con la volontà di indagare le nuove voci inserendole in un contesto storicizzato: uscite di giovani autori, quindi, affiancate da volumi di maestri contemporanei o del passato, per sostenere un’idea di letteratura come cammino collettivo, con un preciso profilo internazionale che metta al centro il lettore. Un’operazione editoriale e culturale al tempo stesso, col primo libro, Planetaria (pagine 232, euro 13), che è un’antologia di 27 poeti nati dopo il 1985, tra cui alcuni nati del 1995 e il più giovane addirittura del 1998 (Riccardo Canaletti); un segnale importante di apertura verso le nuove generazioni di poeti, non solo italiani, ma da Spagna, Russia, Venezuela, Stati Uniti, Portogallo, finora inediti in Italia.
Quello di Taut non è un caso isolato, perché anche la poesia americana è viva, come dimostra Nuova Poesia Americana (192 pagine, 13 euro), una collana curata da John Freeman (selezione) e Damiano Abeni (traduzione), di cui sarà pubblicato un volume all’anno dai tipi di Black Coffe, con una selezione significativa delle opere di sei poeti americani contemporanei. I primi sei sono stati Robert L. Hass, Robin Coste Lewis, Terrance Hayes, la già Poet Laureate degli Stati Uniti Tracy K. Smith, e due poetesse native americane: Natalie Diaz (Mojave) e Layli Long Soldier, appartenente agli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota delle Grandi Pianure. Il primo volume è uscito il 22 gennaio scorso, da un’idea dell’editore Sara Reggiani, ispiratasi a una collana che la Penguin pubblicava negli anni ‘60 e ‘70: “Penguin Modern Poets”, libelli preziosi in cui venivano raccolte alcune opere di tre poeti contemporanei scelti.
«Ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento», è scritto nell’introduzione al volume firmata da John Freeman e il pensiero va inevitabilmente alla parola evento: epifania ( Joyce)? Only begetter (Monta-le)? Per citare Tracy K. Smith, che apre il volume, «vogliamo così tanto. / Quando forse viviamo al meglio / negli interstizi tra amori». Non è tutto: le forme della poesia sono anche quelle di Ocean Vuong, che a 28 anni ha scritto la sua prima raccolta: Cielo notturno con fori d’uscita (La nave di Teseo, 188 pagine, 17 euro), in cui come spiega bene nella prefazione Michael Cunningham, c’è alto e basso insieme, per poesie «al contempo liriche e colloquiali», in cui combina il personale col politico, e racconta il Vietnam dilaniato da guerra e comunismo, così come New York, simbolo di un’America ferita dall’intolleranza.
In Vuong, un po’ come in Viet Thanh Nguyen, vivono due anime: Vuong è arrivato negli Stati Uniti dal Vietnam a soli due anni, imparando l’inglese da solo e cominciando a leggere a undici anni. Attualmente è in libreria col suo primo romanzo, Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo, pagine 292, euro 18), nella traduzione di Claudia Durastanti. C’è poi Ben Lerner, appena uscito col romanzo, Topeka school (Sellerio, pagine 382, euro 16), che ha dedicato parte della sua produzione e dell’attività accademica alla poesia, tanto da scrivere un breve saggio: Odiare la poesia (Sellerio), dove ripercorre per sommi capi il percorso della lirica, partendo da lontano, anche da coloro che, ad esempio, hanno disapprovato la poesia (Platone) fino ad alcune contraddizioni: il «siamo tutti poeti» e le aspettative quasi salvifiche che maturiamo nei confronti delle parole, le richieste impossibili di esprimere l’indicibile sentimento umano, parlando per sé come se si parlasse per la moltitudine.
Nel suo percorso Lerner cita, tra gli altri, Claudia Rankine, in Italia conosciuta per Citizen. Una lirica americana (66th and 2nd, pagine 170, euro 16), che attraverso il «gioco dei pronomi» e «l’errore di identificazione » racconta il razzismo sociale in una forma che è insieme arte, poesia, prosa, immagini e visioni, a dimostrazione che l’asticella dei confini possibili è spostata sempre un po’ più in là, come ribadisce ulteriormente il lavoro della poetessa, performer, rapper e spoken– word artist classe ‘85 Kate Tempest nei suoi lavori: Resta te stessa , ma anche Che mangino caos (Edizioni e/o, pagine 144, euro 14, traduzione di Riccardo Duranti), un poema «scritto per essere letto ad alta voce», per una poesia che è insieme città, uomini, politica, tutto e niente, perché diceva Benigni in La tigre e la neve: «Per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto».
«Avvenire» del 21 marzo 2020

È morto lo scrittore Alberto Arbasino

Scomparso domenica a Roma all’età di novant’anni, fustigò l’Italia, proverbiale «Paese senza»
di Alessandro Zaccuri
Un Paese senza, signora mia. E la gita a Chiasso. Sono forse queste le più celebri fra le innumerevoli invenzioni linguistiche di Alberto Arbasino, il grande scrittore morto domenica a Roma all’età di novant’anni (era nato a Voghera il 22 gennaio 1930). Imprestiti d’autore, secondo una formula che forse non sarebbe dispiaciuta alla sua erudizione: espressioni sbocciate al crocevia tra invettiva civile e saggistica altezzosa e poi transitate nel parlare comune, in quello stesso gergo giornalistico che Arbasino non si stancava di contrastare impugnando la sua prosa imprevedibile, beffarda, inimitabile. Coniava locuzioni di cui altri – che spesso neppure lo avevano letto – si impossessavano, ma era anche abilissimo nell’impadronirsi di una frase fatta per poortarla alle sue estreme, letterali conseguenze. Lo aveva fatto, per esempio, in un piccolo libro di alcuni fa, La vita bassa, pubblicato dal 2008 da Adelphi, che da tempo era diventato – ed è rimasto – il suo editore d’elezione. In quelle pagine, come sempre indignate e scoppiettanti, Arbasino se la prendeva con la moda di aggirarsi con l’ombelico in bella vista e la trasformava nell’emblema della “bassezza di vita” in cui gli sembrava stesse inesorabilmente sprofondando l’Italia, il proverbiale «Paese senza» (sempre in affanno, sempre incompiuto, sempre mancante di qualcosa) per il quale nel 1963 aveva invocato la necessità della non meno famosa «gita a Chiasso».
Bastava allungare un passo al di là della dogana con la Svizzera, sosteneva, e insieme con il Toblerone e qualche stecca di sigarette si poteva rimediare un po’ di quella cultura del pieno Novecento di cui, all’epoca del boom, molti intellettuali italiani ancora si vantavano di non avere la minima nozione. Ribellandosi in parte all’origine provinciale che pure aveva ispirato uno dei suoi libri più noti (La bella di Lodi, uscito come romanzo nel 1972, ma portato sullo schermo da Mario Missiroli già nel 1963 sulla scorta dell’omonimo racconto), Arbasino aveva dato un contributo importante a questa operazione di svecchiamento, a cominciare dall’estroso excursus critico di Certi romanzi (1964), che Raffaele Manica ha giustamente voluto inserire nel doppio “Meridiano” di Romanzi e racconti realizzato da Mondadori nel 2009-2010. Da un lato agiva in Arbasino la suggestione di un cosmopolitismo elitario, coltivato sia attraverso la carriera accademica intrapresa per un certo periodo nell’ambito delle scienze politiche, sia attraverso i reportage internazionali firmati per alcune delle maggiori testate del dopoguerra, dal settimanale "Il Mondo" al quotidiano "Il Giorno". Ma questa fuga in avanti, nella direzione di una contemporaneità vertiginosa e disinibita, aveva come premessa irrinunciabile l’adesione alla tradizione della letteratura lombarda, lungo una linea che dall’illuminismo del prediletto Parini e dei fratelli Verri arrivava fino all’impetuoso magistero di Carlo Emilio Gadda.
Con Giovanni Testori, anche Arbasino era stato annoverato tra i «nipotini dell’Ingegnere», ma la definizione, per quanto non impropria, non gli corrispondeva del tutto, così come l’adesione alla neovanguardia del Gruppo 63 non era sufficiente a esaurire le istanze del suo sperimentalismo. Il rigore del saggista, appunto, era pressoché indistinguibile dalla libertà del narratore. E questo fin dagli inizi, fin dagli esordi di Le piccole vacanze (1957) e L’Anonimo Lombardo (1959), per arrivare al precoce capolavoro di Fratelli d’Italia, apparso per la prima volta nel fatidico 1963 e da allora più volte rimaneggiato, ampliato e rivisto, secondo una procedura caratteristica del lavoro di Arbasino. Un discorso analogo vale per Super-Eliogabalo (1969), di Fratelli d’Italia non meno caustico e scintillante, ricchissimo di citazioni, ammiccamenti colti, sfrontatezze che sfociano volentieri nell’irriverenza.
Irrequieto di natura, sempre in partenza per visitare una mostra o assistere alla “prima” in qualche teatro d’opera, Arbasino ha probabilmente dato il meglio di sé nei volumi che compongono la sua autobiografia di viaggiatore, come Le muse a Los Angeles del 2000 oppure Pensieri selvaggi a Buenos Aires del 2012, per arrivare al sostanziale congedo di Ritratti e immagini del 2016. Arbasino non amava il cattolicesimo e non ne faceva un mistero. Lo assimilava ai rituali di un perbenismo piccoloborghese di cui l’esclamazione «signora mia» rappresentava la sintesi. Però c’è un momento, nel libro di memorie dedicato al rapporto con Gadda (L’Ingegnere in blu, 2008), in cui anche questa avversione si attenua. È il 1973, il Gran Lombardo è sul letto di morte e Arbasino è fra gli amici che, a turno, leggono per lui un capitolo dei Promessi Sposi. Gli tocca la notte dell’Innominato: «Giunto al “delirio passeggiero”, una delle sue espressioni frequenti – ricorda –, l’Ingegnere mi guardò fisso, dicendo solo: “E adesso, le campane”».
«Avvenire» del 23 marzo 2020

23 marzo 2020

La nuova fratellanza

di Massimo Recalcati
I nazisti ci hanno insegnato la libertà, ha scritto una volta Jean Paul Sartre all’indomani della liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Per apprezzare davvero qualcosa come la libertà, bisognerebbe dunque perderla e poi riconquistarla? Ma non sta forse accadendo qualcosa di simile con la tremenda pandemia del coronavirus? La sua spietata lezione smantella in modo altamente traumatico la più banale e condivisa concezione della libertà. La libertà non è, diversamente dalla nostra credenza illusoria, una sorta di “proprietà”, un attributo della nostra individualità, del nostro Ego, non coincide affatto con la volubilità dei nostri capricci. Se così fosse, noi saremmo oggi tutti spogliati della nostra libertà. Vedremmo nelle nostre città deserte la stessa agonia a cui essa è consegnata. Ma se, invece, la diffusione del virus ci obbligasse a modificare il nostro sguardo provando a cogliere tutti i limiti di questa concezione “proprietaria” della libertà? È proprio su questo punto che il Covid-19 insegna qualcosa di tremendamente vero.
Questo virus è una figura sistemica della globalizzazione; non conosce confini, Stati, lingue, sovranità, infetta senza rispetto per ruoli o gerarchie. La sua diffusione è senza frontiere, pandemica appunto. Da qui nasce la necessità di edificare confini e barriere protettive. Non però quelle a cui ci ha abituati il sovranismo identitario, ma come un gesto di solidarietà e di fratellanza. Se i nazisti ci hanno insegnato ad essere liberi sottraendoci la libertà e obbligandoci a riconquistarla, il virus ci insegna invece che la libertà non può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio. Lo insegna, paradossalmente, consegnandoci alle nostre case, costringendoci a barricarci, a non toccarci, ad isolarci, confinandoci in spazi chiusi. In questo modo ci obbliga a ribaltare la nostra idea superficiale di libertà mostrandoci che essa non è una proprietà dell’Ego, non esclude affatto il vincolo ma lo suppone. La libertà non è una manifestazione del potere dell’Ego, non è liberazione dall’Altro, ma è sempre iscritta in un legame. Non è forse questa la tremendissima lezione del Covid-19? Nessuno si salva da solo; la mia salvezza non dipende solo dai miei atti, ma anche da quelli dell’Altro.
Ma non è forse sempre così? Ci voleva davvero questa lezione traumatica a ricordarcelo? Se i nazisti ci hanno insegnato la libertà privandocene, il coronavirus ci insegna il valore della solidarietà esponendoci all’impotenza inerme della nostra esistenza individuale; nessuno può esistere come un Ego chiuso su se stesso perché la mia libertà senza l’Altro sarebbe vana. Il paradosso è che questo insegnamento avviene proprio attraverso l’atto necessario del nostro ritiro dal mondo e dalle relazioni, del nostro rinchiuderci in casa. Si tratta però di valorizzare la natura altamente civile e profondamente sociale, dunque assolutamente solidale, di questo apparente “isolamento” che, a ben guardare, tale non è. Non solo perché l’Altro è sempre presente anche nella forma della mancanza o dell’assenza, ma perché questa auto-reclusione necessaria è, per chi la compie, un atto di profonda solidarietà e non un semplice ritiro fobico-egoistico dal mondo. In primo piano non è qui tanto il sacrificio della nostra libertà, ma l’esercizio pieno della libertà nella sua forma più alta. Essere liberi nell’assoluta responsabilità che ogni libertà comporta significa infatti non dimenticare mai le conseguenze dei nostri atti. L’atto che non tiene conto delle sue conseguenze è un atto che non contempla la responsabilità, dunque non è un atto profondamente libero.
L’atto radicalmente libero è l’atto che sa assumere responsabilmente tutte le sue conseguenze. In questo caso le conseguenze dei nostri atti investono la nostra vita, quella degli altri e quella del nostro intero Paese. In questo modo il nostro bizzarro isolamento ci mette in rapporto non solo alle persone con le quali lo condividiamo materialmente, ma con altri, altri sconosciuti e fratelli al tempo stesso. La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza senza la quale libertà e uguaglianza sarebbero parole monche. In questo strano e surreale isolamento noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia della polis. In questo modo siamo davvero pienamente sociali, siamo davvero pienamente liberi.
«la Repubblica» del 14 marzo 2020

Scuole chiuse

di Alessandro D'Avenia
«Margie lo scrisse perfino nel suo diario. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157: Oggi Tommy ha trovato un vero libro!». Comincia così «Chissà come si divertivano», un racconto del 1955 del maestro della fantascienza, Isaac Asimov, in cui Margie e Tommy, 11 e 13 anni, trovano in soffitta un libro. Quell’oggetto, in cui le parole «non si muovono», è un reperto archeologico, sostituito da più di un secolo dai «telelibri», testi che scorrono sullo schermo tv come i titoli di coda di un film. Ma la sorpresa è ancora più grande quando i due scoprono che il libro parla di qualcosa a loro ignoto: la scuola. Nel 2157 ci sono infatti solo i «Maestri Meccanici», robot individuali che, in camera, spiegano e verificano: «La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove doveva infilare i compiti. Le toccava scriverli in un codice perforato che le avevano fatto imparare a sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti a velocità spaventosa». E nel marzo 2020 la scuola esiste ancora? Sì, ma a una condizione: se tutte «le» scuole sono chiuse, «la» scuola è rimasta aperta solo dove «scuola» è il nome che diamo alla relazione che sopravvive alla chiusura dell’edificio. Altrimenti aperta, una scuola, non lo è mai. «Questo è un tipo di scuola molto antico. Avevano un maestro, ma non un maestro regolare. Era un uomo» dice Tommy, e Maggie stupita risponde: «Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?». La scuola del passato era una comunità di ricerca guidata da maestri in carne e ossa: «Ci andavano i ragazzi del vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme. Imparavano le stesse cose, così potevano aiutarsi per i compiti e parlare di ciò che avevano da studiare. E i maestri erano persone».
I maestri meccanici non ci sostituiranno mai perché la materia è la «materia» con cui si in- e co-struisce l’edificio relazionale: a scuola non ci si va, ma ci si è, a patto che essa sia fondata su relazioni generative. Se ciascuno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno, la relazione rigenera le persone coinvolte e genera i cosiddetti beni relazionali, frutti specifici di una relazione (in quella educativa: cultura, autonomia, vocazione). Questi frutti non si danno se la relazione è ridotta a prestazione (tu ripeti/fai ciò che ti dico), e diventa addirittura de-generativa (toglie vita). I ragazzi hanno bisogno di noi per scoprire sé e il mondo, e per inserirsi gradualmente nella storia umana: la loro anima non può farsi da sola. Allo stesso modo noi docenti abbiamo bisogno di loro per scoprire noi stessi e il mondo, perché anche la nostra anima (come quella di tutti gli esseri umani) è in continua crescita. Non siamo robot che erogano materie e voti, noi con- e in-segniamo, nello stesso spazio-tempo (online o in classe), pezzi di mondo a cui ci siamo dedicati. Ed è proprio nell’atto di porgerli che scopriamo cose nuove del mondo e di noi: se dopo una lezione non ho imparato niente, sono certo di non aver insegnato niente. In una scuola relazionale e non prestazionale infatti non si riesce mai a fare la stessa lezione (altrimenti che mi sostituisca il maestro meccanico): insegno da 20 anni e non posso raccontare mai lo stesso Dante, perché cambio io, così come le anime da raggiungere. Ed è grazie a questa «materia viva» che non solo non mi annoio, ma mi viene donato ogni anno un nuovo Dante, interpellato in modo diverso in ogni classe. La testa di un ragazzo è come quella di un fiammifero: si accende e accende, solo se la sfreghi con ciò che ha capacità di innesco (verità e bellezza), per questo le grandi opere (letterarie, tecniche, scientifiche...) fanno «il programma». Noi riceviamo vita solo da chi la vita la sa mettere «a fuoco», chi è «passato» nel mondo e ce ne ha lasciato una mappa: poi sta a noi camminare e aprire nuove strade.
È proprio Dante - il 25 marzo 2020 ricorre la prima celebrazione nazionale - che distilla la relazione con un maestro quando, incontrando nell’aldilà il suo, Brunetto Latini, gli dice che non dimentica «la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna», e Brunetto si rammarica di non aver potuto seguire sino in porto la promettente navigazione del suo allievo. La scuola è un faticoso «ora ad ora» che serve a dare senso e vita a tutte le altre ore. Uno studente non deve rifare da solo la storia umana, ma fare i passi indietro necessari per saltare, lui, un po’ più avanti, proprio grazie alla rincorsa in un passato che passato non è, altrimenti non lo si studierebbe. Ma questo, senza una scuola viva (relazionale e generativa) è impossibile: «Margie pensava ai bambini di quei tempi, a come dovevano amare la scuola: - Chissà come si divertivano!». Le scuole adesso sono chiuse: ma prima erano aperte?
«Corriere della sera» del 23 marzo 2020

L'opportunità della scuola

di Riccardo Luna
È un lunedì diverso da tutti gli altri, non solo per noi. Per 861 milioni di studenti nel mondo le scuole sono chiuse. Certo sono chiuse anche le fabbriche, gli uffici, i negozi, le chiese e gli stadi. Ma le scuole mi colpiscono di più. Un mondo senza scuole è un mondo senza futuro. Sì certo c’è la scuola digitale, “la scuola continua”, ci hanno detto in Italia dal primo giorno. A volte sì, ma sono eccezioni. Il corpo docente nel suo complesso era totalmente impreparato al digitale: i pomposi piani ministeriali degli anni scorsi hanno generato solo qualche coraggiosa esperienza pilota.
Non che mancassero le soluzioni tecnologiche, c’erano, ci sono e funzionano piuttosto bene; ma a due settimane dal blocco della didattica ancora moltissime classi devono fare la prima lezione; alcune fanno un’ora o due al giorno; altre si vedono col prof in qualche videochat rocambolesca con i ragazzi che assistono disorientati al goffo tentativo di riprodurre su pc le dinamiche di una classe reale. Il programma ministeriale così è un miraggio, gli esami di fine anno un mistero. Con questo non voglio dire che i docenti non ci stiano provando: lo fanno, ma non ci si inventa digitali all’improvviso. Eppure questi tre mesi sono una opportunità irripetibile di apprendimento e maturazione per gli studenti.
Stiamo vivendo un momento storico enorme, e non c’è miglior maestro della Storia. Partiamo da qui. Invece di riempire i ragazzi e i bambini di compiti per tenerli impegnati (lo ha detto anche il ministero: quella non è didattica), parlategli di quello che sta accadendo, della salute e della globalizzazione, dell’economia che si ferma di botto e del digitale che ci aiuta a resistere, raccontate loro che gli eroi del nostro tempo hanno la mascherina e stanno negli ospedali, spiegategli che se ce la faremo, perché ce la faremo, lo dovremo a una virtù che prima si faceva fatica a portare a lezione, il senso civico; e, prima ancora, al talento degli scienziati. Sì, ci salverà la scienza a un certo punto, la conoscenza: non c’è spot più bello per far nascere in loro l’amore per lo studio.
«la Repubblica» del 23 marzo 2020

15 marzo 2020

La Quaresima del capitalismo

Il valore di lavoro e relazioni, e il re nudo
di Luigino Bruni
La crisi del nuovo coronavirus sta svelando anche la natura ambivalente dell’economia. Di fronte alla difficoltà del lavorare, ci accorgiamo che prima di amare il tempo libero noi amiamo il nostro lavoro.
Stiamo capendo che ci piace stare a casa la domenica perché poi c’è il lunedì e si torna a lavoro, perché senza i giorni feriali si abbuiano anche i giorni festivi. Anche per questo facciamo tutti una grande resistenza a rinunciare al lavoro per gli evidenti motivi di sicurezza; vorremmo e vogliamo tenere aperte le fabbriche e gli uffici non solo per non ridurre troppo il Pil, non solo per guadagnarci lo stipendio necessario, ma anche perché sentiamo che non siamo schiacciati finché riusciamo ancora a lavorare, e a lavorare insieme. Questa è una dimensione e una vocazione del lavoro, che niente come una grande e grave crisi come quella che stiamo vivendo ci sta svelando: in fondo, se guardiamo bene dentro di noi, quando una forma di morte ci minaccia, il lavoro diventa un suo potente antidoto - perché non c’è solo il conflitto tra eros e thanatos, c’è anche quello tra il lavoro dei viventi e il non lavoro della morte.
È così, anche se nei tempi ordinari non ci pensiamo mai abbastanza, in realtà noi andiamo a lavorare anche per sconfiggere la morte. Creando beni e servizi con la nostra azione collettiva generativa stiamo dicendo, ogni giorno, che la vita è più grande. E non è certo un caso che nella Bibbia molti episodi decisivi per la vita e per la morte accadono mentre le persone lavorano – da Mosè che pascolava il gregge fino agli apostoli, chiamati mentre lavoravano.
Come non è un caso che in alcune lingue il lavoro è accostato al parto, a quell’altro travaglio che tanto gli somiglia, anche nel dolore che accompagna ogni lavoro vero che non sia solo hobby o gioco.
Abbiamo poi capito che quei beni relazionali, tanto derisi dagli economisti e dai politici in tempi ordinari, sono essenziali come e più delle merci. Abbiamo improvvisamente compreso che la gente, gli anziani soprattutto, vanno a comprare il pane anche, e forse soprattutto, per 'consumare' la chiacchierata con la gente del quartiere perché al mercato si va anche e soprattutto per 'scambiare parole', che non ricevere visite di volontari e amici in carcere è questione di vita e di morte. Le grandi crisi ribaltano le vecchie 'piramidi dei bisogni'. Tutte le civiltà queste cose le hanno sempre sapute, quella capitalistica lo aveva dimenticato, speriamo lo reimpari dal dolore di questi giorni. Come un 'male comune' (virus) ci ha insegnato improvvisamente cosa sia il 'Bene comune', la solitudine forzata ci ha insegnato il valore e il prezzo delle relazioni umane, la distanza superiore al metro ci ha svelato la bellezza e la nostalgia delle distanze brevi.
Ma, lo vediamo e lo vedremo sempre di più, l’economia sta mostrando anche un’altra faccia. È quella delle Borse e delle speculazioni, la paura delle perdite di Pil che diventano più importanti delle perdite di vite, che hanno impedito finora di fermare anche quelle attività commerciali e produttive che non sono essenziali per la vita della gente – studi legali, di commercialisti, alcune fabbriche, studi di analisti finanziari, molti tipi di negozi… – attività che sappiamo quanta gente mette assieme ogni giorno soprattutto al Nord. Che ha fatto sì che il 'fermiamoci tutti' fermasse subito le scuole ma non il business.
Continuo a pensare e a ripetere ormai da diversi giorni che una 'quaresima da capitalismo', dimentica di Pil, spread, debito pubblico e patto di stabilità, sarebbe una terapia efficace per rallentare l’avanzare troppo minaccioso e veloce del virus.
Queste ragioni dell’economia sono molte diverse delle prime ragioni del lavoro- vita, e sono loro nemiche. Perché dicono che abbiamo messo in piedi un sistema sociale dove l’ultima parola, alla fine, sembra avercela il business e non il bene comune, dove la politica non ha abbastanza forza per fare cose ovvie. Tutto ciò è evidente in Italia, ma lo è di più in Europa, in Gran Bretagna e negli Usa dove si sta sottostimando e sotto-raccontando l’entità della crisi sanitaria per ridurre o magari evitare le sue conseguenze sull’economia – in particolare sulla finanza, che non sempre è alleata dell’economia.
Se siamo attenti, in questa crisi possiamo leggerci allora anche importanti messaggi sul capitalismo che abbiamo costruito in questi ultimi decenni. Abbiamo corso troppo, inseguendo i segnali di mercato abbiamo pensato di essere invincibili, non abbiamo applicato quel principio fondamentale della convivenza umana che la Dottrina sociale della Chiesa chiama principio di precauzione, che dovrebbe portare una comunità a non attendere che arrivi il 'cigno nero' per attrezzarsi e far fronte al caso eccezionale ma devastante. Una comunità saggia e non guidata dal capitale investe in tempi ordinari per premunirsi per il tempo eccezionale. Lo facciamo tutti i giorni con le assicurazioni individuali e aziendali, non lo facciamo più per la società nel suo insieme, che si ritrova totalmente scoperta su questioni decisive, nonostante gli allarmi seri che erano arrivati negli anni passati.
Che il re (capitalista) fosse nudo, ce lo aveva detto, come nella fiaba, una bambina, un anno fa. Noi non l’abbiamo ascoltata, e abbiamo continuato a vivere come se i vestiti del re ci fossero realmente, incantati dal benessere e dal delirio di onnipotenza. Questo virus è un secondo messaggio, che possiamo gestire e poi continuare a vivere come prima, o interpretare con saggezza e cambiare, cambiare molto.
«Avvenire» dell'11 marzo 2020