30 luglio 2020

Virus: è arrivato il momento dell’audacia

Con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Ora dobbiamo passare ad altro: pensare, capire, leggere il caos e prenderei il rischio di dare a tutti qualche certezza: questo è il mestiere degli intellettuali
di Alessandro Baricco
Le riflessioni dell'autore del Game in undici punti

Devo averla già raccontata, ma è il momento di ripeterla. Viene da un bel romanzo svedese. C'è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo. Monta in sella. Poi chiede sprezzante al maestro d'equitazione se ci sono delle regole. Ed ecco cosa risponde lui: «Prima regola, prudenza. Seconda, audacia».
Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo passare all'audacia.
Dobbiamo passare all'audacia.
Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento, quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da parte la tristezza, e pensare: cioè capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza. Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere.

1. Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all'ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi. Torniamo in noi E noi noi umani siamo una specie di agghiacciante pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene, e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì. Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti, cocciuti e furbi.

2. Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l'abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un'estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l'utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.

3. Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo «Ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali», quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell'intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungete ne un'altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe. L'umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l'unica vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che un virus l'ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.

4. Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e va bene. Ma non è solo quello. C'è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell'intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell'intelligenza, ma non più in quella dei padri, vogliamo la competenza ma non quella novecentesca; abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi. Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.

5. È probabile che l'emergenza Covid19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall'epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l'ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un élite e da un'intelligenza di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l'altro. È una posizione scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l'ottanta per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle decisioni, ... ): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano, inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L'intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un'emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un'élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa. Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).

6. Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.

7. Rimanete a casa, perdio. Con tutto quel che c'è da leggere ...

8. L'emergenza Covid19 ha reso di un'evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l'agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti dei videogames sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo una gran bisogno, di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. ln alcuni momenti di carestia ci siamo fatti bastare un'emergenza meteo o una possibile crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare - e farlo proprio in questi giorni - che noi siamo vivi per realizzare delle idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa c'entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.

9. (Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta: una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid19 con quelli causati dal diabete o dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l'entità del rischio e l'entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell'intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è il momento dell'audacia, quindi bisogna dirla. C'è un'inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile diritto a una vita perenne, che d'altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa "capacità di morte". Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un'offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un'onda che siam o e che non smetteremo mai di essere. Non è che un individuo da solo, possa arrivare spesso a certe leggerezze di sentire: ma una comunità sì, lo può fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?

10. Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc. ecc. Insomma, per quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. ln questo senso il caso Covid19 ha tutta l'aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato inventato da dei problem solver, non da dei poeti.

11. Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un'opportunità enorme, storica. Se c'è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è. È un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano, non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c'è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.

«la Repubblica» del 26 marzo 2020

13 luglio 2020

Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas

I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera – estesa dalle origini ai nostri giorni – ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su 'impulso' di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche – nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino – e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti». Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette – osano i più temerari – di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito - corpo, oltrepassando i 'sensi spirituali'. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo. Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del lat- te della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli – i corpi sono templi e altari – renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese. Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
«Avvenire» del 2020