31 maggio 2006

A forza di andare oltre eccoci dove non pensavamo

E' nato in Olanda il partito pedofilo
Umberto Folena
Il vaso di Pandora del mito greco doveva avere un tappo simile a quello delle bottiglie di spumante. Provate a stappare la bottiglia e, subito dopo, a rificcare dentro il tappo per impedire alla schiuma di uscir fuori esuberante: impossibile. Ecco, il vaso funziona allo stesso modo. Una volta stappato, ogni sforzo per richiuderlo risulta vano e ne esce fuori di tutto, assolutamente di tutto. La fantasia come limite estremo? No, oltre. Ecco l'ultimo rigurgito (tenersi forte perché è roba da stomaci di ghisa). In Olanda, tal Ad van den Berg ha fondato un partito con il seguente programma: abbassamento dell'età per poter avere rapporti sessuali da 16 a 12 anni; legalizzazione della pedopornografia, del sesso con gli animali, della pornografia in tv e delle droghe (tutte); abolizione del divieto di girare nudi; soppressione del Senato. Quest'ultima è effettivamente una bizzarria che susciterà la protesta sdegnata anche degli spiriti più libertari, che invece apprezzeranno gli altri punti del programma. Da parte nostra, troviamo raffinatamente osceno il nome dato al partito: Nvd, sigla che declinata in inglese sta per Charity, Freedom and Diversity, ossia Amore per il prossimo, Libertà e Diversità.Ora, il problema non è che uno fuori di zucca s'inventi un simile partito. Il problema, strettamente legato al vaso di quella sciagurata di Pandora, è che qualcuno lo prenda tanto sul serio da intervistarlo per un quotidiano olandese, e qualcun altro rilanci la notiziola attraverso le agenzie di stampa facendola rimbalzare in tutto il villaggio globale fino a noi, grazie tante per la premura. Il problema è che assieme a tutto il resto dal vaso di Pandora se ne sono sprizzate fuori, bollicine più lievi e giocose d'ogni altra bollicina, pure l'impudicizia e l'irresponsabilità. Così, di fronte al partito Nvd, il fiero professionista dei media non si domanda: "È una notizia degna d'essere pubblicata?", bensì: "Quante copie in più mi può far vendere?". Il criterio commerciale è l'unico criterio. Il fondatore del partito Nvd lo sa e ne approfitta, perché è uno sporcaccione ma mica scemo. Per completare l'opera, dal vaso di Pandora è scivolata fuori, lei invece zitta zitta, l'assuefazione. Così, se di fronte a bestialità del genere ti indigni, c'è chi ti guata storto pensando: "Ma cosa vuole codesto noioso bigotto liberticida?" Se la piglierà con te, non con il pornopedofilo. L'assuefazione infatti anestetizza le coscienze e nessuno sobbalza più di fronte ad alcunché. E questa è appunto la tecnica migliore per predisporre la società ai mutamenti del costume.Pandora nostra, che pasticcio. Tuttavia Zeus (lo scherzetto l'aveva architettato lui) non è poi così perfido, e sul fondo del vaso ha collocato la speranza. Affidata a noi, perché la speranza ha bisogno di interpreti. Fuor di metafora: il vaso ormai è aperto, non stiamo lì impalati e diamoci da fare.
« Avvenire » del 31 maggio 2006

30 maggio 2006

Quel birichino di Costantino

Questo è il quarto capitolo del libro "Processo al Codice da Vinci" di Andrea Tornielli allegato a "Il Giornale" (6,90 €) e pubblicato dalla casa editrice Gribaudi.
L'autore analizza la figura storica di Costantino e il rapporto con la fede cristiana dell'epoca.

Andrea Tornielli
Ci siamo dunque lasciati alle spalle le elucubrazioni sul matrimonio di Gesù e della Maddalena, delle quali Dan Brown è soltanto l’ultimo propagatore. Possiamo ora affrontare un altro dei capisaldi della costruzione teorica sottesa al suo Codice da Vinci, vale a dire il «complotto» ordito dall’imperatore Costantino e dalla Chiesa nel corso del Concilio di Nicea, per «eliminare» i testi evangelici scomodi, salvando solo quelli più innocui, e al tempo stesso «divinizzare» l’umana figura di Gesù di Nazaret. Il quale, secondo Brown e i suoi molti ispiratori, non era certo il figlio di Dio, ma un grande profeta. Ricordiamo, a mo’ di promemoria, alcune delle affermazioni contenute in proposito nel Codice da Vinci.
Innanzitutto la Bibbia e i suoi scritti canonici, così come essi sono stati tramandati a noi, sarebbero stati raccolti da Costantino il Grande, il quale nell’anno 325 avrebbe anche deciso di unificare l’impero sotto un’unica religione, il cristianesimo. Mentre fino a quel momento, a detta di Dan Brown, Gesù era stato considerato dai suoi seguaci «come un profeta mortale», da quel momento, con un voto a maggioranza, Costantino lo impone come «divino». Anche in questo caso, il nostro romanziere non inventa nulla: un’affermazione simile la ritroviamo nel libro di Baigent, Leigh e Lincoln, The Holy Blood and The Holy Grail: «Il Concilio di Nicea decise, con una votazione, che Gesù era un dio e non un profeta mortale… (Costantino), un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano gli insegnamenti ortodossi: le opere dei pagani che parlavano di Gesù e quelle dei cristiani “eretici”… Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora… Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo. Il Nuovo Testamento nella sua forma attuale è sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell’ortodossia, “seguaci del messaggio” con precisi interessi da difendere».
Cominciamo col porci alcune domande. Innanzitutto, chi era Costantino? La descrizione che ne fa Dan Brown nel Codice da Vinci è veritiera e corrispondente alla storia (alla storia, non alla fede cristiana)? Il lettore che ci ha seguito fin qui probabilmente già immagina la risposta. Ma procediamo per gradi.
Costantino I detto il Grande (Caio Flavio Valerio Aurelio) imperatore romano dal 306 al 337 nasce da Costanzo I Cloro, quando questi era ancora un semplice ufficiale, e da Flavia Elena. Dopo la nomina a «cesare» del padre, Costantino viene cresciuto nella città di Nicomedia presso Diocleziano, per essere in futuro associato all’impero e anche come «garanzia» della fedeltà dello stesso Costanzo. Accompagna Diocleziano in Egitto nel 296 e al servizio di Galerio come tribuno militare combatte contro i persiani e i sarmati. Richiamato dal padre Costanzo, dopo che quest’ultimo era stato proclamato «augusto» in seguito all’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, lo segue in una campagna in Britannia e alla sua morte, per acclamazione dei soldati, ne assume il posto e il titolo. Siamo all’anno 306. Dopo aver vinto i franchi, Costantino si accorda con Massimiano, che aveva intanto assunto nuovamente il potere. Sposa la figlia di Massimiano, Fausta, e ottiene il riconoscimento di «augusto», che però gli viene contestato da Diocleziano. Crescono pure i contrasti con il suocero, che Costantino fa prigioniero a Marsiglia costringendolo al suicidio nel 310. Si allea allora con l’«augusto» Licinio, al quale dà in moglie la sorellastra Costanza, e con Massimino Daia, lasciando entrambi a governare l’Oriente, si dedica a fare guerra a Massenzio, il figlio di Massimiano, che mirava al governo dell’Occidente. Costantino ha la meglio sull’esercito di Massenzio e dopo aver marciato su Roma lo sconfigge a Ponte Milvio, il 23 ottobre 312. A questo punto, Costantino si fa riconoscere dal Senato romano il titolo di «maximus augustus» e, all’inizio dell’anno 313, s’incontra con Licinio a Milano, emanando assieme a lui il famoso editto con il quale viene proclamata la libertà di culto per i cristiani e si decretava la restituzione dei beni che erano stati loro confiscati.
«Noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente uniti a Milano», si legge nell’editto, «e trattando di ciò che riguarda la sicurezza e l’utilità pubblica, abbiamo creduto che uno dei primi nostri doveri fosse di regolare ciò che interessa il culto della divinità e di dare ai cristiani, come a tutti gli altri nostri sudditi, la libertà di seguire la religione che ognuno desidera (“liberam potestatem sequendi religionem, quam quisquam voluisset), onde richiamare il favore del Cielo sopra di noi e sopra tutto l’Impero».
L’accordo tra Costantino e Licinio, dopo l’eliminazione di Massimino Daia (avvenuta nell’estate del 313) è precario: il definitivo conflitto tra i due «augusti» avviene ad Adrianopoli e a Crisopoli nel 323. Abolito il sistema della tetrarchia instaurato da Diocleziano (che prevedeva due «augusti» e due «cesari» che sarebbero loro subentrati), Costantino rimane unico e incontrastato imperatore. Durante il suo regno deve affrontare il pericolo incombente dei barbari: nel 332 stabilisce una pace con i goti (che saranno evangelizzati dopo pochi anni secondo il credo ariano). Si dimostra spietato nei confronti dei familiari, facendo uccidere il figlio maggiore Crispo e poi la moglie Fausta.
Alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, Costantino aveva diffuso la notizia di avere avuto la visione di una divinità, che l’aveva ispirato promettendogli la vittoria; aveva quindi assunto come insegna un simbolo, il labaro, che fu poi interpretato come il «chrismon» cristiano (le lettere «chi» e «ro», iniziali del nome di Cristo), o come l’emblema della croce. Fatti e simboli, questi, ai quali sarà dato un preciso significato cristiano solo più tardi, quando la nuova religione si sarà pienamente affermata.
Si può legittimamente pensare che Costantino si sia avvicinato per gradi al cristianesimo, a partire da un culto monoteistico del «dio sole» che egli professava. Con l’editto di Milano, l’imperatore, per assicurare la pace nel suo regno, concede a tutti di adorare Dio nel modo che preferiscono. Presiede il Concilio di Nicea, in qualità di «vescovo di coloro che sono fuori dalla Chiesa», e attribuisce a se stesso una funzione di regolatore della vita religiosa, anche se mantiene la carica tradizionale degli imperatori, vale a dire quella di «pontifex maximus», sommo sacerdote del culto pagano. Nel 321 concede ai cristiani il riconoscimento della domenica come giorno di riposo, seppure battezzata con il nome di «giorno del sole»: in questo modo accontenta anche i pagani, soprattutto i numerosi adepti del culto di Mitra, per i quali la domenica è proprio il «giorno del sole».
Si converte, con tutta probabilità, soltanto alla fine della vita. Il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, molto influente a corte, lo battezza sul letto di morte. Al di là delle diatribe sulla data della sua conversione, è indubitabile che proprio grazie a Costantino e alle sue leggi (libertà di culto, restituzione dei beni confiscati, dispensa per il clero dalle prestazioni obbligatorie, diritto della Chiesa di ricevere donazioni, abolizione delle leggi contro il celibato, costruzione di basiliche) che il cristianesimo si diffonderà nell’impero.
Con l’imperatore Costantino l’impero romano assume in modo definitivo la forma di una monarchia di diritto divino, con aspetti orientaleggianti. La figura del sovrano è al centro di tutto, governa tutto e tutto ciò che lo riguarda diventa sacro: in sua presenza bisogna rispettare un «religioso silenzio». È lui a fondare una nuova capitale, Costantinopoli, sul luogo dell’antica Bisanzio. E sarà attribuito a lui un documento apocrifo, la cosiddetta «Donazione di Costantino» che sarebbe stata rivolta a Silvestro, vescovo di Roma, nell’anno 313, attraverso la quale l’imperatore concedeva al Papa il potere temporale.È vero pertanto, come afferma il Codice da Vinci, che Costantino avrebbe reso il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano? Assolutamente no. Questo infatti avverrà una quarantina d’anni dopo Costantino, sotto l’imperatore Teodosio, che regna tra il 379 e il 395. Sarà lui a promulgare una legge che vieta ogni culto sacrificale pagano ma anche ogni semplice visita al tempio. Persino adorare gli idoli pagani in casa propria viene proibito.
Veniamo ora alla spinosa questione del Concilio di Nicea, che secondo Dan Brown avrebbe stabilito il canone delle scritture cristiane, abolendo quelle apocrife perché pericolose. E avrebbe anche stabilito grazie a una votazione la divinità di Cristo. Tanto per cominciare dobbiamo ricordare che il Concilio di Nicea non si è occupato del canone delle scritture sacre, ma ha affrontato problemi legati alla disciplina ecclesiastica in un momento di grandi dispute dottrinali. Anche se è vero che il canone, già formatosi in precedenza, si va rafforzando nell’età costantiniana con la conseguente perdita d’influenza dei testi considerati apocrifi.
La grande questione a tema nel Concilio è relativa al Dio unico e allo stesso tempo trino, al Dio unico in tre persone distinte, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La convocazione delle assisi conciliari è provocata dalla dottrina ariana, propagata da Ario: per questo sacerdote di origine libica, che apparteneva al patriarcato di Alessandria, le persone divine della trinità non possono essere considerate uguali, dato che soltanto il Padre, in quanto non creato ma anche non generato sarebbe il «vero» Dio, mentre il Figlio, generato dal Padre, occuperebbe un posto intermedio tra Dio stesso e la creazione. Quello di Ario è di fatto un monoteismo assoluto. Le idee di Ario trovano molti seguaci e per dirimere la questione Costantino convoca un Concilio (il primo «ecumenico» in quanto coinvolge la Chiesa universale) presso il palazzo imperiale di Nicea. I vescovi partecipanti sono circa trecento (secondo alcune fonti 318, secondo altre meno di 250) e l’esito del Concilio è la formulazione del «simbolo niceno», vale a dire del «Credo» che precisa la fede della Chiesa e afferma che Gesù è «consustanziale al Padre» («homousios to Patrì») e ha la sua stessa natura. Abbiamo letto nel Codice da Vinci che la proclamazione della divinità di Cristo sarebbe avvenuta con un voto a maggioranza. Peccato che Dan Brown non dica che soltanto due vescovi non sottoscrissero il Credo: Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide. Entrambi vennero deposti e scomunicati dal Concilio, quindi esiliati da Costantino.Ecco la formulazione del Credo niceno, che sarà poi ulteriormente sancita dal Concilio di Costantinopoli:«Crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
E in un solo Signore Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio, generato dal Padre prima del tempo, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, attraverso il quale tutte le cose sono state create; che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e fu fatto carne dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria, e divenne uomo, fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e patì e fu sepolto, e risorse il terzo giorno secondo le Scritture, e ascese al cielo, e siede alla destra del Padre, e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine.E nello Spirito Santo, il Signore che dà la vita, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e parlò attraverso i profeti.
E in una sola Chiesa, santa, cattolica e apostolica.Riconosciamo un solo battesimo per la remissione dei peccati. Attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».Costantino non si limita a convocare il Concilio del Credo, ma manda l’«eretico» Ario in esilio. Ma non basta. L’arianesimo continua a diffondersi tra le comunità cristiane. Il grande oppositore di Ario è il vescovo Atanasio di Alessandria e l’imperatore tenta, invano, di proporre una soluzione di compromesso accettabile da entrambi. I vescovi che hanno sancito il Credo, però, si rifiutano di modificarlo e così Costantino, stanco di queste diatribe, riabilita l’esiliato Ario e manda in esilio lo stesso Atanasio. Quando viene battezzato sul letto di morte, l’imperatore riceve il battesimo nella fede ariana. La crisi si risolverà soltanto nel 381, con il Concilio di Costantinopoli, convocato dall’imperatore Teodosio, che spiegherà la «coesistenza» dell’unicità di Dio e la distinzione delle tre persone della Trinità in una sola natura. Il Credo costantinopolitano riprende quello di Nicea, afferma che lo Spirito Santo è «consustanziale» e «coeterno» con il Padre e il Figlio con cui forma la Santissima Trinità e riconosce al vescovo di Costantinopoli il posto d’onore dopo quello di Roma.
Dobbiamo ora chiederci: alla luce di questo, che fine fa l’affermazione di Dan Brown secondo la quale sarebbe stato il Concilio di Nicea, sotto la guida di Costantino, a divinizzare l’uomo Gesù? Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei testi evangelici comprende al volo che ci troviamo davanti all’ennesima fiaba del nostro romanziere. Prendiamo per esempio gli scritti di Paolo, che sono databili tra il 50 e il 68 dopo Cristo, vale a dire almeno trecento anni prima del Concilio di Nicea. Ebbene, in questi scritti troviamo affermata senza tema di smentita la divinità di Cristo. Come nella Prima Lettera ai Corinzi (8, 5-6), che recita: «E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi e molti signori, per noi c’è un Dio solo, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, e noi esistiamo per lui». Difficile davvero immaginare un uomo, per quanto grande profeta, «in virtù del quale esistono tutte le cose»! Lo stesso titolo «Signore» veniva spesso riferito a Dio, nella traduzione greca della Bibbia, detta «dei Settanta». Gesù, secondo l’apostolo Paolo, è coinvolto nella creazione del mondo. «Secoli prima di Nicea», scrive Darrell L. Bock, «un importante capo spirituale cristiano affermava la divinità di Gesù non solo mediante l’uso di un titolo, ma anche attraverso la descrizione del suo agire».
In altri brani, come nella Lettera ai Filippesi (2, 9-11), Paolo applica a Gesù i termini che il profeta Isaia utilizzava per Dio nella Bibbia ebraica: «Per questo anche Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre». Un passo che richiama quello di Isaia (45,23) nel quale il profeta riporta le parole di Dio: «L’ho giurato su me stesso; quello che esce dalla mia bocca è giustizia e non sarà revocato! Infatti davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua giurerà…».
Lasciamo Paolo, e prendiamo i vangeli. Come leggere il prologo di Giovanni, se non come un inno alla divinità di Cristo?«In principio era il Verboe il Verbo era presso Dioe il Verbo era Dio.Questi era in principio presso Dio.Tutto per mezzo di lui fu fattoe senza di lui non fu fattonulla di ciò che è stato fatto…E il Verbo si fece carne…».
Il Verbo divino che si fa carne è Gesù Cristo, il Nazareno, figlio di Maria, concepito per opera dello Spirito Santo, figlio del Padre, condivide con quest’ultimo la natura divina. Non è soltanto un uomo, un profeta, un predicatore.Veniamo ora ai tre sinottici. E citiamo, a mo’ d’esempio, le parole pronunciate da Gesù davanti al Sinedrio, riunito nell’abitazione dei sommi sacerdoti Anna e Caifa.«Allora il sommo sacerdote levatosi in mezzo all’assemblea interrogò Gesù dicendo: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”» (Marco 14, 60-61).«Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”» (Matteo 26, 63).«E gli dissero: “Se tu sei il Cristo, diccelo”» (Luca 22, 67).È il momento culminante del processo giudaico, perché da questa risposta dipende la condanna di Gesù. La risposta, riportata dai vangeli, è questa e appare inequivocabile:«Gesù rispose: “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”» (Luca 22, 68-69).«Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo assiso alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”» (Marco 14, 62).La domanda di Caifa, osserva il biblista Gianfranco Ravasi, voleva «provocare Gesù a una semplice dichiarazione messianica, grave ma non blasfema, perché il Messia in Israele era considerato una creatura umana». E Giacomo Biffi, nel suo Gesù di Nazaret (edizioni Elledici) spiega: «Il “messia” per gli ebrei del tempo di Cristo era la figura che radunava in sé tutte le speranze di Israele: era colui che avrebbe ristabilito il regno di Davide, che avrebbe rinnovato e purificato il culto di Dio, che avrebbe fatto conoscere senza ambiguità la volontà di Iahvè e il suo disegno di salvezza, che avrebbe posto fine alla loro storia di dolore e di umiliazione». È interessante notare che il concetto di messia non era necessariamente connotato dalla prerogativa della unicità. Gli ebrei riconoscevano infatti molti messia nel loro passato. Davide, i re, i sacerdoti, i profeti, avevano di volta in volta ricevuto questo appellativo, che ricordava la consacrazione mediante l’unzione.La colpa di «arrogata messianicità», cioè l’autoproclamarsi messia, prevedeva un duro castigo, ma non la condanna a morte. Nella sua risposta, invece, Gesù va ben oltre, fondendo insieme due testi biblici: il Salmo 110, che parla di un messia riconducibile all’orizzonte terreno e atteso da Israele lungo la linea dinastica di Davide, e un passo tratto dal capitolo 7 di Daniele. Quest’ultima citazione aveva un valore più misterioso per le autorità religiose giudaiche, in quanto presentava un «Figlio dell’uomo» messianico che «veniva sulle nubi del cielo», partecipando dunque della stessa vita di Dio. Presentando se stesso con delle caratteristiche divine, Cristo fa scattare l’accusa di bestemmia.
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte (Marco 14, 63-64).Compiendo il gesto rituale dello strapparsi le vesti, Caifa manifesta il suo sdegno più profondo per l’affermazione del Nazareno. «In conclusione», osserva Giuseppe Ricciotti nella sua Vita di Gesù Cristo (Mondadori, 1999), «l’inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l’imputato aveva confessato di essere il Messia d’Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere il vero Figlio d’Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà adottata e sarà ugualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano».Vorremmo ora proporre una pagina significativa del cardinale Giacomo Biffi, tratta dal già citato libro Gesù di Nazaret (pp. 101-104) e dedicata alla divinità di Cristo, che elenca una nutrita serie di citazioni evangeliche dalle quali questa traspare chiaramente.«Pietro proclama: “Tu sei il Figlio di Dio”. Abbiamo qui il terzo, più alto e più sconcertante elemento della unicità di Gesù di Nazaret, cioè la sua divina personalizzazione o, più semplicemente, la sua divinità. Era storicamente impensabile che la divinizzazione di un uomo potesse nascere “per cause naturali” entro la cultura ebraica, totalmente, rigidamente, ferocemente monoteista. Eppure la Chiesa apostolica è arrivata a questa sconvolgente persuasione costretta dalla luce della risurrezione: “Tu sei il mio Signore e il mio Dio” (Giovanni 20,28), è la professione di fede dell’incredulo Tommaso, posta a traguardo della catechesi giovannea». «La Chiesa apostolica», continua Biffi, «esprime in modo vario questa difficile fede, ma sempre con molta chiarezza e in tutte le sue diverse componenti:– Paolo: Gesù è “di natura divina” (Filippesi 2,6) e ha ricevuto “il Nome che sta sopra tutti gli altri nomi” (Filippesi 2,9);– Giovanni: Gesù è il Verbo che “era presso Dio” ed “era Dio” (Giovanni 1,1);– Matteo: colloca il Figlio tra Dio Padre e lo Spirito di Dio, sullo stesso piano: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28,19);– La Lettera agli Ebrei: “del Figlio afferma: Il tuo trono, o Dio, sta in eterno” (Ebrei 1,8).Alla luce della Pasqua la Chiesa apostolica è arrivata a questa convinzione, perché alla luce della Pasqua ha finalmente capito che Gesù stesso nei discorsi e negli atti della sua vita terrena aveva in maniera molteplice, anche se cauta, rivendicato a sé le prerogative divine:– si pone sullo stesso piano del Legislatore del Sinai: “Io invece vi dico” (Matteo 5-7);– si arroga il diritto di perdonare i peccati (Matteo 9,2; Luca 7,36-50);– si ritiene il Giudice degli uomini e della storia:– proclama di essere il “padrone del sabato” e più grande del tempio (Matteo 12, 6-8);– dice di essere l’unico maestro, che non solo ha sempre ragione, ma “è la verità”;– si colloca più in alto degli angeli (Marco 13,41);– si propone come oggetto di un amore che deve essere più grande di quello del padre, della madre, della sposa, dei figli, dei fratelli (Matteo 10,37; Luca 14,26);– si ritiene non uno dei figli di Dio, ma l’unico Figlio di Dio (Matteo 21,33-34);– a suo dire Dio e lui sono esattamente sullo stesso piano: “Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio…” (Matteo 11,27; Luca 10,22).La certezza storica – enunciata da tutti questi indiscutibili “loghia” (detti) – che Gesù stesso si è presentato come Dio, rende assolutamente improbabile la benevola, accomodante, “moderata” concezione che di Cristo hanno molti “benpensanti”, che vogliono poter apprezzare e lodare Gesù, come uomo saggio, giusto e grande, senza riconoscerlo come Signore e come Dio. Una tale “moderazione” è smentita da tutta la documentazione evangelica in nostro possesso: un uomo che dice le cose che lui dice, non può essere giudicato né saggio, né giusto, né grande, non può avere la nostra stima, non può essere onorato. A meno che non sia vero tutto quello che lui dice di sé e tutto quello che la Chiesa apostolica afferma di lui. Non si può dunque arrivare a un accordo generale sulla base di una generica stima di Cristo: o lo si rifiuta, disprezzandolo, o davanti a lui ci si inginocchia».
Come si vede, dunque, la divinità di Cristo è rintracciabile nei testi più antichi, scritti pochi decenni dopo i fatti. Attribuire al voto del Concilio di Nicea questa credenza, facendo intendere, come Dan Brown, che fino a quel momento Gesù era stato considerato soltanto un semplice uomo, significa affermare il falso. Libero Dan Brown, come chiunque altro, di non credere alla divinità di Cristo. Ma scrivere che questa era la credenza diffusa nei primi secoli del cristianesimo è semplicemente una bufala. L’ennesima, tra quelle raccontate nel Codice da Vinci. L’idea della divinità di Gesù, il figlio di Dio, non è stata decisa a maggioranza in una votazione – seppure una votazione conciliare – ma era espressa con evidenza e chiarezza nei vangeli che, lo ricordiamo, sono stati scritti pochi decenni dopo i fatti narrati.
Veniamo ora al canone delle Scritture, un tema al quale abbiamo già accennato nel capitolo precedente ma che ora esamineremo più nel dettaglio, per verificare se rispondano al vero le affermazioni di Dan Brown. Secondo il Codice da Vinci (e i suoi «ispiratori»), lo abbiamo visto, l’imperatore Costantino avrebbe commissionato e finanziato una nuova Bibbia, escludendo i vangeli che esaltavano gli «aspetti umani» di Cristo. Ricordiamo le parole precise già citate nel primo capitolo di questo libro, con le quali, nel romanzo, si parla del ruolo avuto dall’imperatore nella formazione del canone delle Scritture: «Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù, erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso, esistevano migliaia di documenti che parlavano della sua vita di uomo mortale. Per riscrivere i libri di storia, Costantino sapeva di dover fare un colpo di mano… commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Cristo e infiorava i vangeli che ne esaltavano gli aspetti divini. I vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati».
Anche in questo caso, il Codice da Vinci non la racconta giusta. Nel 397 il vescovo Atanasio fu il primo a proporre una lista dei ventisette libri del Nuovo Testamento e fu anche il primo a usare il termine «canone» per la sua raccolta. Tale lista, dunque, era stata stilata dopo il Concilio di Nicea, che come abbiamo visto si era svolto sotto l’egida di Costantino nel 325. Va però anche aggiunto che in realtà la selezione dei testi cosiddetti canonici si era già sostanzialmente conclusa parecchio tempo prima. Si tratta di un processo graduale, che avviene nel II, III e IV secolo. Tra l’altro, scrivere, come fa Dan Brown, che i manoscritti più antichi del Nuovo Testamento risalgono tutti al IV secolo non è corretto, dato che esistono alcune decine di papiri (e si tratta anche di frammenti di lunghezza considerevole) databili nel II e nel III secolo. Ecco, in sintesi, le tappe principali dell’istituzione del canone delle Scritture cristiane, così com’è stato efficacemente riassunto da Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, nel loro libro Inchiesta sul Codice da Vinci (Mondadori, 2005): Giustino martire, che scrive attorno all’anno 150, riferisce che a Roma «si leggevano le Memorie degli apostoli». Si sa che nel II secolo circolavano infatti vari testi, nei quali erano raccontati i fatti della vita di Gesù e le sue parole, insieme con altri scritti apocalittici attribuiti agli stessi apostoli. All’epoca, bisogna precisarlo, nessuna autorità o istituzione ecclesiastica aveva ancora stabilito l’autenticità o meno dei testi in circolazione. Il primo personaggio che redige una selezione rigida è Marcione (85 circa – 160), figlio del vescovo di Sinope, accolto dalla comunità di Roma, il quale rifiuta l’eredità ebraica del cristianesimo e l’Antico Testamento concentrandosi invece sul vangelo di Luca – in una versione da lui adattata – e su alcune lettere di Paolo. Oltre a sostenere l’irriducibilità di giudaismo e cristianesimo, riterrà come soltanto apparente l’incarnazione di Cristo (docetismo). Sarà considerato eretico e scomunicato, e fonderà una chiesa sopravvissuta fino al V secolo. La sua iniziativa contribuirà a incoraggiare una forma di selezione dei sacri testi.Un altro documento importante, che serve a smentire la tesi di Dan Brown, è il Frammento muratoriano, che prende il nome da Ludovico Antonio Muratori, storico, bibliotecario ed erudito che nel 1740 ha scoperto questo importante documento risalente all’VIII secolo, nel quale si fa riferimento a «Pio, vescovo di Roma morto nel 157» e si afferma l’esistenza, in quell’epoca, dei quattro vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, degli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca e delle tredici lettere di Paolo. Il Pio vescovo di Roma è Pio I.
Nel frammento, che consta di ottantacinque righe, sono pure indicati alcuni criteri di selezione per i testi canonici: la loro antichità, vale a dire che essi devono essere il più possibile vicini dal punto di vista temporale ai fatti raccontati, e il loro legame diretto con la predicazione degli apostoli. Criteri che, come il lettore avrà già compreso, di fatto sbaragliano molta produzione apocrifo-gnostica in favore dei quattro vangeli canonici, scelti dunque ben prima di Costantino, circa duecento anni prima del Concilio di Nicea, e non sulla base della loro «pericolosità» circa i contenuti. Non si trattava cioè di scartare o nascondere inesistenti vangeli che ci parlavano delle nozze di Gesù con la Maddalena o dell’umanità di Cristo, semplice profeta e non Dio, favorendo invece gli scritti più innocui e utili alla dottrina dominante. No. I criteri sono precisi, hanno una loro logica, e si richiamano all’antichità del testo e alla sua comprovata origine apostolica, come garanzia di fedeltà ai fatti narrati.
Qualche decennio dopo il pontificato di «Pio, vescovo di Roma morto nel 154», verso la fine del II secolo, il vescovo di Lione Ireneo prepara una lista contenente i quattro vangeli canonici che secondo lui rappresentano la «buona novella». Ireneo si scaglia pure contro le eresie e in particolare contro la gnosi che attacca la vera fede cristiana. Ricordiamo ancora una volta che mancano circa centocinquant’anni al Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino. Ancora, nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, scritta verso l’anno 325, sono indicati i libri letti nelle Chiese d’Oriente alla fine del II secolo. Vale a dire, i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le lettere di Paolo e la lettera agli ebrei, le prime lettere di Pietro e Giovanni e alcune altre opere che non saranno poi incluse nel canone definitivo, come l’Apocalisse di Pietro, che pur non essendo contrarie alla dottrina cristiana non sono considerate «ispirate» da Dio. È bene precisare che tra gli apocrifi non ispirati che vengono utilizzati non ci sono vangeli gnostici, ma testi comunque in linea con la dottrina cristiana così come si era andata definendo nei primi secoli. Dunque ne dobbiamo dedurre che già allora una decisiva selezione era stata fatta e non includeva i testi così cari a Dan Brown, anche perché, forse, questi non erano ancora stati redatti.
Dunque sia a Roma, nel 154, sia nelle Chiese d’Oriente, più o meno negli stessi anni, il canone delle Scritture del Nuovo Testamento in vigore era sostanzialmente quello degli scritti che saranno considerati canonici nei secoli successivi fino ai nostri giorni. Come avrebbe fatto Costantino, che all’epoca non era ancora nato, a compiere la sua azione selezionatrice? Ha potuto forse viaggiare con una macchina del tempo, superando la barriera di quasi due secoli?
Chiediamoci piuttosto perché queste elementari informazioni – per reperire le quali non è necessario tuffarsi per anni nel dedalo degli studi neotestamentari, dato che sono reperibili in una buona enciclopedia – non fossero a conoscenza dell’autore del Codice da Vinci.Nel corso del IV secolo (arriviamo così finalmente a Costantino!) si pone una volta per tutte il problema di selezionare definitivamente i testi canonici da quelli che non lo sono. Un lavoro che vede all’opera i cosiddetti concili regionali. Ai già citati criteri dell’antichità, dell’apostolicità e dell’autenticità della fede proclamata, se ne aggiunge un altro, molto significativo, vale a dire quello della diffusione universale: per la catechesi e la liturgia saranno cioè adottati quei testi già maggiormente diffusi dalle comunità cristiane in Occidente e in Oriente. Nel 328 il Concilio di Roma stila l’elenco definitivo, con i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, il Concilio di Ippona nel 393 conferma quella scelta e infine nel 397 il Concilio di Cartagine vi aggiunge l’Apocalisse di Giovanni apostolo stabilendo che al di fuori di queste «Scritture canoniche nulla deve essere letto nella Chiesa sotto il nome di divine Scritture».
Non ci sono, come si vede, colpi di mano. Non ci sono roghi che bruciano antichi testi «pericolosi» per salvare solo quelli «innocui». Il processo è lungo e articolato, dura circa tre secoli, si conclude in modo abbastanza prevedibile visti i criteri che si erano andati affermando. L’idea di Dan Brown finisce male. «C’è un unico elemento storicamente vero nella tesi del Codice da Vinci», scrivono Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «una volta costituita la Bibbia cristiana, le tesi gnostiche vengono sistematicamente condannate…». Il problema degli scritti canonici si porrà nuovamente con la riforma protestante. Ma neanche questa riuscirà a far portare in vigore gli apocrifi gnostici, che continuano a essere considerati inattendibili.
Qualche breve considerazione, alla fine di questo capitolo dedicato a Costantino e alla formazione del canone dei vangeli, lo merita il tema del «femminino sacro»¸ del culto della dea madre che sembra ossessionare Dan Brown e i protagonisti del suo romanzo, che vedono sacri Graal, simboli sessuali e vagine stilizzate in ogni dove, persino nei cartoni animati di Walt Disney. È accertato, dagli studiosi della preistoria, che per un lungo periodo, tra il paleolitico e il megalitico, le popolazioni del nostro Continente e del Medio Oriente veneravano una sorta di grande dea madre, una divinità femminile. Nelle società primitive, il potere di dare la vita era infatti considerato come qualcosa di divino e di misterioso e la stessa organizzazione della vita di questi nostri progenitori era di tipo matriarcale. «In Europa occidentale», scrivono ancora Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «la venerazione delle dee è terminata probabilmente qualche migliaio di anni prima di Cristo, quando gli Indoeuropei invasero l’Europa da est portando con loro la credenza in divinità maschili. Il culto delle dee si è unito progressivamente al culto di questi dèi dando vita a una grande varietà di religioni pagane».
È ovviamente del tutto priva di fondamento la tesi di Brown, secondo la quale sarebbe stato Costantino a sostituire l’iniziale «femminino sacro» o «principio femminile» vigente nel cristianesimo delle origini con il principio maschile o maschilista. La società patriarcale, che aveva sostituito quella matriarcale, era diventata vincente già da moltissimi secoli. Dunque non ci sono cambi in corsa, o sotterfugi, né tantomeno segreti conservati gelosamente da pochi iniziati: l’idea che inizialmente il cristianesimo si fondasse sul principio femminile e che l’uomo Gesù avesse stabilito di lasciare alla moglie la guida della Chiesa, è una pura e semplice invenzione, antistorica, priva di qualsiasi riscontro. L’ennesima, nelle pagine del romanzo di Dan Brown.
16 aprile 2005

50º anniversario invasione sovietica dell’Ungheria: cosa diceva il neo presidente Napolitano

Nel 1956, all'indomani dell'invasione dei carri armati sovietici a Budapest, mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti di primo piano lasciarono il Pci, Napolitano arrivò a bocciare con durezza questa scelta dell'esponente comunista piemontese, profondendosi in elogi non solo di Togliatti, ma anche dei sovietici. L’Unione sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la «pace nel mondo» …
di Giorgio Napolitano
Come si può, ad esempio, non polemizzare aspramente col compagno Giolitti quando egli afferma che oltre che in Polonia anche in Ungheria hanno difeso il partito non quelli che hanno taciuto ma quelli che hanno criticato? È assurdo oggi continuare a negare che all'interno del partito ungherese - in contrapposto agli errori gravi del gruppo dirigente, errori che noi abbiamo denunciato come causa prima dei drammatici avvenimenti verificatisi in quel paese - non ci si è limitati a sviluppare la critica, ma si è scatenata una lotta disgregatrice, di fazioni, giungendo a fare appello alle masse contro il partito. È assurdo oggi continuare a negare che questa azione disgregatrice sia stata, in uno con gli errori del gruppo dirigente, la causa della tragedia ungherese. Il compagno Giolitti ha detto di essersi convinto che il processo di distensione non è irreversibile, pur continuando a ritenere, come riteniamo tutti noi, che la distensione e la coesistenza debbano rimanere il nostro obiettivo, l'obiettivo della nostra lotta. Ma poi ci ha detto che l'intervento sovietico poteva giustificarsi solo in funzione della politica dei blocchi contrapposti, quasi lasciandoci intendere - e qui sarebbe stato meglio che, senza cadere lui nella doppiezza che ha di continuo rimproverato agli altri, si fosse più chiaramente pronunciato, che l'intervento sovietico si giustifica solo dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche dell'Unione Sovietica; senza vedere come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma dello scatenamento di una guerra calda, l'intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d'Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all'Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente abbia contribuito, oltre che ad impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss ma a salvare la pace nel mondo.
«Unità» dell’anno 1956
Per avere un'idea di quanto successe in Ungheria in quell'anno vi consiglio il solito sito di Cronologia.it

29 maggio 2006

Questa scoperta l’ho già vista: al cinema!

Da «Minority Report» a «Mission: Impossible», i kolossal futuristici di Hollywood incantano anche per gli affascinanti ritrovati tecnologici che sfoggiano. Che spesso non sono fantasie avveniristiche, ma progetti e prototipi concreti, quasi pronti a essere lanciati sul mercato
Di Alessandro Zaccuri
Non ci resta che sperare nella Cura, sempre che non arrivi prima la Zampa di Coniglio. O magari è il contrario, vai a saperlo. La Cura è il mirabolante protocollo medico che nel film X-Men 3: Conflitto finale di Brett Ratner promette di porre fine ai guai di Wolverine e mutanti assortiti. Possono tornare "normali", a patto però di rinunciare ai loro superpoteri: un dilemma non troppo distante da quelli che le future terapie geniche potrebbero costringerci ad affrontare. La Zampa di Coniglio, invece, è il misterioso ritrovato tecnologico attorno al quale ruotano le peripezie dell'agente specialissimo Ethan Hunt (interpretato da Tom Cruise) in Mission: Impossibile III di J.J. Abrams. Non si riesce a scoprire che cosa sia, ma forse non si sbaglia se si restringe la ricerca al campo delle armi non convenzionali…Una trovata degli sceneggiatori, d'accordo. Eppure accade sempre più spesso che le previsioni del cinema finiscano per trovare riscontro nella realtà. Il caso più clamoroso è forse quello del "giornale virtuale" visto in Minority Report di Steven Spielberg. Era il 2002 e il volto del fuggiasco Tom Cruise (ancora lui, esatto) appariva all'improvviso sul quotidiano che un passeggero stava sfogliano in metropolitana. Una tecnologia che nelle scorse settimane è entrata in fase sperimentale con il progetto iLiad: aggiornamento delle news in tempo reale su un display ultrasottile, in grado da fare da supporto al cosiddetto «inchiostro elettronico». Una coincidenza niente affatto causale, dato che l'intero design avveniristico di Minority Report si basava sulla consulenza fornita da un nutrito gruppo di esperti. A loro si devono ipotesi mirabolanti ma non troppo (il sistema di trasporto urbano su campi magnetici si richiama in effetti ai "supertreni" giapponesi) e il puntuale sfruttamento di possibili brevetti all'epoca già molto chiacchierati. Per non parlare degli ammiccamenti al marketing, tra cui spicca l'appetitoso prototipo di una spider Lexus.Che il cinema g etti lo sguardo del futuro non è certo una novità. Succedeva già all'epoca dell'incantatore Georges Méliès, che nel 1902 fissava sulla pellicola il Viaggio sulla Luna immaginato da Jules Verne, con astronavi simili a salotti e crateri da operetta per descrivere un'impresa che, all'epoca, sembrava del tutto irrealizzabile. Un po' come quella che Bruce Willis e soci sono incaricati a compiere in Armageddon di Michael Bay (1998): piazzare cariche esplosive su un asteroide per impedire che entri in rotta di collisione con il nostro pianeta. Per l'invio di astronauti ci stiamo attrezzando, ma il pendolarismo di una sonda, sul tragitto dalla Terra a un asteroide e ritorno, è cosa fatta e fatta, di nuovo, dai giapponesi. Made in Japan, neanche a dirlo, sono anche i più sofisticati modelli di asteroide, che paiono usciti dai fotogrammi di Io, robot diretto un paio d'anni fa da Alex Proyas sulla scorta dei celeberrimi racconti di Isaac Asimov. Nel film Will Smith si toglieva lo sfizio di guidare una futuribile Audi superaccessoriata, ma dalla linea non tanto diversa da quella dei modelli lanciati sul mercato in contemporanea alla diffusione del film. Sempre più spesso, insomma, il futuro del cinema gioca con il presente dei consumatori, anticipandone i gusti quel tanto che basta per suggerire nuovi abitudini d'acquisto. Nessuno lo ammetterebbe mai, ma ogni volta che manipoliamo un'immagine digitale sul pc di casa ci sentiamo tutti un po' come l'Harrison Ford che, in un'epocale scena del Blade Runner di Ridley Scott (1982), imprimeva al computer una serie di comandi vocali che portavano a "esaltare" i dettagli di un'istantanea.L'alleanza fra immaginario cinematografico e documentazione scientifica percorre a volte sentieri bizzarri, come nel caso di The Manchurian Candidate di Jonathan Demme (2004), dove la sequenza che mostra l'impianto di una ricetrasmittente nel cervello di uno dei protagonisti è stata realizzata facendo tesoro dei consigli di un neurochirurgo. Del rest o, i microchip da piazzare sottopelle - per uso medico, però, e non spionistico - sono entrati nella cronaca poco dopo che il pubblico ne aveva scoperto l'esistenza in un altro Mission: Impossibile, il numero 2, diretto nel 2000 da John Woo. Per vedere qualcosa di davvero implausibile, a questo punto, occorre recuperare il fosco Orwell 1984 di Michael Radford: girato nello stesso anno descritto dal romanzo e ipotizzando un impiego alternativo delle tecnologie disponibili nel dopoguerra (telefoni a disco e posta pneumatica alleati per svolgere il lavoro di un computer, per esempio). Forse, quando il futuro non stupisce più, è arrivato il momento di guardare al passato con occhi diversi.
« Avvenire » del 28 maggio 2006

Le mappe che portano al Paradiso terrestre

di Marco Ventura
Dicembre 1944. Il reporter del Times trova l'Albero della Conoscenza alla confluenza di Tigri ed Eufrate, poco lontano da Bassora. Resta un tronco spezzato, ma la suggestione del Giardino dell' Eden è sufficiente perché il luogo divenga col tempo un' attrazione turistica. La guerra Iran-Iraq negli anni Ottanta e i successivi conflitti dell' era Bush devastano il sito. Finché, dopo il 2003, tra le buche scavate dalle esplosioni, viene posta una targa in arabo e in inglese a ricordare che proprio lì si trovava l' Albero del serpente, simbolo del Paradiso terrestre. In bilico tra narrazione biblica ed attualità bellica, l' Iraq è solo una delle ipotetiche sedi dell' Eden. Nei secoli, il Giardino dell' innocenza di Adamo ed Eva ha infatti appassionato per il suo «dove» almeno quanto per il suo «se». Giacché fin dai primi secoli del Cristianesimo attestare il luogo fisico del Paradiso terrestre, prima della caduta nel peccato originale, ha significato attestare una visione universale. Purtroppo quel luogo non era più accessibile all' uomo. Si diceva che risalendo il Gange Alessandro il Grande lo avesse trovato, ma ne fosse stato respinto dalla folla delle anime in attesa del Giudizio. Tuttavia nessun esploratore, tra cui monaci leggendari come Brandano, lo aveva trovato. Ma senza dubbio esisteva ancora. La cacciata di Adamo ed Eva non lo aveva cancellato, lo aveva soltanto separato dall' uomo. Difeso da vaste distese di mare o terra, da un' altitudine tale da sottrarlo al Diluvio, da cerchi di alte fiamme. Chi fosse riuscito a raggiungerlo all' estremo Est, dove termina l' arcobaleno, avrebbe poi dovuto misurarsi con la spada di fuoco dell' angelo che ne presidia i cancelli. Dunque, il Giardino delle delizie era ancora lì. Con la sua fonte dell' eternità, i due alberi della Vita e della Conoscenza, i quattro fiumi. Ma vuoto. Attendeva il compiersi della storia e l' avvento del Paradiso celeste. Proprio per questo ne andava cercata e precisata l' ubicazione. Per documentarne il passato (quando per alcune ore era stato abitato da Adamo), per certificarne il presente, per testimoniare che la storia scorreva verso il suo compimento. Raffigurare anche l' Eden tra le terre via via svelate dalle scoperte geografiche tramutava una carta in mappa del tesoro: si faceva immagine la tensione della storia tra Paradiso perduto dell' Eden e Paradiso ritrovato dell' Apocalisse. Ecco perché il «dove» importava quanto il «se» del Paradiso terrestre. Il che fece fiorire le interpretazioni. Così l' Eden fu collocato in India, Cina, Armenia, Siria, Persia, Arabia, Africa, America, in Terra Santa, sulle Alpi, nel Mar Caspio, al Polo Sud. Ma anche nelle viscere della terra o nel terzo cielo della luna o sulla luna stessa. Variò anche la fisionomia: luogo rigoglioso della perenne primavera, imponente cittadella medievale, spazio remoto e inaccessibile separato da cerchi di mura e fiamme. Attraverso la ricerca geografica dell' Eden e la sua raffigurazione le generazioni galleggiavano tra visibile ed invisibile esprimendo certezze e inquietudini profonde. E celebrando al contempo la loro conoscenza dei confini, delle forme, delle misure del mondo. La British Library ripropone ora questa affascinante ricerca con il volume dedicato da Alessandro Scafi al Paradiso nelle carte geografiche (Mapping Paradise, The British Library). Con ricchissima e in parte inedita iconografia, l' opera percorre la storia della cartografia del Paradiso in Occidente. Dalle raffigurazioni medievali alla crisi rinascimentale, dal veto positivista dei cartografi ottocenteschi alle curiosità postmoderne. L' autore spiega, descrive, si sofferma sui singoli capolavori e contemporaneamente traccia un quadro d' insieme. Soprattutto lotta contro pregiudizi e stereotipi e cerca di capire. Come nel caso del veneziano Giovanni Leardo e della sua accurata trascrizione su mappa, in base alle conoscenze del tempo, del Giardino dell' Eden. Siamo nel 1442 ed è una delle ultime volte prima che soffi il vento di Lutero. La cima del mondo di Leardo corrisponde con l' Est. È infatti a Est che i Pesci transitano in Ariete, il segno in ascendente quando Dio ha creato il mondo, ma anche quando Maria ha concepito il Salvatore e quando Cristo è morto in croce. Proprio in cima al mondo, dunque a st oltre l' India, Leardo situa il suo paradixo teresto: una città fortificata in cui spiccano torri e palazzi. Di lì una retta scende attraverso l' Oceano Indiano verso il Mediterraneo: al centro, Gerusalemme. Tempo e spazio sono in armonia: erede dei tentativi precedenti, ma anche forte delle nuove scoperte, il veneziano concilia il tempo umano, la verità rivelata e i ritmi celesti. Bastano pochi decenni perché l' armonia si spezzi. Lutero e Calvino portano altri dati e altre visioni. La Sacra Scrittura va nobilitata e difesa contro le allegoriche fandonie di cartografi superstiziosi. Münster usa la stessa varietà dei luoghi ipotizzati per provare l' impostura e screditarne gli autori: ai tropici, all' equatore, oltre il mondo abitato, in una montagna così alta da raggiungere la luna. Fantasie risibili di tempi oscuri cui opporre una nuova ortodossia. Non per questo l' Eden è bandito dalle carte. Esso è soltanto ripensato e riposizionato alla luce di calcoli ed interpretazioni coerenti con il metodo umanistico. Nasce una cartografia rinascimentale non meno ricca di paradisi, ma già tesa alla distinzione tra scienza e teologia. Dopo il Rinascimento le carte smettono di includere paradisi. Il loro ruolo è venuto cambiando con l' affinarsi e il prevalere della misurazione. La Bibbia ha cessato di costituire l' orizzonte e la legittimazione del sapere scientifico. Lottando contro una credulità sinonimo di soggezione all' autorità ecclesiastica, i moderni cartografi hanno cancellato con accanimento miti e leggende. Gli stessi teologi si sono arresi. Gli esploratori hanno reso impossibile anche solo pensare la realtà di un Eden. E si è resa necessaria una diversa lettura del Peccato originale: lettura orfana del Dio geloso, signore del senso di colpa. Il primato della misura geodetica ha dunque cambiato la religione. Quella religione senza la quale, tuttavia, l' era delle scoperte non sarebbe stata la stessa. Cristoforo Colombo non avrebbe mai aspirato a nuovi orizzonti senza il Paradiso dantesco. Lungi dal frenarlo, gli Eden sulle sue carte geografiche gli diedero una ragione ulteriore per cercare nuove vie verso le Indie. Fu, dunque, anche la religione a cambiare se stessa. La prima delle quasi duecento illustrazioni proposte da Scafi è la pubblicità di una linea aerea che promette di portarvi in Paradiso. Svanito dalle carte geografiche, l' Eden è un motivo ancora ricorrente nella comunicazione. Possiamo scegliere tra i Paradisi perduti dei bestseller, la seconda stella a destra di una eterna fanciullezza o gli economici giardini di delizie a portata di charter e tour operator. Davvero non ha più senso snobbare gli ingenui monaci medievali. Ora che la terra si fotografa dallo spazio possiamo permetterci di godere la bellezza delle loro carte del Paradiso.
«Corriere della sera» del 28 maggio 2006

27 maggio 2006

Acqua e tempesta nella clessidra

UN ARTICOLO IN ONORE DELLA ... NIPOTINA CHE ABBIAMO IN CLASSE!
Una «lectio» del poeta Valerio Magrelli dedicata alle metafore «liquide» nella letteratura moderna. L’immagine della leggerezza e della purezza si mischia alla memoria del naufragio
Di Valerio Magrelli
«Acqua, ti adoro! Cos'è la vita se non acqua organizzata? Cos'è un albero se non un fiume verticale che sale verso la luce? Il nomade si arresta accanto a te, nel punto sacro in cui la ninfa e la fonte preparano la nascita della civiltà. Anche il linguaggio canta le tue lodi, quando parla di trasparenza, sete di verità, torrenti di parole. Il tempo stesso ha attinto dal tuo corso la figura con cui lo immaginiamo».Tanto lirismo per una réclame. Queste riflessioni sono tratte da un breve testo che Paul Valéry compose nel 1935 per la Perrier. In copertina stava un bicchiere della celebre acqua minerale, con la scritta: «Al gas naturale». Ah, quel gas naturale! Qualche anno fa, la stessa ditta ha ritirato dal mercato 160 milioni di bottiglie a causa del benzolo rinvenuto in alcuni campioni. Potenza dell'analogia: secondo un resoconto, la Perrier avrebbe cercato invano di «calmare le acque».Certo, nel Novecento, letteratura e acqua minerale hanno avuto rapporti assai stretti. Basti pensare al ricchissimo Valery Larbaud, poeta e proprietario di vasti impianti termali. L'esempio più bizzarro, tuttavia, è quello di Raymond Roussel, che scelse questo tema per un suo mirabile delirio: «Sulla tovaglia è messa una bottiglia alta, / un'acqua minerale di moda; la si esalta / se ne consiglia l'uso abbondante e continuo / in una larga carta di un rosa carezzevole». La descrizione dell'etichetta occupa tutti i restanti mille versi.È l'apoteosi del seltz. Eppure, benché partito dalla pubblicità, Valéry elaborò un'ipotesi affascinante: «Quante cose conosce l'acqua! La sua sostanza si fa memoria. Assimilando ciò che ha sfiorato, bagnato, trascinato, assorbe le potenze primitive delle rocce, e porta con sé briciole di atomi, tracce d'energia pura». Sembra di ascoltare le strofe in cui Philippe Soupault esorta il poeta a tramutarsi in acqua. Ma sembra anche di risentire le polemiche che tempo fa accompagnarono la presunta scoperta di Jacques Benvenist e: lo scienziato sostenne che l'acqua era in grado di conservare una perenne memoria delle sostanze toccate...Memoria chimica, memoria storica. Dalle cosmogonie orientali all'universo pagano e cristiano, l'immagine dell'acqua ritorna in molti miti di purificazione. Ecco il loutron, il lavacro delle liturgie greche, etrusche e neo-pitagoriche. Ecco il bagno battesimale, in tutte le varianti indicate da Tertulliano: il Diluvio, il Mar Rosso, l'immersione nel Giordano, le nozze di Cana, la vicenda della Samaritana, il bicchiere d'acqua dato al prossimo, il pozzo di Giacobbe, l'incedere di Cristo sulle onde, la lavanda dei piedi, l'abluzione di Pilato, l'acqua che sgorga dal costato nella crocefissione.A accrescere la forza simbolica di quest'elemento, tra teologia e metereologia, è la sua capacità di metamorfosi. Goccia, vapore, nuvola, ghiaccio, neve, cristallo - tutto ciò corrisponde all'iconografia tradizionale; ma qualcosa è cambiato. Infatti, a differenza di Narciso, la società industriale infrange lo specchio in cui si riflette. Pioggie acide a parte, emblematico è il caso dell'Eufrate e ora del Giordano, un fiume dirottato, scalzato dal suo letto, sfilato via dalla propria terra come un filo di lana dalla maglia.Dalla Mesopotamia all'Antartide, dalla culla della cultura al nulla della natura. In un viaggio al Polo Sud (simile a quello che Poe narrò in Gordon Pym e Verne nella Sfinge dei ghiacci), Reinhold Messner ha trovato un piccolo gioiello linguistico. Dopo i fasti del termine "tracimazione" (nato dalla tragedia in Valtellina del 1988), l'acqua offre ora al dizionario italiano una nuova parola, "sastrugi". Sono flutti di ghiaccio alti due metri, onde gelate dalle forme più strane. Insomma, rappresentano l'aspetto meno noto di quello stesso composto su cui, stando alla Genesi, "aleggiava lo spirito di Dio": una specie di merce primordiale, lasciata in magazzino in attesa d'essere imbottigliata.L'etimo greco della parola «clessidra», ovvero «furto d'acqua», sta a indicare il bisogno di sottrarre il liquido per scopi pratici quali quelli legati alla misurazione del tempo. Quanto al termine "rabdomante", assai meno poetico, esso rinvia semplicemente a un indovino che si serve di una bacchetta: l'applicazione alla ricerca delle fonti o delle vene acquifere, dunque, non è che una impropria estensione. In un caso come nell'altro, ad ogni modo, colpisce il fatto che la sostanza usata o investigata abbia a che fare con un uso domestico, quotidiano, civile. L'acqua, però, può rappresentare qualcosa di molto diverso, come ben sa chi ha traversato il mare…Nella notte del 7 dicembre 1875 la nave tedesca "Deutschland" si incagliò su un banco di sabbia alla foce del Tamigi, presso le coste del Kent. Per un giorno e una notte non venne fatto nessun tentativo di soccorso. Molti tra i passeggeri annegarono e alcuni, come scrisse il "Times", giunsero a suicidarsi: un uomo si impiccò e un altro si tagliò le vene con un coltello. Il particolare che colpì più profondamente l'opinione pubblica fu però la morte di cinque suore francescane, partite da Brema per emigrare in America dopo che le Leggi Falk avevano decretato il loro esilio dalla Germania. La tragedia acquistava così il significato di una allegoria religiosa e politica. Disastri analoghi avevano già scosso l'opinione pubblica europea, ispirando a Théodore Géricault e Caspar David Friedrich quadri come La zattera della Medusa (del 1819) e Il naufragio della "Speranza" tra i ghiacci (del 1822). Si tratta di opere che elaborano la stessa metafora indagata da Hans Blumemberg nel suo studio Naufragio con spettatore. Tuttavia, la sciagura del 1875 non fu ripresa da un pittore, bensì da un poeta, Gerard Manley Hopkins, che vi colse lo spunto per comporre Il naufragio del Deutschland. A questo testo, terminato nel 1876, si aggiunse poi, come un vero e proprio gemello tematico, La perdita dell'Euridice, dedicato all'omonima nave affondata il 24 marzo 1878. L'ossessione di Hopkins per simili eventi è stata collegata al mestiere del padre, che si occupava appunto di problemi finanziari conseguenti a naufragi. Ma al di là di ogni riferimento strettamente biografico, ciò che importa sottolineare è l'assoluta pregnanza espressiva che tale immagine acquista nei suoi versi. Fu grazie a essa, infatti, che il poeta tornò a scrivere, interrompendo un silenzio durato sette anni. Per questo, quando nel 1918 fu pubblicata per la prima volta la sua opera postuma, Robert Bridges osservò che Il naufragio del Deutschland stava logicamente e cronologicamente sulla soglia del libro per proteggerne l'ingresso come un grande drago.Quello che Emilio Cecchi definì il prosodista e vocabolista più dotto, ingegnoso e cavilloso di tutta la letteratura contemporanea, e che Eugenio Montale indicò come suo segreto maestro di ritmi, fu un sacerdote schivo, predicatore, insegnante di lingue classiche, musicista e disegnatore dilettante. Cattolico e gesuita nell'Inghilterra vittoriana, Hopkins fondò la sua poesia su un dissidio insanabile, un rovello metafisico e insieme civile: il naufragio spirituale e storico della sua patria, ignara della vera fede. Alla separazione dalla famiglia e dalla chiesa anglicana corrispose però l'entusiasmo per un Dio contraddittorio, onnipotente, imperscrutabile, invocato e implorato in una lingua matematica e mistica. In effetti, la sua lirica è caratterizzata da uno straordinario intreccio di precisione e violenza. La sua preghiera si risolve cioè in un dettato irto, complicato, che infrange la sintassi e il lessico con un accanimento pari all'infinita sapienza tecnica. Morto nel 1899 all'età di quarantacinque anni, Hopkins non solo inaugura ma brucia per intero ogni sperimentalismo, portando all'estremo la natura monosillabica, frantumata e calamitante dell'inglese. Il contrappunto, il ritmo martellato, il ricorso ad arcaismi e neologismi, l'uso dell'allitterazione e dell'assonanza, i richiami alla tradizione anglosassone o gallese da un lato, e alle circonvoluzioni speculative di Duns Scoto dall'altro, sono l'essenza di una poesia in cui regna l'accento, o meglio, in cui il pensiero si fa accento. L'urto, il tormento dello scrittore inglese passano sempre attraverso la cruna d'ago della metrica, del numero, come succede anche con i versi chiamati a descrivere l'esperienza archetipica del naufragio.
«Avvenire » del 27 maggio 2006

Leggi razziali, l'Italia ha pagato?

Per i governi postbellici ci furono vittime e di serie A e di serie B: gli ebrei e i partigiani colpiti negli anni di Salò ebbero riabilitazioni e indennizzi maggiori
Di Marco Roncalli
Quello della reintegrazione dei perseguitati razziali e politici nel secondo dopoguerra è un tema cruciale e complesso, ma poco dibattuto dalla storiografia italiana. A differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi europei, che hanno allargato le problematiche connesse anche ad altre esperienze di totalitarismi, e preso in considerazione implicazioni morali legate ai concetti di colpa e perdono (argomenti che gli storici tedeschi uniscono sotto il termine «Wiedergutmachung»). Se si escludono i primi studi di Mario Toscano concentrati sulle leggi speciali attinenti alla restituzione dei beni, mancava sino ad oggi un lavoro esauriente e organico che abbracciasse matrici e dinamiche dei governi postbellici in quest'ambito, fra sostanziali questioni di princìpi e più formali soluzioni giuridiche, tra risvolti politici e burocratici, fra provvedimenti adottati e conseguenze pratiche. E mancava, soprattutto, in un quadro comprendente la restituzione non solo dei beni mobili e immobili perduti, ma anche dei posto di lavoro, delle carriere, di posizioni precedenti.Ora colma questa lacuna una densa monografia della contemporaneista Giovanna D'Amico, Quando l'eccezione diventa norma. Da tempo impegnata in ricerche sulla storia della deportazione, l'autrice ci presenta l'esito di un'approfondita analisi dove - in dieci capitoli - passa al vaglio le modalità attraverso le quali il Paese ha fatto i conti con l'eredità di Mussolini, facendo emergere l'insufficienza delle culture e dei processi decisionali del ceto politico italiano, intento a costruire la democrazia, a misurarsi in piena consapevolezza con l'intera questione.Sintetizzando emergono numerosi casi a provare un duplice atteggiamento tradotto in doppio binario normativo con provvedimenti discriminatori (ad esempio nella riassunzione nelle imprese private, nella concessione di assegni di benemerenza, nelle conseguenze di spoliazioni di beni) fra perseguitati razziali e politici del r egime monarchico-fascista da una parte, e deportati politici e razziali nei campi di concentramento nazisti durante la Repubblica sociale di Salò, dall'altra. Ne scaturisce, perciò, una doppia e parallela classificazione delle vittime, che vede concedere ai primi una legislazione riparatoria meno incisiva di quella riservata ai secondi.Nel libro trovano poi spazio trattazioni particolari concentrate su casi, profili, meccanismi finalizzati a riparare diritti violati attraverso agevolazioni, compensazioni, indennizzi, risarcimenti, in tanti modi concepiti e configurati, approvati e recepiti. E troviamo differenti tipologie delle vittime e dei loro eredi, le figure dei reduci e quelle dei partigiani assimilati - dopo tensioni fra moderati e progressisti - agli invalidi di guerra: dunque aventi diritto a pensioni. Decisamente interessanti le analisi dedicate alla legge Terracini, anche nei suoi limiti, oppure alle scelte del legislatore italiano circa il valore giuridico di contratti stipulati sotto la pressione delle leggi razziali, o, ancora, circa il rispetto della buona fede degli acquirenti davanti a richieste di restituzione di beni.Ma si ricordano anche tappe ed situazioni significative. Quando si richiama ad esempio l'operato del capo del governo Ivanoe Bonomi, impostosi al ministro del Tesoro Marcello Soleri per ottenere la messa a carico dello Stato (e non dei diretti interessati) dei contributi previdenziali mancanti nel periodo intercorso tra il licenziamento e la riassunzione di quanti hanno perso il lavoro per motivi razziali. Oppure quando si rammentano casi diffusi di società oggetto di rivendicazioni tra ex proprietari ebrei costretti a cederle e nuovi proprietari acquirenti a diverso titolo anche quando ad acquistare erano state magari le maestranze (si veda qui la vicenda della Tecoel, sorta dall'«arianizzazione» di tre imprese commerciali di un ebreo romano acquistate dalle stesse maestranze). E poi ci sono le sorti dei beni confiscati e seques trati agli ebrei dall'Ente di gestione e liquidazione immobiliare, istituito nel 1939. Non ultimi ecco i drammi dei perseguitati razziali destinati ai campi di concentramento, dopo l'ordine di Buffarini Guidi del 30 novembre 1943, senza alcuna possibilità di tutela per i loro beni in quanto agli ebrei fu vietato di possedere qualsiasi cosa.Ma, al di là di tutto, c'è infine un ulteriore aspetto da non dimenticare. Che va oltre il ripristino integrale di situazioni antecedenti o il recupero di posizioni perdute. C'è l'altro interrogativo, più forte, che continua a scuoterci. Concretamente, come restituire l'altro danno, quello morale, fatto di opportunità perdute, di anni di scuola sacrificati, di normalità rubate, come ripagare l'offesa più invisibile dentro la dignità umana? «Per fare questo - risponde - si sarebbe dovuto travalicare l'ordinamento giuridico italiano, andare non solo oltre Salò, ma anche oltre il regime monarchico-fascista; inventare insomma, una normativa specificatamente pensata per le vittime di crimini inusitati». In poche parole, far tabula rasa del passato. Cosa che non avvenne. «Sarebbe potuto accadere? Non è facile dirlo», ammette l'autrice. Giustificando con queste sue ultime considerazioni il titolo del libro. Conclude infatti: «Il limite forse della riparazione stava nella riduzione dell'"eccezionalità" delle persecuzioni a procedure pensate per tempi normali». Quei tempi che, a detta di Theodor Adorno nei Minima Moralia, avrebbero perso in ogni caso la loro normalità con i suoi caratteri di condizione ripetibile. Dopo di allora e per sempre.
IL LIBRO: Giovanna D'Amico, Quando l'eccezione diventa la norma, Bollati Boringhieri, pp. 390, € 39,00
«Avvenire » del 27 maggio 2006

In una busta due inediti di Quasimodo

di Silvio Ramat
Prezioso recupero, questo di due frammenti, che ci riportano all’altezza del Quasimodo più appassionato e scoperto, più calato nel vivo, mesto e luttuoso, della storia e della cronaca. A «ritrovarli» (il verbo non è del tutto appropriato) è Gilberto Finzi, curatore del Meridiano che nel 1971 riuniva l’intera opera poetica del nostro penultimo Nobel. È successo che, tra le carte quasimodiane affidategli da tempo, Finzi si sia accorto di una busta - capitatagli già in mano chissà quante altre volte - su cui il poeta aveva tracciato a matita alcuni versi.Li ha pubblicati adesso La Provincia, quotidiano comasco, e a Como ne ha parlato giovedì scorso Vincenzo Guarracino. Da questi abbozzi si dirameranno e prenderanno corpo due liriche distinte: oltre a Milano, agosto 1943 (stabilmente e con merito accolta nella maggior parte delle antologie novecentesche), Lettera, inserita nella raccolta edita nel 1947 come Giorno dopo giorno ma anticipata l’anno avanti come Con il piede straniero sopra il cuore. Testo quanto mai celebre, dove il «lamento» e «l’urlo» (l’«urlo nero» della madre) potrebbero derivare dal secondo frammento oggi rivelato, che offre tale e quale «il lamento» ma anche «il grido» (e allora il secondo abbozzo sarebbe alla radice non di due ma addirittura di tre liriche di Giorno dopo giorno...).La fama arrisa all’immagine dell’«usignolo» avvezzo a cantare dall’alto di un’antenna e precipitato poi a terra dal bombardamento, è già quasi completa nel primo dei due abbozzi: le manca solo quella sorta di precisazione-consacrazione conferita nella stesura definitiva dal «convento», laddove il secondo abbozzo, ha una «casa lontana», come ad alleggerire sulla scena il peso di quel soggetto canterino. Più significativo, nel passaggio da una redazione all’altra, il mutamento da descrizione a esortazione: se prima «nei cortili» c’è chi scava i pozzi per fronteggiare quella che oggi si chiamerebbe emergenza idrica, la stesura definitiva enfaticamente dissuade da una fatica simile, affermatosi un regime di rassegnazione assoluta che il verso finale suggella asserendo che a morire non sono stati alcuni o molti cittadini ma l’intera città (il titolo provvisorio la siglava: Mi).Più ampio e coinvolgente, direi, l’accennato legame di filiazione dal secondo abbozzo (titolo cancellato: Ricordi) anche di Lettera, molto meno celebre della lirica milanese di cui sopra. Il suo avvio («Questo silenzio fermo nelle strade,/questo vento indolente che ora scivola...») è il medesimo registrato nell’abbozzo, dove fra l’altro una «foglia» poi cassata potrebbe preludere alle «foglie morte» di Lettera, che ha invece «muri morti»... Insomma, Quasimodo attingerà ad un’unica pagina, ad un unico serbatoio, per svolgere al momento opportuno due (o almeno due) temi e composizioni ben distinguibili fra loro, anche nei toni. E semmai può colpire che il motivo dell’usignolo caduto, ammutolito, spodestato si ponesse, in prima invenzione, fra i «ricordi», mentre più tardi avrà la forza di un evento attuale, poco meno di un instant-poem.Che altro? L’augurio, che altre buste vengano a tiro di Finzi, altri dati del laboratorio di un poeta che, in quella stagione, cercò di dar voce a un dolore corale e talvolta riuscì nel suo ambizioso intento.
« Il giornale » del 27 maggio 2006

Il giornalismo percepito

di Filippo Facci
I prezzi salgono perché i giornali scrivono che i prezzi salgono: teoria assurda ma avvalorata. Associazioni di consumatori e istituti vari, negli scorsi anni, hanno fornito raffiche di valutazioni discrezionali che attraverso la risonanza dei media hanno fomentato crescenti allarmismi sull’inflazione, con ciò contribuendo ad alimentarla. Traduzione: se in un dato momento si parla di inflazione al 30 per cento, è poi difficile che un commerciante non riveda i prezzi di conseguenza o che non si riservi di rincararli in futuro. In altre parole, l’effetto annuncio talvolta è bastato. Chi lo dice? Due studi seri. Uno è degli economisti Andrea Brandolini e Tito Boeri: hanno sostenuto che l’eccezionale copertura mediatica della questione prezzi possa aver contribuito al divario tra inflazione percepita e rilevata: ciò dopo aver notato come i giornali abbiano dato credito a stime alternative a quelle ufficiali, ma senza verificarne il rigore. Poi c’è uno studio curato da Paolo Del Giovane e Roberto Sabbatini per la Banca d’Italia: i due hanno esaminato migliaia di articoli caratterizzati da forte sensazionalismo e da critiche rivolte alle fonti ufficiali, tipo l’Istat. Identici gli esiti: i giornali hanno enfatizzato oltremodo il contrasto tra le false percezioni e le statistiche ufficiali, ciò a dispetto dell’inflazione misurata e quindi vera. I commercianti si sono regolati. Noi abbiamo sborsato.
« Il Giornale » del 27 maggio 2007

25 maggio 2006

Giovani scrittori e vite precarie

Da alcuni recenti romanzi emerge una fenomenologia del disagio giovanile, dovuto non solo alla difficoltà nel trovare un lavoro stabile. Desiati: «Si vive in una zona grigia e indefinibile». Bajani: «Dominati da incertezza e paura»
di Fulvio Panzeri
«Propositi, Progetti, Programmi. Tutte "P" che hanno a che fare con la quotidianità del Precario che, paradossalmente, come concetto lavorativo, è ormai entrato molto più in sintonia con i suoi grammaticali contrari: «fermo, bloccato, fissato, immobile», che con i suoi sinonimi: «momentaneo», «temporaneo», «passeggero». Una sorta di «inamovibile condizione di precariato» quindi, che è un ossimoro scoraggiante, come altre delle parole equivalenti: «problematico», «effimero», «caduco». Sono queste alcune considerazioni tratte dalle "storie di precari", raccolte in Tu quando scadi? edito da Manni, tante testimonianze raccontate direttamente dagli interessati sulla difficoltà di trovare un lavoro che soddisfi, che possa dare una garanzia, che rappresenti una speranza di vita. Una ragazza, Chiara, invece sottolinea : «Ma tu continui a dare e a sperare… l'unica cosa che proprio non riesci a fare è progettare. La situazione è talmente generalizzata che sembra quasi normale dover vivere solo il presente».A parlare sono in molti, in questi mesi, soprattutto attraverso i libri, aiutati da scrittori che ne hanno raccolto le ordinarie cronache di disagio quotidiano. Aldo Nove ha scattato quattordici istantanee da una nazione di precari in Mi chiamo Roberta, ho quarant'anni, guadagno 250 euro al mese… (Einaudi), mentre Andrea Bajani, trent'anni, sempre da Einaudi, ha composto un trattatello, una «guida di viaggio per lavoratori flessibili» in Mi spezzo ma non m'impiego. Ne emerge, verificata sul campo, una sorta di "fenomenologia" del precariato, identificato attraverso le tipologie (stage e impieghi last minute, precariato di coppia e agenzie di lavoro temporaneo) e i settori, dalla scuola ai call center, dalle società di comunicazione al service editoriale, dalla grande distribuzione alle imprese di pulizie. Tutto nasce da un romanzo dello stesso Bajani, Cordiali saluti, in cui un numero imprecisato di persone vengono lice nziate in un momento particolare della vita dell'azienda. Durante le presentazioni l'autore però si accorge che i lettori lo riconoscono soprattutto come un romanzo sul precariato. Dice Bajani: «All'inizio mi chiedevo il perché di questo che mi sembrava un fraintendimento. Poi, a poco a poco ho cominciato a capire: quel clima di incertezza e paura che nell'azienda di Cordiali saluti si respirava nel periodo di "riorganizzazione" è lo stesso clima che un numero sempre maggiore di persone vive ogni giorno, ed è lo stesso clima di incertezza e precarietà nel quale vivevo, e vivo quotidianamente io stesso. Tautologicamente, il precariato è esattamente questo. La flessibilità è solo l'abito della festa di questa condizione diffusa di incertezza».
Precarietà quindi in senso più largo rispetto a quella lavorativa: ne è assolutamente convinto anche Mario Desiati, giovane scrittore di grande talento, 29 anni, che al tema ha dedicato un romanzo dal titolo esplicito, Vita precaria e amore eterno (Mondadori), inventandosi un protagonista, Martino Bux, nato e vissuto per un certo tempo in Sicilia, in un paese vicino alla base Nato di Sigonella e poi approdato con i genitori a Roma, in fuga dallo strapotere mafioso e in cerca di stabilità esistenziale. Non la troverà e anzi finirà per diventare un simbolo dell'inettitudine, raccontata da Desiati, tra grottesco e cartoon, tra realismo e postmoderno, interagendo vari piani temporali. Dice Desiati: «Ho fatto la cosa che è più facile per uno che scrive. Partire da una cosa che si sente propria. Ho usato il punto di vista di un indifeso, di un vinto, di un prossimo al fallimento. Credo che uno scrittore sia sempre sul punto di un inesorabile fallimento. Tutto sta nel saperlo elaborare oppure rimuovere questa sensazione».
E la precarietà non è solo una problematica lavorativa, ma assume un'accezione più ampia, fino a connotare i vari piani della sfera esistenziale di un'intera generazione, i trentenni di oggi. «La precarietà oggi, per noi, è anche quella di prendere un mezzo pubblico con la paura di un attentato terroristico. Penso al protagonista del mio romanzo quando vede un pakistano sull'autobus e subito gli balena in testa l'idea che questo possa far saltare in aria tutti. C'è questa paura più sottile che aumenta il senso di instabilità generale. E noi lo sentiamo in maniera forte». E' un'instabilità che si traduce anche a livello di scelte politiche: «Il ragazzo-tipo, protagonista del romanzo, fa parte di una grande zona grigia, indefinibile. E' uno che potrebbe votare sia Rifondazione Comunista, sia Alternativa Sociale. Per lui non c'è differenza. Del resto non ci sono più ideali politici, perché è meno forte il peso di certi gruppi di aggregazione giovanile. E' venuta meno l'esigenza di incontrarsi intorno ad un'idea, di stare insieme, che ha portato ad un raffreddamento dei rapporti umani. Dovuto anche a certe tecnologie che hanno portato a virtualizzare le relazioni tra di noi. E' la precarietà esistenziale, quella dei rapporti umani sempre più deboli che, nell'instabilità che ci circonda, rischia di farci vivere alla giornata, rendendo problematiche anche le relazioni con il mondo esterno, perché tutto si sta inaridendo». Un'incertezza che si estende anche sul piano familiare. Così la spiega Desiati: «Noi viviamo un paradosso: la famiglia d'origine, quella dei genitori, è diventata un ammortizzatore sociale, fa da cuscino e sta evitando quello che è successo in Francia, mentre la precarietà a più livelli rende più difficile la costituzione delle nuove famiglie. Oltre allo sfibramento dei sentimenti, diventa difficile pensare di crescere un bambino se non si hanno certezze sociali, come la possibilità di avere congedi parentali, solo per fare un esempio».C'è però un modo per uscire dalla precarietà e Desiati lo intuisce nella possibilità «di ridare valore ai propri sogni, di crederci, di trovare ancora la giusta passione per un progetto di vita».
« Avvenire » del 25 maggio 2006

24 maggio 2006

Finanziamenti, crediti, laurea breve: perché i nostri Atenei sono al collasso

di Pietro Citati
Negli ultimi sessanta anni, in Italia, sono accadute molte catastrofi: alluvioni, terremoti, inondazioni. Ma la catastrofe di gran lunga più grave è stata la cosiddetta Riforma Berlinguer, immaginata otto anni fa dal governo presieduto da Romano Prodi. Gli italiani, che hanno la memoria brevissima, se ne sono dimenticati: ma gli studenti, i professori, il paese ne subiscono il terribile effetto, che andrà moltiplicandosi nei prossimi anni. Mi riferisco alle facoltà di tipo umanistico: non a quelle a carattere sopratutto tecnico. La Riforma Berlinguer ha distrutto e sta continuando a distruggere la probabilità che in Italia si formi quella che chiamiamo un'élite moderna. Non voglio ripetere cose notissime: ma senza un'élite colta e intelligente un paese non vive, non si sviluppa, non si arricchisce. Senza un'élite, un paese è votato alla rovina: specialmente nei nostri anni, quando l'attività industriale si è in buona parte trasferita in Cina o in India, dove si sta diffondendo una cultura specializzata già superiore, per certi versi, a quella italiana. Ma all'onorevole Berlinguer, circondato dal suo radiosissimo alone di gloria, non importa nulla della nostra classe dirigente.
La catastrofe si preparava da anni. Ricordo un mediocre studioso di diritto romano lamentarsi dolorosamente, in qualche raduno televisivo, della mortalità universitaria. Non riuscivo a capire. Pensai che la Peste, o il Colera, o il Tifo, o l'Aids, o Ebola, avessero spopolato i folti banchi della Sapienza. Lo specialista di diritto romano rassicurò il pubblico: no, Ebola non era arrivato fin qui. Il danno era molto più grave. Gli studenti universitari non terminavano le facoltà che avevano iniziato: innumerevoli fuori-corso languivano nei tristi corridoi delle università italiane. Il professore sbagliava. Che soltanto il venti o il trenta per cento degli studenti di lettere giungessero alla laurea era un fatto positivo. Se si fossero laureati tutti, l'Italia avrebbe conosciuto una disastrosa disoccupazione scolastica. Così, invece, decine di migliaia di giovani ritornavano a Barletta o a Fabriano o a Alba o a Sanremo: vi aprivano un negozio di verdure o di formaggi o di tartufi o una piantagione di garofani, e trascorrevano volentieri il resto della vita, con nella memoria un vago ricordo di Omero, di Saffo e di Erodoto. Mi chiedo se, alcuni anni dopo l'applicazione della Riforma Berlinguer, si possa fare qualcosa per diminuirne le conseguenze negative. Il primo fatto, generalmente riconosciuto, è che il corso minor di tre anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi nulla: non può insegnare nelle medie e nei licei; non gli resta (se ha imparato una lingua) che fare la guida turistica o lavorare in un'agenzia di viaggi, eventualmente aggiungendo ai tre anni universitari un master privato inutile e costoso.
Intanto, il complicato meccanismo di crediti e moduli, che regge l'insegnamento secondo il modello americano, ha dimostrato la propria inefficienza. Gli esami si sono triplicati: il lavoro dello studente è aumentato; salvo che egli impara pochissimo, perché non si può insegnare qualcosa di decoroso su Shakespeare o Petrarca nel corso di poche settimane. Non è possibile che La Sapienza di Roma stabilisca che, durante un modulo, uno studente non debba leggere più di 200 pagine (testi compresi), per evitare che le sue energie psico-cerebrali e quelle dei genitori e della fidanzata vengano irreparabilmente logorate ed esaurite. Il sistema dei moduli va limitato o reimmesso nel vecchio equilibrio degli esami annuali, che era molto più efficace. Forse andrebbe ricordato che l'uggioso edificio universitario, con le grandi aule squallide, i melanconici corridoi, le scale sbrecciate, ha un solo aspetto positivo: che vi si studi. Dopo i tre anni di insegnamento minore, gli studenti dovrebbero affrontare i due anni di insegnamento specialistico: dico dovrebbero, perché coloro che li hanno abbracciati sono, per ora, pochi. Dopo i due anni di specialistica, può avvenire un concorso. Chi lo vince, diventa dottorando per tre anni, e riceve un piccolo stipendio. Ma dopo i tre due tre = otto anni di studio, la sua carriera è bloccata. Il dottorando è costretto a diventare, attraverso vari gradini, professore universitario. Ma se, all'Università, non ci sono posti liberi? O se egli preferisce insegnare nei licei? Questo gli è severamente proibito: i dottorandi, vale a dire i più colti e intelligenti tra gli studenti italiani, non devono insegnare nei licei, che pure avrebbero bisogno di loro. C'è soltanto una possibilità. Seguire altri due anni di corsi di didattica: cosa assolutamente idiota, perché per imparare a insegnare basta un corso di due mesi, congiunto con la disposizione naturale per l'insegnamento, senza la quale nessuno diventerà mai professore. Non voglio nascondere che questo è un discorso puramente fantastico, perché per il dottorando non esistono, oggi, né posti nell'università né nei licei. Egli non troverà lavoro. Non farà niente. A meno che una vasta moria (la quale pare prevista dal nostro profetico Ministero) renda libere migliaia di cattedre. Mi piacerebbe raccontare quali nuove cattedre l'onorevole Berlinguer e i successori e i funzionari ministeriali e i rettori di università e i presidi di facoltà e i direttori di dipartimento hanno inventato. Sappiamo che nelle università americane c'è la cattedra di gelato artigianale, di cappellini per signore, di jeans per ragazzi e ragazze, di sandali per i tropici, di computer applicati all'analisi letteraria, di retto uso dei pannolini, di bella conversazione e di corteggiamento erotico. Va benissimo. Quella non è università. Ma non sarebbe inutile ridurre radicalmente il numero delle cattedre insensate, che oggi vengono aperte nelle università italiane. Una recente circolare del Ministro Moratti prescrive che i professori universitari devono fare almeno centoventi ore annue di lezioni frontali. C'è di nuovo, almeno per me, la difficoltà di capire. Cos'è una lezione frontale? Secondo i dizionari, frontale vuol dire: relativo alla fronte come parte anatomica: con la fronte rivolta verso chi osserva: visto di fronte: che avviene nella parte anteriore di uno schieramento militare: sezione realizzata secondo piani perpendicolari all'asse dorso-ventrale: facciata di una chiesa: mensola di un caminetto: piastra di ferro che chiude il fondo di un camino: parte della briglia che passa sulla fronte di un cavallo: antico ornamento femminile (cerchietto o nastro o filo di perle): parte dell'elmo; parte di metallo o di cuoio che copre la fronte del cavallo. Infine, quasi spossato dalla fatica ermeneutica, trovai nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia) la spiegazione giusta: frontale è un metodo di insegnamento, nel quale il professore siede in cattedra, di fronte ai suoi allievi. Non amo molto l'insegnamento frontale: può essere agevolmente sostituito dalla lettura di un buon libro. La vera lezione, sebbene rivolta a non più di trenta studenti, è il cosiddetto seminario: soltanto nel seminario, compiuto in comune, il professore insegna agli studenti a leggere un testo, cercando insieme a loro le fonti e le allusioni e interpretandone le superfici e i segreti. Ma centoventi ore annuali di insegnamento frontale sono troppe: un vero professore deve leggere e studiare per conto proprio; ciò che esige infinito tempo e pazienza. Un ministro o un funzionario ministeriale o un preside pensano che questo sia inutile. È bene, invece, che un professore passi mattine e pomeriggi espletando del lavoro burocratico completamente assurdo, che il Ministero (visionario come tutti i Ministeri) gli impone. Un'altra origine di insensatezza è la distribuzione dei finanziamenti, da parte del Ministero, alle diverse università. I criteri sono molti, e non posso elencarli tutti. Basterà ricordare che la qualità della ricerca è un criterio molto meno importante di criteri esterni, come per esempio il possesso di computer. L'Università Orientale di Napoli è il luogo che, in Italia, dedica più attenzione allo studio delle civiltà orientali. Quale importanza (anche pratica) abbia, oggi, lo studio delle lingue e culture araba e cinese, non è necessario ricordare. Ma l'Università Orientale ha anche una sezione "occidentale": un professore di questa sezione ha da poco espresso la seguente opinione: l'Università deve essere più ancorata ai bisogni del territorio; vale a dire, suppongo, che l'Orientale, invece di studiare il buddismo o il manicheismo, dovrebbe dedicarsi allo studio psico- sociologico della camorra a Caserta e Castellamare di Stabia. Come è naturale, gli studenti che imparano la lingua e la letteratura persiana o turca sono meno numerosi di coloro che apprendono la letteratura italiana o inglese. Ma il Ministero provvede. Per il Ministero, non ha alcuna importanza che l'Università Orientale possegga una biblioteca di 200.000 volumi antichi, continuamente aggiornati, e che eccellenti studiosi vengano da Parigi o Tübingen a parlare ai giovani orientalisti. Ciò che è grave è che gli studenti siano relativamente pochi rispetto ai professori. L'Orientale va dunque punita per eccesso di serietà. Infatti, l'anno scorso, il Ministero dell'Istruzione ha tolto quattro milioni di euro al finanziamento dell'Orientale: una catastrofe. Così l'imprecisione, l'inesattezza, la cialtroneria, la demagogia - questo è per molti italiani la cultura moderna - si diffondono. Non saranno né imprecisi né inesatti i cinesi e gli indiani che, un giorno, verranno a colonizzare la cultura universitaria italiana.
« La Repubblica » del 23 maggio 2006

Corsivo, lo evita la metà dei giovani: «Mette a nudo paure e angosce»

di Daniele Semeraro
Un'alta percentuale di ragazzi tra i 14 e i 19 anni (circa il 40-45%) non sa scrivere in corsivo. La scoperta è emersa da una ricerca durata oltre 10 anni svolta da Giuliana Ammannati, pedagogista clinico che opera nelle zone di Pesaro e Urbino e che fa parte dell'Associazione Nazionale dei Pedagogisti Clinici guidata dal prof. Guido Pesci. Ammannati, che è anche docente di filosofia, psicologia, sociologia, pedagogia e metodologia della ricerca al liceo "Mamiani" di Pesaro, ha iniziato a studiare numerosi anni fa questo fenomeno, che riscontrava sempre più spesso nella correzione dei compiti dei propri alunni. "Ho tentato più volte - spiega - di aiutare i ragazzi a uscire dal loro stampatello minuscolo, e ho sempre incontrato grandissime resistenze. La cosa incredibile è che i giovani mi hanno fornito moltissime motivazioni: la principale è che non riescono, dopo aver scritto in corsivo, a rileggere quello che hanno scritto. E allora, per evitare confusione, scrivono in stampatello. Altri, poi, non sanno trasferire lo stampatello in corsivo o non riescono a legare bene le consonanti".
In realtà, spiega la professoressa, non si tratta di una questione prettamente stilistica, né di una crescente omologazione al modo di scrivere di alcuni giornali né, ancora, un'imitazione del tipo di scrittura degli sms. C'è, invece, una motivazione profonda: "L'espressività di questi giovani è parziale, la loro personalità in formazione è troncata e il rischio dell'omologazione è grande. Dovremmo cercare di mettere i ragazzi nella condizione di accogliere se stessi e gli altri, aiutandoli a non avere paura di rappresentarsi nel proprio spazio: devono poter esprimersi liberamente senza temere la propria diversità e le diversità degli altri". Il problema, infatti, è proprio che, per evitare di essere giudicati e non avendo abbastanza sicurezza per mettersi in gioco, i ragazzi "si nascondono dietro lo stampatello". Il corsivo, insomma, essendo diverso da persona a persona, soprattutto quando deve essere letto da altri mette a nudo la propria personalità e le proprie insicurezze. E a chi dice, come Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta e direttore dell'Istituto di Ortofonologia di Roma, che è colpa della scuola e degli adulti se i ragazzi abbandonano la scrittura in corsivo, la Ammannati è tassativa: "Non parlerei di colpe della scuola. Ci dev'essere, in ogni caso, una maggiore attenzione da parte dei docenti: questi, ad esempio, ricevono spesso produzioni in stampatello minuscolo e non fanno niente. Bisognerebbe, invece, incitarli a parlare con gli studenti per aiutarli a superare le difficoltà. Spesso i ragazzi che hanno riconquistato il corsivo mi spiegano di stare molto meglio perché è scattata una molla interna". L'importante, conclude, è dare ai giovani un'attenzione sufficiente: "Cerchiamo sempre, e mi rivolgo soprattutto agli educatori, di capire il soggetto, le resistenze psicologiche, le potenzialità inespresse: è nell'originalità, nella creatività e nel gusto estetico che si cresce".
« La Repubblica » del 24 maggio 2006

23 maggio 2006

Gesù Cristo fu marito e padre? In Gran Bretagna il 66% ci crede

Riporto quest'articolo perché mi sembra indicativo di quanti 'gonzi' ci siano in giro (non voglio che fra questi figurino anche i miei ragazzi) e di quanto è necessario documentarsi (FT)
Infuria la polemica sul 'Codice da Vinci'. Pur non essendo un saggio storico il Codice ha avuto un impatto profondo sui suoi lettori britannici: secondo un sondaggio svolto dalla società Opinion Research Business, due terzi di coloro che hanno letto il romanzo di Dan Brown credono ora che Gesù ebbe un figlio con Maria Maddalena. Sono cinque le domande poste dall'ORB lo scorso fine settimana ad un campione rappresentativo a livello nazionale di oltre 1.000 adulti. Secondo l'inchiesta, il 17% pensa poi che l'Opus Dei sia una 'setta assassina - secondo quanto scrive il Daily Telegraph - che ha commissionato o compiuto omicidi'. Per il 36% dei lettori la Chiesa cattolica ha celato la verità su Gesù. Jack Valero, portavoce dell'Opus Dei in Gran Bretagna, ha detto che si tratta di una statistica "sorprendente". Tuttavia, gli altri che hanno letto il libro sono più propensi (36%) di quanti non l'hanno letto (25%) a credere che la Chiesa abbia intrapreso una cospirazione di 2.000 anni per coprire la verità. Allo stesso modo, mostra anche la vulnerabilità nei confronti della mistura tra fatti e finzione operata da Brown. I risultati sono stati accolti con costernazione dalla chiesa cattolica britannica, da sempre critica nei confronti del libro e ora del film presentato a Cannes. Austin Ivereigh, portavoce del capo della chiesa cattolica in Inghilterra, cardinale Cormac Murphy O'Connor, Brown si è macchiato di "marketing disonesto", perchè lui e la Sony, che distribuisce il film "hanno incoraggiato la gente a prenderlo sul serio, mentre si nascondono dietro la dichiarazione per la quale si tratta di un lavoro di fantasia. Questa ricerca mostra che dovrebbero prendersi la responsabilitàdella loro disonestà".
« Il Resto del Carlino » del 17 maggio 2006

22 maggio 2006

L'Università boccia la maturità: "Ammessi, ma con i nostri test"

di Massimiliano Papasso
Sarà anche la prova più importante della vita, quella più difficile, il primo vero ostacolo da superare ma alle università italiane l'esame di maturità continua proprio a non piacere. Lo dimostra il fatto che anche quest'anno moltissimi atenei italiani non terranno conto per selezionare le loro future matricole dell'esito dell'esame di stato. Meglio i risultati dei test d'ammissione (che in alcuni casi si sono già svolti) e, perché no, una media dei voti che lo studente ha raccolto durante il penultimo e terzultimo anno di scuola superiore, piuttosto che quel voto espresso in centesimi. Un numero però che nonostante tutto tra qualche settimana terrà comunque con il fiato sospeso più di quattrocentomila studenti italiani alle prese con la Maturità 2006. La lista degli atenei che "snobbano" la maturità si arricchisce ogni anno di qualche elemento e racchiude al suo interno sia grandi che piccoli atenei, università pubbliche che private. Dalla Luiss alla Bocconi, passando per Pavia e il Politecnico di Milano il coro è unanime: per capire se un maturando è pronto per iscriversi all'università, il voto dell'esame di stato non basta. Vuoi perché nonostante la riforma del 1999 che ha rivoluzionato l'esame introducendo nuove prove, la Maturità è rimasta comunque troppo "generica". Vuoi perché la composizione della commissione (formata da docenti interni e un solo membro esterno, il presidente) non sarebbe garanzia di un giudizio molto oggettivo. In poche parole i voti più alti, ma anche quelli più bassi, devono tutti essere presi con le molle quando si parla di università.
"Ormai da qualche anno nei nostri test teniamo esclusivamente conto della prova svolta - spiega il professor Mauro Santomauro, delegato del rettore per la didattica e l'orientamento al Politecnico di Milano -. In oltre 15 anni che effettuiamo test d'ingresso abbiamo notato che sebbene ci sia una forte correlazione tra l'esito del test d'accesso e la carriera universitaria delle matricole, questa è molto minore quando si tiene conto del voto di maturità. Ecco perché preferiamo valutare le potenziali capacità necessarie per un determinato corso di studi solo in base alle prove d'accesso". Ed è seguendo lo stesso principio che anche due atenei d'eccellenza come la Bocconi di Milano e la Luiss di Roma, da ormai qualche anno di maturità non ne vogliono nemmeno sentir parlare. Tanto da aprire e chiudere il periodo delle immatricolazioni molti mesi prima dell'inizio dell'esame. Se infatti alla Luiss la maturità non ha più valore dallo scorso anno accademico (dal 2003 contava solo per chi si iscriveva a settembre), anche alla Bocconi da qualche anno preferiscono puntare oltre che sui propri test d'ingresso anche sui voti che gli studenti hanno conseguito al terzo e quarto anno delle superiori. "Quella di non tenere conto del voto di maturità - spiega il professor Andrea Beltratti, prorettore dell'area under graduate dell'ateneo milanese - è un'esigenza soprattutto tecnica legata al fatto che le prime immatricolazioni si chiudono in primavera. In ogni caso crediamo che valutare le matricole su un test specifico che riguarda un singolo corso di laurea sia uno strumento più affidabile del voto di maturità". Stesse considerazioni all'Università di Pavia, dove il voto di maturità ha un valore solo per l'accesso ai quattro collegi dell'ateneo ma non per l'iscrizione ai corsi di laurea a numero chiuso: "Anche noi ci basiamo solo sui test d'ingresso per selezionare le matricole - confessa il professor Giampaolo Azzoni, presidente dei corsi di laurea in Comunicazione - in modo tale da superare eventuali disparità che ci possono essere nei giudizi della maturità. Non essendoci una commissione unica che giudica gli studenti, il voto finale dell'esame di stato può dipendere da molte variabili. Spetta a noi dunque azzerare queste differenze e assicurare ai ragazzi una equivalenza nel giudizio". E se in mezza Italia la maturità fa il pieno di bocciature, sono davvero pochi gli atenei in cui i suoi voti valgono ancora qualcosa. È il caso del Politecnico di Torino dove per i corsi di laurea in Ingegneria del Cinema ed Ingegneria dell'Automazione le matricole vengono selezionale oltre che con test attitudinale anche attraverso al voto all'esame di stato, che può "pesare" anche fino al 50% del giudizio finale. "Da nostre statistiche - dice Susanna Onnis dell'ufficio d'orientamento dell'università torinese - è evidente come chi ha ottenuto un buon voto alla maturità riesca anche a fare bene qui da noi. Certo il test preliminare rimane lo strumento più affidabile per capire le competenze dei ragazzi, e far comprendere a loro le proprie conoscenze: a anche qui da noi non sono mancati i casi di studenti che iscritti con ottimi voti al test d'ingresso hanno combinato un vero e proprio disastro".
« La Repubblica » del 22 maggio 2006