30 marzo 2011
Il romanzo non serve più alla democrazia
Recensori e recensiti
23 marzo 2011
L. Pirandello, Il treno ha fischiato (Baldi)
Il primo passo verso la spiegazione è la ricostruzione della personalità e della vita abituale di Belluca, operata da questo narratore. Emerge un ambiente piccolo borghese, angustiato da insopportabili miserie, frustrazioni, sofferenze. Ma è ovvio che nel rappresentarlo non vi è in Pirandello alcun intento naturalistico, di ricostruire un milieu sociologicamente definito, quello della piccola borghesia impiegatizia dell’Italia giolittiana. Come sempre avviene nel mondo delle novelle pirandelliane, la condizione sociale piccolo borghese diventa emblema di una condizione metafisica dell’uomo: Belluca rappresenta l’uomo imprigionato nella «trappola» della «forma», la quale assume le vesti contingenti della squallida condizione impiegatizia. La spontaneità della «vita» è in lui mortificata perché è prigioniero di un meccanismo ripetitivo, monotono, alienante, che presenta due facce: il suo lavoro di computista, che non gli concede mai un attimo di respiro e lo segrega totalmente dalla vita, e la sua famiglia opprimente, soffocante. Pirandello porta deliberatamente all’assurdo, attraverso un processo di esagerazione iperbolica, quella che potrebbe essere una rappresentazione naturalistica e patetica della miseria piccolo borghese: una moglie cieca susciterebbe commozione, ma tre cieche, più due figlie vedove con complessivi sette figli, non possono che suscitare il riso. Il motivo edificante e strappalacrime del pover’uomo che si sacrifica per dar da mangiare alla famiglia, caro a certa narrativa ottocentesca, viene condotto al parossismo, e diviene ridicolo. Scatta il «sentimento del contrario», la scomposizione umoristica della realtà.
La spiegazione del piccolo mistero, dell’improvvisa follia dell’uomo esemplare, è presentata dal punto di vista del protagonista stesso. L’inchiesta su cui si basa il racconto segue quindi un movimento dall’esterno all’interno del personaggio, che prima viene visto con gli occhi estranei dei colleghi, poi attraverso la prospettiva più familiare del narratore-testimone che lo conosce bene, infine si presenta da sé, rivelando le cause del fatto assurdo mediante un classico discorso indiretto libero («C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda...»). La causa che ha determinato la rottura del meccanismo alienante della «forma» sociale, costituito dal lavoro e dalla famiglia, è stata una sorta di «epifania» (così l’ha definita Renato Barilli), la rivelazione momentanea di un senso riposto della realtà fino a quel momento rimasto ignoto. E l’epifania scatta in conseguenza di un fatto banale, in sé insignificante, il fischio di un treno nel silenzio della notte. Ma basta questo a far assumere all’eroe coscienza della «vita» che scorre fuori della «trappola». La vita irrompe nella «prigione» con tutta la sua forza, che spazza via la meccanicità paralizzante del quotidiano. Se la «trappola» è emblematizzata dallo spazio ristretto, l’angusta camera in cui Belluca trascorre le sue notti a copiar carte (che è il corrispettivo dell’altrettanto angusta stanza del suo ufficio), la «vita» si presenta come amplissima prospettiva spaziale, Firenze, Bologna, Torino, Venezia, e poi la Siberia, il Congo. La rottura del meccanismo genera comportamenti folli, perché l’irrompere della «vita» non consente a tutta prima di sopportare il grigiore e l’angustia della «forma» quotidiana. Nella follia c’è una logica, come sempre in Pirandello, contrapposta all’apparente razionalità del meccanismo dell’esistenza comune: una logica che smonta quel meccanismo, ne fa apparire l’assurdo, l’inconsistenza, anche la fragilità, perché basta un nonnulla, un fatto banale, «naturalissimo», per incepparlo. La razionalità del meccanismo è solo apparente, l’irrazionalità del caso può in ogni istante farlo esplodere all’interno, determinando il crollo di ogni costruzione fittizia. Belluca è uno dei tanti eroi pirandelliani che «hanno capito il giuoco », che hanno preso coscienza della vera natura della realtà.
Però questa sua presa di coscienza non si traduce, come per altri eroi, in totale astensione dalla vita comune (vedi Mattia Pascal), o in rivolta totale, in rifiuto eversivo delle norme sociali (come per il Mostarda di Uno, nessuno e centomila). Belluca, dopo l’improvviso gesto di rivolta verso il capufficio, ritornerà entro i limiti del meccanismo, riprenderà la sua computisteria, la sua parte di padre di famiglia, docile e mansueto come sempre. Ma potrà sopportare la meccanicità della «forma» perché avrà una valvola di sfogo: la fantasia. Un attimo di evasione, di tanto in tanto, gli consentirà di sostenere il peso delle «forme» sociali che lo imprigionano, poi potrà tornare tranquillamente all’ordine. La sua presa di coscienza, lungi dall’indurlo ad atteggiamenti eversivi, ribadisce la chiusura nella «trappola». L’immaginazione è fuga momentanea, un’evasione che ha solo una funzione consolatoria («poteva in qualche modo consolarsi! »).
Il monologo di Zeno e il flusso di coscienza dell’Ulisse joyciano (Baldi)
Costeggiando grossi furgoni sulla Riva Sir John Rogerson, Mr Bloom camminò posatamente oltre Windmill lane, la ditta Leask, produttrice d’olio di semi, l’ufficio delle poste e telegrafi. Avrei potuto dare quell’indirizzo, anche. E oltre la casa di riposo dei marinai. Si staccò dai rumori mattutini del lungo fiume e imboccò Lime street. Presso le case popolari di Brady un garzone di conceria indugiava, con la secchia dei cascami al braccio, fumando una cicca masticata. Una bambinetta coi segni di un eczema sulla fronte lo occhieggiava reggendo incurante il suo malconcio cerchione di botte. Dirgli che se fuma non crescerà. Ma fumi pure! La sua vita non è poi un letto di rose! Aspettare fuori dalle osterie per riportare papà a casa. Torna a casa da mamma, papà. Ora morta; non ci sarà molta gente. Attraversò Townsend street, oltrepassò il volto accigliato della cappella di Bethel. El, sì: casa di: Aleph, Beth. E oltre Nichol l’impresario di pompe funebri. Alle undici, è. C’è tempo. Scommetto che Corny Kelleher s’è accaparrato quest’affare per O’Neill. Canta con gli occhi chiusi. Melenso. Ho incontrato giù nel parco una ragazza. Là nel rezzo. Che sollazzo. Pizzardone. Diede allora il suo nome e l’indirizzo con il mio trallallero trallalà. Certo se l’è accaparrato. Seppellirlo a buon mercato in un comesichiama. Con il mio trallallero trallallero trallallero trallalà (traduzione di Giulio de Angelis).
Nella Coscienza di Zeno invece il protagonista, attraverso il suo “monologo”, ricostruisce aspetti della sua esistenza passata, traccia ritratti di personaggi, racconta fatti, dà vita a scene, a sequenze narrative ordinate e consequenziali, introduce analisi psicologiche, commenti, come il narratore di un romanzo tradizionale. Tutto ciò lo fa per iscritto, redigendo una specie di memoriale. Non si ha quindi il semplice germinare dei suoi pensieri, il “flusso” nel suo scorrere casuale e disordinato: il personaggio-narratore costruisce logicamente il discorso, gli dà un ordine, seleziona i materiali che espone, in base alla loro pertinenza all’argomento che vuol trattare. Il fatto che il monologo sia messo per iscritto è veramente fondamentale, discriminante: quelle di Bloom nell’Ulisse sono associazioni assolutamente libere, senza alcun controllo e alcuna censura della coscienza; il mettere parole su carta, per Zeno, presuppone invece inevitabilmente un controllo; non emerge immediatamente il profondo, il personaggio che scrive erige solide, accurate barriere, censura, rimuove, distorce secondo i suoi fini, che, come sappiamo, sono quelli dell' "innocentizzazione". Non solo, ma se Bloom pensa fra sé, Zeno si rivolge a un preciso destinatario, il dottor S.: anche questo obbliga ad un controllo attento, ad erigere barriere di rimozione, che filtrino l’affiorare spontaneo dei contenuti della psiche.
Svevo era ben consapevole del carattere rivoluzionario delle tecniche joyciane (e d’altronde la loro portata era tale che non poteva non colpire immediatamente chiunque). Ne abbiamo la testimonianza nella sua conferenza su Joyce, tenuta nel 1927, dove possiamo leggere pertinenti definizioni del flusso di coscienza dell’Ulisse: «I due personaggi principali, Bloom e Stefano, comunicano direttamente col lettore convertendo il loro pensiero solitario in un monologo. Camminano col teschio scoperchiato»; «quel pensiero dei protagonisti [...] ci viene comunicato all’istante stesso in cui si forma, sregolato, in una mente sottratta ad ogni controllo». Svevo sapeva bene, invece, come il suo personaggio-narratore sottoponesse ad un rigido «controllo» i suoi pensieri nel metterli sulla carta. La descrizione delle tecniche joyciane presuppone quindi un’implicita consapevolezza della differenza che le separa dalle proprie.
Dalle differenze di impianto narrativo tra l’Ulisse e la Coscienza di Zeno scaturiscono quelle stilistiche e linguistiche. Dato che in Joyce si ha il flusso disordinato della coscienza del personaggio, la sintassi si frantuma, diviene caotica, tutti i nessi logici saltano. Il discorso di Zeno conserva invece una sintassi regolare, razionalmente strutturata, proprio come strumento della censura della coscienza sull’inconscio. Inoltre (anche se è difficile coglierlo nella traduzione) Joyce nel suo libro sperimenta le più ardite mescolanze linguistiche, combinando tra loro i registri più vari, deformando le parole, giocando coi suoni (nella traduzione del passo riportato, ad esempio: «Là nel rezzo. Che sollazzo. Pizzardone»; nell’originale: «Met her once in the park. In the dark. What a lark»). Svevo usa invece una lingua comune, uguale, abbastanza scolorita, come deve essere il linguaggio colloquiale del borghese triestino Zeno che scrive le sue memorie, senza punte espressive intense e senza mescolanze ardite. Non affrontiamo poi altre macroscopiche differenze trai due libri, che esigerebbero più approfonditi discorsi, e che non riguardano le tecniche del discorso narrativo: l'Ulisse ha una struttura fondata su una complessa trama di simboli (ad esempio ogni capitolo, segretamente, rimanda ad un libro dell'Odissea), mentre nella Coscienza non vi è nulla di tutto ciò.
Concludendo, i collegamenti tra l'Ulisse e la Coscienza non sono diretti, ma generici: le due opere sono legate solo dal fatto che si collocano in un certo clima culturale novecentesco, che ama esplorare la dimensione soggettiva nelle zone più profonde, che mette in crisi la visione del mondo tradizionale, chiusa, ordinata e gerarchizzata, sostituendola con una più mobile e aperta, la quale genera anche una crisi delle strutture e dei procedimenti narrativi. Ma poi ciascuno dei due scrittori traduce questo clima nella sua opera in modo del tutto personale e peculiare.
I. Svevo, La coscienza di Zeno, cap. V (Baldi)
La morte di Guido rischia dunque di scatenare i sensi di colpa così laboriosamente sopiti per "innocentizzarsi", per dimostrare ai propri stessi occhi, oltre che a quelli degli altri di essere privo di ogni colpa, Zeno si lancia con dedizione nelle speculazioni di Borsa, pel recuperare le perdite di Guido e salvare il suo patrimonio. Questo lo rassicura, gli dà il senso della sua bontà e del suo amore per il cognato, lo fa sentire perfettamente innocente, anzi generoso e magnanimo. L’inconscio che domina tutti i suoi gesti arriva perfino a convincerlo di provare un profondo dolore per la perdita del suo antagonista. Ma in realtà proprio in questa dedizione si manifesta tutta la sua aggressività: sotto i propositi affettuosi e devoti alla memoria del defunto si celano rivalità e competizione. Salvando il patrimonio di Guido, Zeno gli dà in certo qual modo uno schiaffo, celebra un postumo trionfo su di lui. Il nemico ha dimostrato, con la sua morte, di non essere affatto quell’essere onnipotente che l’inetto temeva; ha rivelato tutta la sua debolezza di fragile vittima di una forza più grande, il caso. Guido, nota Zeno nel visitare la salma, esprime «non una forza, ma la grande stupefazione di essere morto senza averlo voluto». Ora l’inetto può veramente trionfare: l’immagine aggressiva e terrificante dell’antagonista si è dileguata. Zeno può dimostare di essere migliore di lui, buon marito, devoto alla famiglia, abile uomo d’affari, mentre Guido era un adultero impenitente e un irresponsabile travolto dal fallimento.
L’ostilità, e l’aggressività latenti di Zeno si rivelano nell’episodio dello sbaglio di funerale: è uno di quei classici «atti mancati» di cui parla Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana, che non sono affatto casuali, ma rivelatori dei nostri impulsi profondi. Zeno, col suo errore, denuncia tutto il suo odio e il suo disprezzo per il rivale. Naturalmente non può ammettere questi sentimenti al livello della coscienza, deve continuare a mascherarli, quindi si costruisce i consueti alibi: «Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli». Zeno allude alle sue speculazioni in Borsa. In realtà, una volta dati gli ordini necessari, non ha più nulla da fare. Ma, nella sua ottica distorta di nevrotico, l’osservare l’andamento dei valori, quasi a «regolarli» magicamente col desiderio, è ritenuto da lui un «lavoro» di grande importanza e molto faticoso. Zeno ingigantisce questa sua operazione ridicola sempre per costruire il castello inattaccabile della propria innocenza. Ma l’euforia e l’energia che lo pervadono nella lunga camminata del ritorno sono eloquenti: avendo finalmente trionfato sull’antagonista, l’inetto si sente forte e sano, spinto da uno slancio di vitalità piena e gioiosa. Si tradisce per un attimo: «Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso»; ma la barriera della censura è inespugnabile: Zeno si affretta a ribadire la propria innocenza, interpretando in chiave non sospetta, legittima, la gioia per la vittoria: «Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse ero sceso in lizza». E l’ultima menzogna che Zeno dice a se stesso: era «sceso in lizza» per ben altri motivi, per schiacciare l’avversario, almeno alla memoria. Lo comprende benissimo Ada, che, qualche pagina più avanti, gli rinfaccerà: «Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!». E con grande acutezza continua: «E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo [...]. Tu restasti lontano, assente, sempre assente, finché egli non fu sepolto. Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto. Ma, prima, di lui non ti curasti». Queste parole colgono a fondo i veri sentimenti di Zeno, ma egli si rifiuta di riconoscersi in quell’immagine chiudendosi nel suo sistema di difese, che perdura ancora tanto tempo dopo, nel momento in cui scrive, segno che il senso di colpa è ancora ben vivo nel suo inconscio («Quelle parole [...] risuonano tuttavia nell’anima mia [...]. Il rimprovero di Ada, non lo merito»).
L’episodio è un bell’esempio dei labirinti della psiche che Svevo esplora con eccezionale sottigliezza, ma anche della costruzione ironica del racconto, fondato sull’inattendibilità della voce narrante e dell’ottica dello Zeno personaggio, nelle quali si mescolano continuamente «verità» e «bugie», come appunto avverte lo psicanalista dottor S. nella prefazione al manoscritto di Zeno. In effetti anche nei confronti di Guido, come avviene per Cosini padre, per Augusta e per gli altri familiari, l’ottica del "diverso" assume una funzione straniante e critica: il brillante Guido, passando attraverso il punto di vista di Zeno, si rivela in tutto il suo cinismo, in tutta la sua superficialità e irresponsabilità. Anch’egli è ben fisso nel suo mondo, e per questo «inquinato» dai «veleni» dell’immobilità.
I. Svevo, La coscienza di Zeno, cap. IV (Baldi)
Questa inattendibilità si manifesta non solo nei confronti di se stesso, ma soprattutto verso la moglie. Dietro le proteste di amore e di ammirazione per Augusta, dietro il desiderio di somigliarle, si intravedono sentimenti ben diversi. Il ritratto che Zeno traccia di lei è perfido e corrosivo, e rivela diffidenza, disprezzo, irrisione, ostilità. Nella presentazione di Zeno Augusta appare, nel suo limitato e ottuso sistema di certezze, un perfetto campione di "normalità" borghese: per lei tutto ha un posto stabilito, certo («Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! »); la buona moglie si chiude nella ristretta cerchia delle sue abitudini, nella realtà del piccolo mondo familiare, solida e rassicurante, e ci sta a suo agio, sorretta anche, per quanto riguarda la realtà esterna al "nido", da una fiducia incrollabile nelle istituzioni ufficiali, rappresentate essenzialmente dalle autorità politiche e dai medici. E un ritratto simmetrico a quello del padre di Zeno. Anche Augusta è caratterizzata dalla tetragona immobilità con cui è piantata nel mondo. Anzi, il suo rifiuto di ogni movimento è persino maggiore di quello del signor Cosini: questi è almeno disturbato dall’idea degli antipodi che stanno con la testa in giù, ed è costretto a rimuovere il pensiero per ritrovare il proprio equilibrio, Augusta invece assorbe tranquillamente l’idea del movimento della terra, senza turbamenti, perché il movimento e il mutamento non la toccano per nulla: con la sua ottusa sicurezza li neutralizza del tutto; se a Cosini padre «si sconvolgeva lo stomaco», Augusta non è neppure sfiorata dal «mal di mare». Sappiamo già come per Svevo l’immobilità sia pericolosa: «la vita ha dei veleni; ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni: solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri»; se ci si stabilisce immobilmente in un punto dell’universo, «si finisce per inquinarsi». Ebbene, i solidi borghesi come il signor Cosini e Augusta Malfenti sono proprio «inquinati» da questo «veleno».
Si può capire allora l’ambivalenza di Zeno, la sorda, latente ostilità che traspare dalle parole riferite alla moglie (come già dal ritratto del padre). Zeno è proprio il suo opposto: in quanto «inetto», è mutevole, incostante, inafferrabile, come allo stato mercuriale. Se quindi in lui c’è un disperato bisogno di integrazione nel mondo borghese, per trovare rimedio alla propria "malattia", per diventare "normale" e "sano", dall’altro lato la sua diversità è irriducibile e gli impedisce quella integrazione, lo costringe sempre a restar fuori da quel mondo, a vederlo con diffidenza e fastidio. Le ambivalenze di Zeno, che si traducono nella sua inattendibilità come narratore, assumono così una funzione straniante. Proprio in quanto è un essere mobile e fluido, la sua visione fa risaltare tutto il «veleno» insito nella condizione irrigidita e cristallizzata dei buoni borghesi, "normali" e soddisfatti di sé. Lo sguardo dell’inetto, del "malato", in quanto estraneo e diverso, mette in crisi le nozioni comuni, gerarchicamente stabilite, di "salute" e "malattia". Se la salute è esteriormente di Cosini padre, di Augusta, di Malfenti, di Guido Speier, la malattia è di Zeno. Ma lo sguardo "altro" di Zeno sconvolge le gerarchie, fa divenire tutto incerto e ambiguo, converte la salute in malattia («Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire»). Il punto di vista di Zeno riesce a cogliere la necrosi che invade i "sani", il «veleno» che li inquina, il fatto cioè che sono essi i veri malati. Per questo Zeno può divenire strumento acutissimo di critica delle ottuse e limitate certezze del mondo borghese, chiuso nel suo angusto giro d’orizzonte, incapace di adattarsi alla mobilità del reale.
In Zeno si fondono così inestricabilmente cecità e chiaroveggenza, menzogna e verità: l’eroe mente, stravolge i fatti, si costruisce alibi, ma nel momento stesso in cui mistifica il senso del suo agire offre la chiave per vedere più a fondo in ciò che lo circonda.
I. Svevo, La coscienza di Zeno, cap. II (Baldi)
Il ritratto del padre. Nel primo passo trascritto dal capitolo viene presentato un ritratto del padre e viene offerta una ricostruzione del conflitto del figlio con lui. E un ritratto che, pur dietro le mascherature dell'affetto filiale, appare cattivo, corrosivo, e rivela tutti gli impulsi aggressivi profondi del personaggio-narratore. Come suggerisce Elio Gioanola (autore di una delle più penetranti analisi psicanalitiche dell'opera sveviana), non si tratta neppure propriamente di ambivalenza, cioè di una mescolanza inconscia di amore e odio, ma di odio puro, che l'io narrante cerca ostinatamente di mascherare, ma invano. Si può cogliere di qui la radice dell'inettitudine particolare di Zeno rispetto agli altri personaggi sveviani, suoi «fratelli carnali»: Zeno vuole inconsciamente essere inetto per contrapporsi al padre borghese e alle sue solide, incrollabili certezze, mai sottoposte al dubbio critico (si pensi solo alla riluttanza del padre ad accettare che la terra sia in movimento, all'immagine stupenda della nausea che lo prende al pensare agli antipodi a testa in giù). Accentuare la propria inconcludenza, la propria bizzarria, la propria diversità dall'universo della normalità borghese è per Zeno un modo per aggredire simbolicamente, per ferire il padre, che di quell'universo è un campione esemplare. Gli impulsi aggressivi inevitabilmente si scatenano in occasione della malattia del padre, che lo priva della sua forza e del suo potere simbolici, lo trasforma in un essere debole e indifeso. Dietro lo sgomento e il dolore di Zeno affiora continuamente il desiderio che il padre muoia.
Naturalmente Zeno rifiuta di ammettere alla coscienza questi impulsi, li rimuove, cerca disperatamente di affermare, ai propri stessi occhi, la propria innocenza, la mancanza di ogni colpa. Zeno, sia come narratore della storia (che racconta ormai a distanza di anni), sia come attore di essa, si costruisce sistematicamente alibi e autoinganni. La conseguenza è che egli offre una prospettiva del tutto inattendibile. Non possiamo mai prendere per buone le sue affermazioni. Intravediamo più o meno confusamente i conflitti che si celano dietro le sue proteste d'amor filiale, ma il racconto non ci offre alcuna fonte sicura, alcun punto di riferimento fisso per stabilire con definitiva certezza la verità. E quanto ci viene suggerito, proprio sulla soglia del romanzo, dalla prefazione del dottor S., che ci avverte delle tante «verità» e «bugie» che si trovano nelle pagine scritte da Zeno. Tutto ciò introduce nel racconto un elemento di ambiguità, di indeterminatezza: non c'è nulla che intervenga a smentire le affermazioni sospette di Zeno e a ristabilire la verità oggettiva, come avveniva in Una vita e in Senilità, grazie agli interventi del narratore eterodiegetico. Non è quindi possibile smascherare definitivamente Zeno, rovesciare semplicemente le sue affermazioni per avere la verità. «Verità» e «bugie» non sono separabili, sono indissolubilmente fuse nella stessa pagina, nella stessa frase, nella stessa parola. Così, se Zeno sostiene «io rappresentavo la forza e lui la debolezza», non possiamo solo sorriderne e capovolgere tranquillamente l'affermazione. Ciò che Zeno dice è falso, ma è anche vero. Quella pretesa «forza» del buon borghese, chiuso nell'orizzonte limitato delle sue convinzioni e dei suoi princìpi, non è vera forza, non è «salute», per usare una categoria cara a Svevo (e a Zeno), ma «malattia». C'è più avanti nel romanzo una considerazione illuminante di Zeno: «Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi. Bisogna muoversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri». La chiusura dei cosiddetti "sani" nel loro angusto mondo, la cristallizzata immobilità delle persone "normali", è in realtà un «veleno» che li inquina. Sono essi i veri malati. L'inetto, nella sua instabilità continua, è paradossalmente più immune da quel male, più "sano". Perciò se Zeno mente, distorce, rimuove, mistifica il suo punto di vista, oggettivamente, proprio in quanto egli è estraneo e irriducibile al mondo dei "sani" e dei "normali", funziona da strumento straniante, corrode quel ristretto, soffocante universo borghese, ne mina alle basi le certezze indiscusse. Anche Zeno, certo, è parte del mondo borghese che è sottoposto a critica, e ne presenta alcuni vistosi limiti, come il non saper vedere chiaramente se stesso, ma, in quanto inetto, porta a chiarezza la realtà degli altri, l'inconsistenza della loro pretesa sanità. Nel momento in cui mistifica il senso dei suoi comportamenti, come avviene qui nei rapporti col padre, offre la chiave per vedere più a fondo la realtà umana e sociale che lo circonda: il ritratto del padre è un'analisi critica mirabilmente acuta e penetrante dei limiti del mondo borghese. Zeno, a differenza di Alfonso ed Emilio, non è solo oggetto di critica, ma in certo modo anche soggetto.
Un sostituto del padre: il dottore. I meccanismi individuati funzionano anche nel passo dedicato al dottor Coprosich. Questi è un evidente sostituto del padre, rappresenta una superiorità autorevole, indagatrice (i suoi «occhi terribili»): Zeno ha paura che quegli occhi frughino al fondo del suo animo e scoprano quel segreto che egli non vuole confessare neppure a se stesso, gli impulsi aggressivi e omicidi verso il padre. Per questo trasferisce nel dottore il conflitto, e ciò è all'origine del suo ostinato, inesauribile odio nei suoi confronti, che non si placa neppure a distanza di anni. Non gli si può presumibilmente credere quando afferma che, nel momento in cui scrive, il «rimorso» è scomparso, e che parla ormai con la freddezza con cui parlerebbe di avvenimenti accaduti ad un estraneo: è un evidente tentativo di rimozione. L'antipatia verso il dottor Coprosich che «si ostina a vivere» è un indizio eloquente del permanere del senso di colpa nei confronti del padre e degli impulsi omicidi nei confronti del medico, divenuto suo sostituto. Di nuovo però, nonostante le sue mistificazioni, il punto di vista del "malato" Zeno funziona come corrosivo strumento straniante su ciò che lo circonda: e la vittima in questo caso è proprio quel dottore che, tetragono com'è nelle sue certezze scientifiche positivistiche, risulta un altro bel campione di rigidezza e di immobilità borghese, cioè del «veleno» che «inquina» come un'intima malattia quel mondo.
Lo schiaffo del padre. La sequenza famosa e mirabile dello schiaffo paterno mostra ancora esemplarmente i meccanismi delle mistificazioni di Zeno. Nella sua confusione mentale il padre ha la sensazione che il figlio gli voglia togliere l'aria: inconsciamente avverte cioè la corrente di odio aggressivo che c'è in lui, e lo schiaffo ne è la coerente conseguenza. Naturalmente il fatto scatena terribili sensi di colpa in Zeno che, dinanzi a questa terribile immagine paterna, regredisce alla condizione di «bambino punito» e si affanna a protestare la propria innocenza, disperandosi perché la morte del padre gli impedisce ormai di provargliela. La figura del padre morto è una perfetta proiezione del suo senso di colpa: è tutta filtrata attraverso l'ottica e i sentimenti dello Zeno attore che vive i fatti (con la partecipazione emotiva del narratore che racconta a distanza di tempo). Lo dimostra l'insistenza sugli attributi paterni, la chioma bianca, il corpo «superbo e minaccioso», le «mani grandi, potenti», «pronte ad afferrare e punire»: sono i sensi di colpa dell'osservatore che caricano la figura del morto di questi connotati di immagine paterna terribile, punitiva, castratrice. Subito poi scattano i meccanismi della rimozione e dell'innocentizzazione: la coscienza, ad esorcizzare quella figura, ne erige un'altra antitetica e consolante, il padre «debole e buono», e per tacitare i sensi di colpa Zeno rimuove tutti gli impulsi aggressivi, si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre, e così può arrivare all'obiettivo rassicurante di sentirsi «buono, buono». Si scorge di qui la conoscenza della psicanalisi che è propria di Svevo e la funzione essenziale che essa riveste nella Coscienza. Non importa, come hanno osservato degli specialisti, che tale conoscenza tecnicamente presenti delle lacune: è il senso profondo della psicanalisi che Svevo ha colto e trasferito nel suo romanzo. Ciò non toglie che nei confronti di essa Svevo abbia delle riserve: è convinto che la psicanalisi sia uno strumento formidabile «per i romanzieri» (come scrive in una lettera del 1927), cioè uno strumento conoscitivo, ma ne rifiuta le pretese terapeutiche, che tendono a modificare il nostro «intimo io», quella natura che, proprio in quanto malata, è una nostra ricchezza.
I. Svevo, Senilità, cap. XII (Baldi)
Determinismo e colpa. La costruzione di autoinganni e alibi continua nelle riflessioni che lo accompagnano mentre si reca al luogo dell’appuntamento. La sua mente si arrovella soprattutto intorno all’idea di responsabilità e di colpa. In coerenza con la maschera di uomo superiore che vuole assumere, Emilio ragiona innanzitutto sulle colpe di Angiolina, con l’atteggiamento distaccato dello scienziato, immune da risentimenti, e fa ricorso al determinismo che è proprio della sua cultura positivistica: vuole affermare che il male causato da Angiolina non può esserle attribuito a colpa perché il suo comportamento non scaturisce da una libera volontà, ma è determinato dal meccanismo delle leggi naturali («il male avveniva, non veniva commesso»). In realtà questo scrupolo di assolvere Angiolina maschera il bisogno di assolvere se stesso dalla colpa di aver causato la morte di Amalia, di averla abbandonata al suo dramma senza comprenderla ed aiutarla. Gli viene per un attimo il sospetto che le sue riflessioni tendano proprio alla sua autogiustificazione, ma ne sorride, perché se tutto è determinato necessariamente dalla natura, ogni scrupolo di assolversi è vano e ridicolo. Il suo distacco "filosofico" è però solo un tentativo di rimozione: il determinismo non è che un ennesimo alibi per tacitare gli strati più profondi della psiche, in cui Emilio continua a sentirsi colpevole, nonostante ogni maschera "scientifica" da lui indossata: mentre sorride dell’errore suo e di Amalia, di essere stati sempre tanto sensibili alla responsabilità e alla colpa, usa proprio il termine «colpevoli» («Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!»): è come un lapsus che lo tradisce. Anche lo spettacolo delle onde, che il suo consueto «abito letterario», cioè la sua abitudine a filtrare ogni esperienza attraverso schemi letterari, gli fa paragonare alla propria vita inerte, ribadisce in lui la convinzione che la vita è retta da un meccanismo ferreo, che nulla può modificare, e ne conclude: «Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno». E ancora, più avanti, continua ossessivamente a ripetere a se stesso che recarsi da Angiolina è un comportamento che scaturisce dalla sua «natura», a cui è impossibile sfuggire, e che quindi non c’è colpa a dimenticare per un momento il suo dolore.
Questa insistenza del personaggio sul pensiero della colpa e sull’affermazione della propria innocenza inducono a chiedersi quale sia la posizione dello scrittore di fronte al problema: è d’accordo con Emilio o lo smentisce, giudicandolo criticamente? Se si guarda 1’impianto narrativo dell’episodio, le riflessioni sono sicuramente di Emilio, appartengono ad un suo discorso indiretto libero, non alla voce narrantez portavoce dell’autore; né d’altra parte vi sono interventi giudicanti espliciti del narratore. E quindi difficile rispondere. Certo, anche Svevo ha una matrice positivistica e schopenhaueriana che lo induce al determinismo, a ritenere che i comportamenti di Emilio scaturiscano dalla sua natura di «inetto», e che quindi egli non possa essere ritenuto responsabile dei suoi atti. Si pensi alla lettera già citata del 1927, in cui il «contemplatore» è definito come «un prodotto della natura», al pari del «lottatore». In realtà l’atteggiamento lucidamente, duramente critico che Svevo ha nei confronti del suo eroe, delle sue maschere e delle sue menzogne, non potrebbe spiegarsi se veramente lo scrittore non lo ritenesse responsabile dei suoi atti. Si può pensare, per tentare una soluzione del problema, che il determinismo faccia parte dell’ideologia in astratto dello scrittore, mentre nel concreto della rappresentazione egli scorga chiaramente la responsabilità di Emilio. Cioè quando Svevo rappresenta, quando usa gli strumenti conoscitivi che sono veramente suoi, quelli del romanziere, vede più acutamente di quando usa certi schemi ideologici che gli vengono dalla cultura della sua epoca, come appunto il determinismo positivistico e schopenhaueriano. La vera visione di uno scrittore non è quella che egli professa a parole, ma quella che fa corpo con il suo modo effettivo di rappresentare. Per questo Svevo può essere così critico nei confronti della responsabilità e della colpa del suo eroe. Come ha perfettamente scritto Franco Petroni, «lo scacco di Emilio è provocato non da inettitudine costituzionale, ma da cattiva coscienza; che, come è evidente, è cosa del tutto diversa [...]. La "senilità" di Emilio è un prodotto non di natura ma storico, ed egli ne porta su di sé la responsabilità, condividendola con la sua classe di appartenenza».
L’inetto e il destino. Lo stesso discorso si può fare per le riflessioni suggerite ad Emilio dai marinai che legano il bragozzo alla boa. L’eroe attribuisce 1’«inerzia del proprio destino», la propria debolezza ed infelicità, al fatto che nessun compito concreto, anche minimo come guidare una barca da pesca, sia mai stato affidato alla sua «attenzione» e alla sua «energia», cioè al fatto di essere escluso da ogni forma di vita attiva, da ogni possibilità di incidere sulla realtà pratica. Qui Emilio è ad un passo dal cogliere le cause profonde, storiche e sociali, della sua inettitudine: la sua condizione di intellettuale piccolo borghese, vittima della divisione sociale del lavoro, in un periodo in cui grandi processi tendono a declassare l’intellettuale, a togliergli peso sociale, potere e prestigio, relegandolo a mansioni subalterne ed escludendolo da ogni ruolo attivo nella realtà politica, economica, culturale. L’intellettuale, così messo ai margini, si sente un essere superfluo, impotente ad esercitare alcuna azione nella realtà. Tuttavia Emilio, pur intuendo tutto ciò, ricorre sempre, per spiegarlo, agli strumenti fornitigli dalla cultura della sua età, il determinismo positivistico e il fatalismo pessimistico di Schopenhauer: lungi dal vedere la radice della sua inettitudine e della sua infelicità nei processi sociali in atto, l’attribuisce al «destino», un meccanismo fatale, impassibile e immodificabile, che impedisce ogni intervento della volontà e inchioda senza scampo ad una certa condizione. Emilio sente dunque tale condizione come un fatto esclusivamente individuale, una condanna misteriosa e incomprensibile, che pesa solo sulla sua persona, non sul suo ceto sociale. Si ripresenta qui il problema di stabilire quanto queste riflessioni del personaggio rispecchino la visione di Svevo. Si può proporre la soluzione prospettata prima: anche lo scrittore con ogni probabilità, in nome dei suoi schemi culturali, considera il suo personaggio inetto per «destino», come prodotto di leggi naturali immodificabili. A riprova, in più punti del romanzo, il termine «destino», a proposito di Emilio, è impiegato dal narratore, che è indubbiamente portavoce dell’autore. Ma in realtà, nel concreto della narrazione, emerge sempre con chiarezza come non un «destino» individuale abbia condannato Emilio alla sua «triste inerzia», ma una precisa condizione sociale, storicamente collocata, quella dell’intellettuale piccolo borghese di un periodo di crisi, appunto, che viene rappresentata con grande ricchezza di dati ed analizzata con eccezionale penetrazione critica nelle sue condizioni sociologiche, ideologiche e culturali, persino psicologiche, come si è visto a suo luogo nel profilo. Anche in questo caso, dunque, la visione autentica dello scrittore non è quella affermata a parole, ma quella che sostanzia la rappresentazione.
I procedimenti narrativi: l’ironia oggettiva. L’incontro con Angiolina è la smentita radicale dei propositi di Emilio. Cadono le sue maschere di uomo superiore, di scienziato distaccato, indotto dalla sua visione scientifica e filosofica alla «rassegnazione» e al «perdono».
La realtà squallida dell’infedeltà della ragazza dissolve tutte le sue fantasie e i suoi progetti: emerge così la violenza latente della sua ossessione erotica, che sconvolge le sue costruzioni mentali e i meccanismi della rimozione. Emilio è preso da un’«ira enorme», afferra Angiolina con violenza, urla epiteti ingiuriosi e volgari, sino a concludere col gesto infantile e ridicolo di scagliarle dietro una manciata di sassolini. Questo contegno passionale e indecoroso di Emilio stride violentemente con l’immagine di calma, dignità e superiorità che egli aveva cercato di costruirsi. Ne scaturisce un effetto che è tipico dell’impianto narrativo del romanzo, quello dell’ironia oggettiva. In genere l’ironia e il sarcasmo contro l’eroe sono veicolati dagli interventi della voce narrante, come si è visto analizzando la pagina iniziale. Ma spesso, nel corso del romanzo, il narratore tace, non interviene esplicitamente a smentire, a correggere, a giudicare il personaggio. Per ottenere un effetto ironico basta il contrasto che si viene a creare tra le sue mistificazioni e la realtà effettiva, che si delinea con piena evidenza nel contesto narrativo. Qui, a circondare Emilio di un alone di caustica, implacabile ironia è sufficiente lo stridore che si determina tra l’esplosione goffa e ridicola della sua ira e le precedenti, conclamate pretese di superiorità filosofica, basta cioè il semplice montaggio narrativo, l’accostamento di due diverse immagini dell’eroe nella contiguità sintagmatica del racconto. Questa ironia oggettiva, nella sua fredda impassibilità, può raggiungere. effetti ancor più corrosivi degli interventi giudicanti espliciti del narratore.
Siccome la realtà è stata così deludente, Emilio, come di consueto, si rifugia nel sogno («Il sogno lo possedeva intero»): sogna che l’incontro con Angiolina sia andato come egli l’aveva voluto. L’episodio si chiude con un parallelismo creato da Emilio tra le figure di Angiolina e di Amalia: da entrambe egli si distacca senza poter dire «l’ultima parola che avrebbe addolcito almeno il ricordo delle due donne». L’associazione, alquanto sorprendente, tra due così diverse immagini femminili ricorre nella prospettiva di Emilio lungo tutto l’arco del racconto, e campeggia soprattutto nella conclusione del romanzo, come vedremo subito.
I. Svevo, Senilità, cap. I (Baldi)
18 marzo 2011
Cara Italia, come scrivi male
Sembra di capire, insomma, che questo momento storico non offra esempi di stile nemmeno in letteratura.
«Chi vuole scrivere bene non deve certo ispirarsi agli scrittori di oggi, che in molti casi fanno della volgarità lingua di strada la loro cifra. E non sono certo io ad affermarlo per primo. Vale la pena di ricordare a questo propositi il saggio di Maurizio Dardano Stili provvisori e quello di Pietro Trifone Malalingua».
Fra ’800 e ’900 grandi autori come Verga, Capuana e poi Deledda usarono lo stile del dialetto per raccontare storie di gente del popolo.
«La differenza è che all’epoca lo si faceva per far emergere un certo tipo di realtà sociale del tutto trascurata dalla letteratura. Oggi, invece, si scrive in un certo modo nel tentativo di colpire il lettore. Un po’ come accade con la tv spazzatura».
Quando è cominciata questa tendenza?
«È difficile storicizzare questi fenomeni di stile. Per semplificare si fa il nome di Pier Vittorio Tondelli quale spartiacque fra il prima e il dopo. Poi sono venuti i cosiddetti 'Cannibali', dal nome di una delle più note riviste del ’77: 'Cannibale'. Nei loro testi si registra un atteggiamento aggressivo nei confronti della lingua italiana. Per identificare questi scrittori, fra gli addetti ai lavori si usa l’espressione: 'i nipotini di Tondelli'».
Anche in Pasolini si ha un uso 'violento' dello stile linguistico.
«In Pasolini, però, si tendeva a rendere l’elemento poetico. C’era questo tipo di ricerca, che oggi invece non c’è. In Gadda, poi, le distorsioni linguistiche erano quasi un gioco».
Per quale motivo si è registrato un simile decadimento della lingua utilizzata in letteratura?
«Ci sono delle mode. C’è l’imitazione di certa narrativa americana, quella della 'bit generation', tanto per intenderci. E ci sono alcuni scrittori che pensano di essere o sono più abili a sfruttare il momento. Più in generale è la cultura contemporanea che latita. Non c’è un riferimento culturale che sembri stabile. Ci sono idee buone solo per il presente... e la scrittura ne risente. Da una parte si ritiene che la lingua tradizionale abbia perduto la forza per raccontare storie, ma non ci sono riferimenti per forgiarne una nuova».
Quali sono le conseguenze pratiche?
«Se la letteratura, che viene solitamente intesa come forma di comunicazione alta, propone una lingua scadente, la conseguenza è che non esiste più un modello stilistico a cui ispirarsi. Così si scivola verso la volgarità gratuita. Lo si vede nei mezzi di comunicazione di massa. Anche se un certo giornalismo può essere indicato come modello per i giovani».
Cos’è, un paradosso?
«A differenza che in televisione, esiste un giornalismo scritto, che in questa situazione di latitanza letteraria costituisce un punto di riferimento linguistico. Sto parlando di grandi giornali, dei loro articoli di fondo, delle pagine culturali. In questi contesti si può trovare una prosa giornalistica curata e attenta, di buona qualità. Alcuni divulgatori utilizzano una buona scrittura. Anche la lingua dei professori, degli studiosi a volte è buona, ma sempre più spesso appare incomprensibile, fumosa, non certo da indicare come esempio a degli studenti».
I suoi studenti che tipo di scrittura usano?
«Per prima cosa c’è da dire che si scrive poco e i giovani scrivono ancora meno. Agli studenti universitari viene chiesto raramente di fare delle tesine. E quando scrivono, probabilmente per assenza di modelli, si ispirano a una sorta di italiano burocratico».
Per esempio?
«Se chiedo loro cosa hanno fatto nella giornata, non scrivono 'sono andato', ma 'mi sono recato'. Una forma inutilmente burocratica. Allo stesso modo si registra un uso massiccio del verbo 'effettuare', al di fuori del suo significato effettivo, invece del più semplice e polivalente 'fare'. C’è chi usa 'promulgare' invece di 'diffondere'. Si fa un uso frequente di 'ubicare' e via dicendo. Spesso, poi, mostrano di avere scarsa padronanza con la lingua scritta anche nelle cose elementari. Ti mandano una email ed esordiscono con 'buongiorno' o 'buonasera'...
Oppure chiudono con un 'arrivederci'. Non sanno distinguere fra lingua scritta e lingua parlata».
E la poesia?
«Premettendo che ci sono più poeti che lettori di poesia, c’è da dire che dal punto di vista stilistico gode di migliore salute rispetto alla prosa. Su internet, per esempio, ci sono siti di poesia e il buon stile non manca».
«A latitare è la cultura contemporanea. Non c’è un riferimento culturale stabile ma idee buone solo per il presente... e lo stile ne risente»
17 marzo 2011
La Carboneria: la fuliggine dei cospiratori
Il primo a introdurre la setta in Italia fu un tale Pierre-Joseph Briot nel 1806. Presto le 'baracche' (sedi) che contenevano le 'vendite' (logge) carbonare si riempirono di commercianti, professionisti e membri del basso clero ridotti alla strada dagli espropri napoleonici, spesso convinti d’aderire a un’associazione cristiana. Tra il 1815 e il 1831, la Carboneria partecipò a insurrezioni, attentati, complotti contribuendo, con altre organizzazioni, a imporre idee liberali. C’erano carbonari che nutrivano idee ben più radicali di quelle che s’affermarono all’Unità, altri che s’erano fatti iniziare per ragioni contingenti, politiche, e non furono mai messi al corrente delle vere intenzioni dei capi.
Gli adepti si suddividevano in tre gradi (apprendista, maestro, gran maestro). Quando si chiedeva l’ammissione si era 'pagani' in cerca della luce. Si giurava bendati davanti ad un pugnale, si accettava un nome iniziatico. I testi carbonari celebravano Gesù quale profeta dell’uguaglianza (come tra gl’Illuminati di Baviera). Peculiari della Carboneria erano i «riti forestali»: far legna nel bosco, tagliare i ceppi, cuocere la materia vegetale per ricavarne, con faticoso 'travaglio', il carbone che illumina e scalda e infine distribuirlo nelle 'vendite' grazie ai 'cugini' e alle 'cugine'; queste le azioni che simbolizzavano l’attività del carbonaro che politicamente venivano sintetizzate nelle 'parole sacre' di Libertà e Uguaglianza. Certe 'vendite' si distinsero anche per un acceso spirito anticattolico. Un’istruzione segreta del 1819 diceva: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della Rivoluzione francese.
L’annientamento per sempre del cattolicesimo ed ancora dell’idea cristiana». Nel 1821, Pio VII condannò la Carboneria con la bolla Ecclesiam a Jesu Christo paragonandone i membri ai manichei. Dopo la fallita insurrezione del 1831, i più convinti confluirono nella Giovine Italia e poi nella massoneria. Né va trascurato il lavorìo culturale dei carbonari: il Dante illuminato gnostico (come il Leonardo da Vinci) del carbonaro Reghellini affascinò Dante Gabriele Rossetti e Giovanni Pascoli, arrivando fino a noi. Sparuti gruppi di carbonari sopravvissero fino al 1950 circa e forse anche oltre, soprattutto nella diaspora dell’emigrazione, in Sud America, in strani sincretismi di teosofismo e culto funerario di Mazzini. Oggi, qualcuno ha fatto rivivere i 'riti forestali' in una recuperata Carboneria del XXI secolo, nella quale si «brinda ai lieti calici» dentro rinnovate «baracche». Sarà che il commercio del carbone ha bisogno di stimoli ...
Dopo la fallita insurrezione del 1831, molti confluirono nella Giovine Italia e nella massoneria. Frange sono sopravvissute fino al 1950
16 marzo 2011
Se la cultura è il vero collante
Le polarità entro cui si esprime la percezione dell’Italia, si potrebbero ricondurre alla linea arcitaliana, secondo la definizione di Curzio Malaparte, e alla linea antitaliana, espressa dal Giovanni Amendola di Quest’Italia non ci piace; due linee che hanno attraversato la cultura civile e politica, ma anche letteraria e filosofica italiana, almeno dai tempi di Labriola e Salvemini ai tempi di Montanelli e oltre. La percezione onesta e veritiera d’Italia si ricava facendo la media tra le due linee opposte e radicali che sovrastimano e sottostimano l’identità italiana, pur esprimendo ambedue una forte passione civile e un alto grado di verità. Dal Dopoguerra in poi l’identificazione dell’amor patrio con il nazionalismo e il fascismo ha ulteriormente scavato dopo la guerra un fossato di rimozione patriottica e di negazione identitaria che ha pervaso per lunghi decenni la cultura, la vita civile e l’auto-rappresentazione dell’Italia repubblicana. Veniamo da decenni di amnesia dell’amor patrio.
La risposta è stata il tentativo di rifugiarsi in macro-identità sovranazionali, come l’Occidente, la Chiesa e l’Europa, l’affiliazione ideologica e mentale al modello americano e alla protezione atlantica o al modello sovietico e all’internazionale socialista; il trincerarsi nelle piccole patrie di partito, nei movimenti e sindacati di massa. O le fughe esotiche in patriottismi remoti, relegati in regni del passato o in regimi e leader lontani dall’Europa. Gli italiani sono stati per lungo tempo voyeurs delle patrie altrui, hanno amato e desiderato la patria d’altri. Perfino il sogno di una gita a Chiasso, come scriveva Arbasino, è servito per mimetizzare l’esterofilia o l’italofobia nel più rassicurante ed efficiente ordine svizzero a due passi da casa. Una forma di emigrazione interiore o dispatrio, per dirla con Luigi Meneghello, ha spesso accompagnato questa fuga dall’identità italiana. L’auto-denigrazione, e meno frequentemente l’auto-esaltazione, costituiscono così i flussi psicologici alternati che fanno da base all’ormai proverbiale anomalìa italiana, diversamente intesa e declinata.
Cento anni fa, in occasione del cinquantennale dell’Unità d’Italia toccò a Pascoli tessere l’elogio solenne della Grande Italia in occasione della nascita del Vittoriano, nel giugno del 1911. Quel cinquantenario fu vissuto come un giubileo civile, l’anno santo della patria che celebrava il suo Altare. Il mito letterario e civile dell’identità italiana era allora assai vivo, anche grazie all’impronta lasciata da Carducci e da Oriani e all’opera di d’Annunzio, De Amicis e dello stesso Pascoli. Curiosamente non parteciparono alle sue celebrazioni solenni le tre forze politiche che saranno poi basilari nella repubblica italiana e nella nostra Costituzione: i cattolici, i repubblicani e i socialisti. Di tutt’altro segno fu la celebrazione del centenario, il 1961. Un Paese prosperoso e ottimista, nel boom economico e demografico, accolse svogliatamente le celebrazioni che ebbero un’intonazione prevalentemente cattolica, lasciando a Torino il compito di ricordare con più enfasi storica e civile l’evento risorgimentale. Democristiani erano in quell’anno il presidente della Repubblica, Gronchi, il capo del governo, Fanfani, e il presidente del comitato per le celebrazioni, Pella. E fresca era la benedizione che Giovanni XXIII aveva dato alla «provvidenziale» unità d’Italia e a Roma sua capitale, vista fino allora in cagnesco, come un abuso e uno sfregio alla Chiesa.
Ora l’occasione del suo compleanno, i 150 anni, è propizia per ripensare l’Italia, la sua identità, la sua nascita, le sue origini e il suo sviluppo nel nostro tempo e dopo i travagli del Novecento. Una particolare vivacità ha assunto il dibattito sull’identità italiana per la tentazione ricorrente alla disunione, che assume a Nord i tratti della secessione e a Sud le forme della disaffezione o della pubblicistica anti-risorgimentale, con strascico di polemiche anti-unitarie in ambo i versanti. Paradossalmente sono state queste polemiche anti-unitarie a riproporre in modo non scontato e retorico il tema dell’Italia unita e delle sue radici. Avremmo seguito la stanca china delle stucchevoli cerimonie, cadute nell’assordante silenzio del Paese - sommerso tra il globale e il locale, il tribale e il privato - se non ci fossero state quelle riletture polemiche, quei contrasti, a ridare smalto e passione alla questione dell’unità nazionale.
Il tema peculiare della mostra sulle radici dell’identità italiana è questo: l’Italia è - unica al mondo - una nazione culturale. La sua storia politica e civile, la sua storia militare e territoriale, è preceduta e sovrastata dalla sua storia culturale. L’Italia sorge come nazione culturale, non nasce dalle armi e dal potere, ma dal suo vivere e creare. L’unico principe italiano che abbia conquistato il mondo non è un condottiero ma un’opera letteraria: è Il Principe di Machiavelli. L’Italia è un’identità geo-culturale prima che storica; arte, lingua e pensiero. L’italianità è un’indole prima di essere una cittadinanza; è un carattere, una mentalità, più che un’appartenenza a un sistema pubblico. Con ragione, Pasquale Stanislao Mancini nel 1851 in una prolusione all’Università di Torino sulla «nazionalità come diritto delle genti», parlò di «personalità nazionale»: l’Italia resta una delle personalità nazionali più spiccate al mondo.
Il guitto Fo, Nobel di inciviltà. Gaglioffate del tribuno anti Cav
Giorni fa ha arringato la folla a Milano per il Costituzione-day, nobile nome usurpato per inscenare l'abituale adunanza fescennina anti Cav. L’uscita di Fo più apprezzata dal colto pubblico è stata: «Berlusconi è scemo», opinione che solo un Nobel per la Letteratura poteva esprimere con tanta arguzia. Poi, sfruttando a fondo il successo, come fa il norcino col suino, ha ribadito ieri i concetti su il Fatto, quotidiano a sua misura. Ha precisato che Berlusca è «scemo» nel senso che è «fuori di testa al livello di scemenza» e che fa delle «truffalderie da taverna». L’ultima, ha spiegato con garbo, è quel «ca..zo d’invenzione del cerottone messo per fare scena». Poi è passato alla Gelmini «serva dei ricchi» e alla riforma della Giustizia: «Una bidonata tremenda». Tutte riflessioni non solo nobelianamente espresse ma che danno un decisivo contributo al dibattito: quello sul livello mentale dell’intellighenzia di sinistra. La polpa però sta nel seguito dell’intervista. Rievocando il C-day, Fo -in un ideale paragone con Bersani & co.- esalta se stesso. Finché hanno parlato i soliti noti del Pd -racconta- «la gente non aveva avuto reazione». Poi, «ho parlato io e l’ho buttata in sollazzo» e giù tutti a ridere e partecipare. Ossia: io sì che so entusiasmare. In pratica, una patente di imbecillità ai papaveri del Pd e un’auto candidatura alla guida della sinistra ammosciata. Con quale programma? Il casino permanente. Testuale: «Il Sessantotto. Che fantasia, che creatività! Spero che si possa arrivare a un altro momento del genere. Non bisogna fermarsi. Continuiamo questo Carnevale». Col fine - sottinteso - di cacciare il Cav. Cioè, un ottantacinquenne attaccato con i denti alla breccia che ingiunge al settantaquattrenne di lasciare la sua. È il proverbiale bue che se la prende con l’asino.
Fo è così: inesorabile con gli altri, morbido con sé. Si impanca, fa la predica, si considera integerrimo. Si vanta della sua coerenza umana e politica e ha rilasciato fiumi di interviste sulle nozze esemplari con l'attrice, Franca Rame. Questa orgia di okay su quanto li riguarda, è il vizio degli smemorati.
Dario è sempre stato prono al capo di turno. Nella Repubblica di Salò alleata dei nazisti, fu con Mussolini e si arruolò come paracadutista. Aveva 18 anni e si poteva perdonargli qualsiasi cosa. Invece, quando nel dopoguerra il fatto fu riesumato, era già comunista e negò tutto. Querelò giornalisti e giornali che accennavano alla «macchia», mentendo a tutto spiano, finché fu inchiodato da un tribunale con questa sentenza: «È certo che Dario Fo ha vestito la divisa di paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate... anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell'infiltrato pronto al doppio gioco». Dopo che, spogliati i panni del fascista, passò al comunismo, cominciò a prendersela con quelli che facevano l’inverso, lasciando la sinistra per nausea. Forte della sua limpida coscienza ha accusato di «tripli giochi e salti della quaglia» Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Sandro Bondi, ecc., senza essere mai frenato dal pudore. Tipico dei caporali ideologici.
Vi do altri esempi di com’è accomodante con se stesso. Nel 2006, si discuteva in Parlamento se proseguire la missione in Afghanistan. Fo era contro l’impegno militare e lo disse in tutte le salse: a teatro, in piazza, sotto la doccia. Ma quando la moglie Franca, allora senatrice dell’Idv di Di Pietro, votò per la missione seguendo l’ordine di scuderia, Dario cominciò a zufolare, prese un’arietta distratta e dimenticò l’argomento. Anche le consorti sono piezz ’e core.
Nello stesso anno, scaduto il mandato di Gabriele Albertini, era cominciata la corsa per il nuovo sindaco di Milano. Fo si candidò con una lista propria a sinistra della sinistra, «Dario Fo per Milano». Nella fase iniziale sbeffeggiò il prefetto Ferrante candidato ufficiale dei cattocomunisti, trattandolo da pistola. Poi, richiamato all’ordine da Bertinotti o altri così, si allineò alla disciplina rossa, appoggiando il prefetto. Ma, per sbiadire la resa, lo fece da paravento: «Noi siamo per Ferrante. Siamo fanatici di Ferrante. Gli romperemo i coglioni, ma lo sosterremo». Era già Nobel per la Letteratura, di qui la prosa vivace.
A un certo punto, superata la sessantina cominciò a correre la cavallina mandando per qualche tempo a farsi friggere il matrimonio d'amore con la Rame. C’è una velata somiglianza con il Cav, nonostante Dario si consideri di altra pasta. Stufa dell'andazzo, Franca lanciò via intervista un primo avvertimento nel lessico di famiglia: «Quando un uomo è importante, le ragazze se le ritrova a letto già col bidet fatto». Fo continuò trasgredire e allora Franca tradì a sua volta e lo fece sapere. Poi passò al contrattacco e a Domenica in dichiarò in diretta: «Divorzio da Dario». Raffaella Carrà, sull’orlo dello svenimento, sussurrò: «Ma lui è al corrente?». «Adesso lo sa», rispose l’altra gelida.
Nel curriculum di Fo c’è anche una vera gaglioffata. Dopo la morte dell'anarchico Pinelli aizzò una campagna di odio contro Luigi Calabresi. Sosteneva che il commissario avesse ucciso l’anarchico spingendolo dalla finestra della Questura milanese. Non si limitò -come Eco, Colombo (Furio) e altri cicisbei della penna- a firmare manifesti incendiari contro il «commissario torturatore», ma scrisse una commedia ultracolpevolista, Morte accidentale di un anarchico. Accreditava così la menzogna della defenestrazione dolosa, fomentando il clima di livore. Morte accidentale è del 1971; nel maggio ’72, Calabresi fu ucciso dai mazzieri di Lotta continua, nella stessa Milano in cui Dario recitava il suo testo bugiardo. Non risulta che, successivamente, il Nobel abbia avuto parole di scusa, né di umana pietà. Ma dove trova ancora lo stomaco di aprire bocca?