Le apocalissi di oggi e l’urgente risposta
di Francesco D’Agostino
Sono tre i macro-fenomeni che stanno lacerando la modernità (o per essere più precisi, la post-modernità): la violenza terroristica, l’immigrazione incontrollabile, la destrutturazione del matrimonio e della famiglia. Sembrano tre fenomeni molto diversi tra loro e vengono infatti giudicati molto diversamente, almeno da parte dell’ opinione pubblica occidentale: all’unanime deprecazione del terrorismo (deprecazione cui si unisce, per fortuna, anche gran parte dell’opinione pubblica musulmana) si accompagna l’estrema difficoltà di trovare uno stesso registro per qualificare i flussi immigratori (quale prevale? Quello demografico, quello antropologico, quello solidaristico, quello economico, quello xenofobo…?) e la vistosa spaccatura valutativa per quel che concerne la questione della ridefinizione del matrimonio e della famiglia (ridefinizione ritenuta doverosa da alcuni, nel segno di un allargamento dell’orizzonte dei diritti, e rovinosa da altri, nel segno di una mutazione antropologica dalle conseguenze rischiosissime e imprevedibili).
Sono davvero così diversi tra di loro questi tre fenomeni? Certamente sono diversi, ma rinviano tutti e tre, ciascuno ovviamente a suo modo, a una sorta di apocalisse, nel senso etimologico del termine, da intendere quindi non come catastrofe, ma come rivelazione, inaspettata e conturbante, della sostanza nascosta dell'anima moderna, della sua lacerazione tra secolarismo estremo ed estremo fondamentalismo, tra le ragioni dell’economia e quelle della fame e della paura, tra la perdita della speranza nell’uomo e il tentativo (illusorio e grottesco) di "ricostruirlo". Dal terrorismo, dai flussi migratori, dalla fine di un mondo la destrutturazione della famiglia emerge con sempre maggiore evidenza: quel mondo in cui si è cercato di controllare e dare limiti alla crudeltà e alla guerra, quel mondo in cui l’ospitalità era intesa come un dovere di misericordia, quel mondo in cui matrimonio e famiglia erano pensati in un orizzonte non individualistico, ma relazionale, aperto non al presente, ma al futuro.
Di qui l’angoscia che ci pervade e che in particolare sfida i cristiani, uomini e donne di speranza, che percepiscono di fronte a questo duro presente l’apparente inadeguatezza della loro visione, per così dire "tradizionale", del mondo. La fine di un mondo però non va confusa con la fine del mondo. La società a base cristiana (e la nostra di oggi lo è solo in parte) si è già confrontato, nella sua storia, con crisi analoghe e forse anche più dure della crisi del nostro tempo: quando, per esempio, la tarda antichità è implosa, quando l’unità della Chiesa è andata in frantumi, prima con lo scisma d’Oriente, poi con l’avvento della Riforma, o quando, agli inizi dell’epoca moderna, ha dovuto prendere atto, anche con sbigottimento, dell’esistenza di altri continenti e di altri popoli e culture.
La gestione e a volte la soluzione di queste crisi non sono state affidate, in passato, a lucidi progetti pianificati 'a tavolino': ma quando si è cercato di procedere in questo modo si sono solo ottenuti disastri. La Chiesa, quando si è lasciata guidare dalle sue forze migliori, si è sempre invece affidata allo Spirito, che sa dove 'soffiare' e che soprattutto soffia dove vuole.
Di qui una serie di insegnamenti profondi: non esistono 'tecniche' per fronteggiare crisi epocali come quelle di cui siamo testimoni, non ha senso gestirle attivando conflitti circoscritti, ancorché di grande rilievo, né possiamo pensare di poter ridurre l’impegno degli uomini di buona volontà a pur nobili (e necessarie!) prassi educative, comunicative, solidaristiche. Allo smarrimento dell’anima moderna non si possono dare risposte 'funzionali'. Prima di interrogarci su 'come' dobbiamo agire, dobbiamo tornare a porci la domanda su 'cosa' significhi propriamente per l’uomo 'agire'. La misericordia, sulla quale papa Francesco ci impegna tutti a meditare, in questo Anno Santo, non è la chiave per ottenere la soluzione dei problemi che ci affliggono, ma è l’unico orizzonte di senso a nostra disposizione per capirli. È a nostra disposizione perché Dio ce lo ha rivelato, affidandone l’uso alla nostra responsabilità. Siamo in grado, qui e ora, di rispondere davvero alle provocazioni della misericordia?
Sono davvero così diversi tra di loro questi tre fenomeni? Certamente sono diversi, ma rinviano tutti e tre, ciascuno ovviamente a suo modo, a una sorta di apocalisse, nel senso etimologico del termine, da intendere quindi non come catastrofe, ma come rivelazione, inaspettata e conturbante, della sostanza nascosta dell'anima moderna, della sua lacerazione tra secolarismo estremo ed estremo fondamentalismo, tra le ragioni dell’economia e quelle della fame e della paura, tra la perdita della speranza nell’uomo e il tentativo (illusorio e grottesco) di "ricostruirlo". Dal terrorismo, dai flussi migratori, dalla fine di un mondo la destrutturazione della famiglia emerge con sempre maggiore evidenza: quel mondo in cui si è cercato di controllare e dare limiti alla crudeltà e alla guerra, quel mondo in cui l’ospitalità era intesa come un dovere di misericordia, quel mondo in cui matrimonio e famiglia erano pensati in un orizzonte non individualistico, ma relazionale, aperto non al presente, ma al futuro.
Di qui l’angoscia che ci pervade e che in particolare sfida i cristiani, uomini e donne di speranza, che percepiscono di fronte a questo duro presente l’apparente inadeguatezza della loro visione, per così dire "tradizionale", del mondo. La fine di un mondo però non va confusa con la fine del mondo. La società a base cristiana (e la nostra di oggi lo è solo in parte) si è già confrontato, nella sua storia, con crisi analoghe e forse anche più dure della crisi del nostro tempo: quando, per esempio, la tarda antichità è implosa, quando l’unità della Chiesa è andata in frantumi, prima con lo scisma d’Oriente, poi con l’avvento della Riforma, o quando, agli inizi dell’epoca moderna, ha dovuto prendere atto, anche con sbigottimento, dell’esistenza di altri continenti e di altri popoli e culture.
La gestione e a volte la soluzione di queste crisi non sono state affidate, in passato, a lucidi progetti pianificati 'a tavolino': ma quando si è cercato di procedere in questo modo si sono solo ottenuti disastri. La Chiesa, quando si è lasciata guidare dalle sue forze migliori, si è sempre invece affidata allo Spirito, che sa dove 'soffiare' e che soprattutto soffia dove vuole.
Di qui una serie di insegnamenti profondi: non esistono 'tecniche' per fronteggiare crisi epocali come quelle di cui siamo testimoni, non ha senso gestirle attivando conflitti circoscritti, ancorché di grande rilievo, né possiamo pensare di poter ridurre l’impegno degli uomini di buona volontà a pur nobili (e necessarie!) prassi educative, comunicative, solidaristiche. Allo smarrimento dell’anima moderna non si possono dare risposte 'funzionali'. Prima di interrogarci su 'come' dobbiamo agire, dobbiamo tornare a porci la domanda su 'cosa' significhi propriamente per l’uomo 'agire'. La misericordia, sulla quale papa Francesco ci impegna tutti a meditare, in questo Anno Santo, non è la chiave per ottenere la soluzione dei problemi che ci affliggono, ma è l’unico orizzonte di senso a nostra disposizione per capirli. È a nostra disposizione perché Dio ce lo ha rivelato, affidandone l’uso alla nostra responsabilità. Siamo in grado, qui e ora, di rispondere davvero alle provocazioni della misericordia?
«Avvenire» del 24 marzo 2016