18 agosto 2020

L'abate Parini, così ironico e così elegante

Ti segnalo un mio video su alcuni brani de Il giorno di Parini


Prosegue con “Poesie varie” e “Scritti didattici” la pubblicazione delle opere nell’edizione nazionale: un’occasione per riassaporare lo stile e scrutare le contraddizioni di un grande autore
di Alessandro Zaccuri
«Sono Parin d’ambe le gambe strane». Suona così la più breve tra le poesie di Giuseppe Parini: un autoritratto scandito in un solo endecasillabo, nel quale l’autore riversa su di sé la sua proverbiale ironia. L’eleganza formale e l’intemperanza di sguardo sono le doti per cui Parini continua a essere ricordato. E sono anche le caratteristiche che gli permettono di rivestire di solennità classicistica un rigore argomentativo di dichiarata impronta illuminista. Famoso, addirittura famosissimo per l’acuminata critica sociale dispiegata in quello che viene comunemente – e impropriamente – indicato come Il Giorno, Parini è uno scrittore ancora più complesso, sempre a un passo dalla contraddizione e sempre capace di evitarne il clamore grazie a un efficace giro di frase. Un autore che ama nascondersi in piena luce, insomma, un po’ come accadde con i poemetti di cui è protagonista il «giovin signore», ovvero Il Mattino del 1763 e Il Mezzogiorno del 1765. Apparsi inizialmente anonimi, per quanto la paternità risultasse evidente, e da integrarsi con altre due parti, Il Vespro e La Notte, di cui l’incontentabile abate non licenziò mai la redazione definitiva. Non meno intricata è la situazione delle Poesie varie ed extravaganti di cui Stefania Baragetti e Maria Chiara Tarsi curano ora il testo accolto nell’edizione nazionale delle opere di Parini diretta da Giorgio Baroni e in corso di pubblicazione presso l’editore Fabrizio Serra (con la collaborazione di Marco Ballarini e Paolo Bartesaghi, coordinamento e prefazione di Uberto Motta, pagine 640, euro 275,00/175,00, disponibile anche in ebook: per informazioni www.libraweb.net ). Si tratta di un’impresa importante, avviata nel 2011 dall’edizione di Alcune poesie di Ripano Eupilino, la raccolta che nel 1753 consentì al giovane Parini l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati.
Nell’edizione nazionale sono usciti nel frattempo i titoli maggiori (in particolare le Odi a cura di Mirella D’Ettorre e Il Mattino e Il Mezzogiorno a cura di Giovanni Biancardi), ma anche volumi che documentano i molteplici aspetti dell’attività dell’autore. Recentissima è la seconda parte delle Prose, nella quale Silvia Morgana e Paolo Bartesaghi presentano l’insieme degli Scritti didattici e di politica culturale composti tra il 1767 e il 1798 (pagine XXXVIII+402, euro 240,00/140,00). Infaticabile nella revisione quanto recalcitrante rispetto alla pubblicazione, Parini era nato il 23 maggio 1729 a Bosisio (oggi Bosisio Parini), nel Lecchese. Morì a Milano il 15 agosto 1799, nel giorno che secondo la tradizione sarebbe stato occupato dalla stesura della sua ultima poesia, il sonetto Predaro i Filistei l’Arca di Dio, nel quale si celebrano la fine della Repubblica Cisalpina e il ritorno degli Asburgo nel Lombardo Veneto. Come l’autoritratto in un verso (nel quale Parini torna sul difetto di deambulazione ammesso, tra l’altro, nella Caduta), anche questo è un testo emblematico. Parini prende posizione, certamente, ma in modo obliquo e in parte ambiguo: la cacciata dei francesi dovrebbe coincidere con il ritorno della libertà, eppure sul finale l’autore sembra paventare un esacerbarsi del dispotismo austriaco. Di entrambi i regimi Parini aveva esperienza diretta, come dimostra la parabola degli Scritti didattici e di politica culturale, che comprende i materiali relativi sia all’insegnamento delle lettere nelle istituzioni scolastiche teresiane, sia al coinvolgimento nella commissione repubblicana per il riordino dei teatri nazionali.
Un simile pendolarismo è riscontrabile anche nel corpus dell’Ambrosiano III.4. Vergato materialmente dall’irrequieto segretario di Parini, Agostino Gambarelli, è tuttavia un «manoscritto d’autore» sul quale il poeta intervenne continuamente, fino a ridurre a 61 i componimenti accettati rispetto ai 101 inizialmente previsti. È il «terzo tempo» della poesia pariniana, come efficacemente la definisce la prefazione al volume, ricchissimo di informazioni e di spunti critici. A emergere con chiarezza è un disegno editoriale complessivo, non realizzato compiutamente anche per eccesso di ambizione. Tutto si tiene, in questa prospettiva, anche se non mancano i cortocircuiti. In questione non c’è solo la sostanziale freddezza con cui Parini (che, com’è noto, era diventato sacerdote per ragioni di convenienza) affronta l’argomento religioso, ma anche la disinvoltura con cui si passa dall’attacco contro le «muse pitocche» dei poeti encomiastici all’encomio per le autorità imperiali, dalla mirabile descrizione della fisiologia vocale all’abile ma convenzionale trattazione di temi magici. Parini non si contraddice, d’accordo. Dice molto, però, e dice sempre bene. Questa è stata la sua grandezza. Questa è stata, forse, la sua debolezza.
«Avvenire» del 14 agosto 2020

Liberiamo i nostri ragazzi dalla «dittatura della felicità»

Un modello indotto
di Daniele Mencarelli
Con il rispetto di tutte le regole del caso, dal distanziamento alla mascherina, la meravigliosa tradizione degli incontri pubblici sta lentamente ricominciando, complice la bella stagione al suo apice.
Ho potuto riprendere, quindi, il dialogo che amo di più: con i ragazzi. Con chi vive oggi quella fase della vita, per tanti ineguagliabile, che si chiama giovinezza. Il mio desiderio di confrontarmi con i nati dopo il 2000, la cosiddetta net generation, alfabetizzati dal primo giorno di vita al mondo digitale, è stato esaltato anche dal Premio Strega giovani, che mi ha permesso di entrare in contatto con tanti, tantissimi di loro. Durante questi dialoghi, spesso entusiasmanti, c’è un dato che mi colpisce più di tutti. A ogni incontro, spesso con parole tremendamente uguali, c’è sempre qualcuno di questi giovani che testimonia la sua profonda infelicità. Non solo a parole, non per modo di dire, lo sguardo, l’intera postura del corpo, tutto testimonia uno stato di prostrazione reale, profonda.
La prima domanda che gli faccio è sempre la stessa, la più stupida, sommaria, ma anche naturale. Chiedo conto della loro infelicità, gli chiedo il perché. Anche la loro risposta sembra seguire un canovaccio prestabilito. Più o meno con queste parole, tanti giovani si professano 'Infelici perché non sono felici'. Può sembrare un gioco di parole, un pasticcio linguistico, in realtà ci stanno comunicando uno dei mali con cui si ritrovano oggi a battagliare i nostri figli. In molti, moltissimi, vivono la felicità come un dovere da compiere, qualcosa che ci viene richiesto dal mondo, dai nostri simili. Gli infelici sono reietti, fastidiosi, ingombranti, soprattutto, non riescono ad adempiere al loro compito. Essere felici. Perché esistono gli strumenti per esserlo.
Con molti di questi ragazzi ho dato vita a confronti che non dimenticherò mai, ho tentato di capire da loro quel che intendono per 'felicità'. Il risultato, almeno per me, ha le fattezze di un allarme sociale, che riguarda tutti, soprattutto chi si ritrova oggi nei panni dell’educatore, genitori in primis.
Per i nostri figli la felicità è qualcosa di statico e concreto, che si può raggiungere né più né meno di una meta turistica, o un luna park. Non solo, tanti dei ragazzi che ho incontrato la immaginano come qualcosa di perenne: una volta raggiunta, agguantata, varrà per sempre. Come il traguardo di una corsa. Come una vittoria definitiva. Un possesso stabilito. Va da sé che attribuire alla felicità queste fattezze genera l’esatto opposto. Il pasticcio linguistico 'sono infelice perché non riesco a essere felice' assume ben altro valore, drammatico. Perché chi ragiona, chi vive in questi termini è destinato al fallimento.
Di questo se ne devono rendere conto, e prendersi la proprie responsabilità morali, tutti quelli che hanno sfruttato la ricerca di felicità facendola diventare un bene alienabile. I comunicatori, i pubblicitari, chi ha colmato il vuoto esistenziale dell’uomo con oggetti da comprare, costruendoci sopra bisogni inesistenti. Il meccanismo è semplice: acquista e diventerai felice, per sempre. Ecco la ricetta magica. Ecco le sirene che cantano nelle orecchie di questi ragazzi. Ed ecco, anche, la grande delusione che si ritrovano a vivere. Perché quell’oggetto, quel bisogno falso, renderà la tua vita felice per un manciata di ore, dopo tornerai quel che eri, un infelice pronto a credere a un altro oggetto da comprare. Un nuovo talismano, ugualmente inutile.
I nostri giovani vanno rieducati all’infelicità, perché è nella nostra natura sentirci incompleti, smaniosi di un bene che sentiamo esistere, ma che non riusciamo a vivere. È questa la condizione umana. Di ricerca, di interrogativi piantati nel petto, domande rivolte al cielo. La felicità arriverà come lampi meravigliosi lungo il cammino, attimi di gioia da serbare per i momenti più duri, ma non sarà questo il luogo, il mondo, della gioia senza fine.
«Avvenire» del 15 agosto 2020