28 marzo 2012

Tonino Guerra poeta bambino

Addii
di Bianca Garavelli
Sarà Santarcangelo a tributare l’ultimo saluto a Tonino Guerra. Nella città natale il poeta si era ritrasferito di recente da Pennabilli, nella Valmarecchia, dove abitava da decenni. La camera ardente sarà allestita nella sala del Consiglio comunale di Santarcangelo (che ha proclamato lutto cittadino) domani a partire dalle 9. Sabato intorno alle 10 è prevista in piazza Ganganelli, di fronte alle finestre di casa Guerra, l’orazione funebre che dovrebbe tenere il senatore Sergio Zavoli. Poi il feretro raggiungerà Pennabilli, dove alle 15.30 si reciterà una preghiera di saluto. La moglie Lora e il figlio Andrea (musicista e noto compositore di colonne sonore per cinema e tv) stanno ancora definendo lo svolgimento delle commemorazioni funebri. (P.Guid.)

Il destino di un autore polie­drico, anche narratore e sceneggiatore, è stato quello di essere apprezzato soprattutto per la sua poesia, e da un pub­blico molto più vasto di quello che di solito tocca a un poeta in Italia. Tonino Guerra si è spento pochi giorni dopo il suo 92° com­pleanno, festeggiato appena il 16 marzo. La poesia era per Guerra il legame indissolubile con la ter­ra di Romagna e con la propria infanzia a Santarcangelo, pove­ra, forse troppo negli affetti fa­miliari, eppure sempre nel cuo­re radice profonda, sostegno, fonte d’ispirazione mai inaridi­ta. È da qui che nasce la scelta di scrivere in dialetto, una varian­te del romagnolo particolar­mente 'stretta', arcaica, ma che nelle sue mani si è rivelata dut­tile, adattabile alle forme più va­riegate: dal frammento in versi brevi al poemetto narrativo dal­la metrica più articolata.
Il lin­guaggio dell’infanzia diventa la sofisticata lingua della poesia, acquistando assoluta dignità let­teraria. Con un fondamento nar­rativo originario che rimane una costante: lo stesso Guerra, in u­na breve autobiografia compar­sa in un volume del 1985 (Toni­no Guerra, Maggioli), racconta di aver iniziato a scrivere versi dialettali durante la prigionia in Germania, dove era stato inter­nato nel campo di Troisdorf dal 1943 al 1945. Qui erano tornati con forza i ricordi di un passato ancora molto vivo, perché il gio­vane Guerra non aveva mai la­sciato la sua casa prima di allo­ra, e inoltre era con altri prigio­nieri romagnoli che come lui sentivano il bisogno di ritrovare la loro identità per sopravvive­re.
Uno dei primi ricordi è il motivo per cui era stato catturato dai nazisti: era tornato nella casa di Santarcan­gelo per portare da mangiare al gatto di famiglia, rimasto là da solo mentre i Guerra erano fug­giti. La sintonia con l’atmosfera letteraria del neorealismo è qua­si una coincidenza inevitabile: il primo libro esce nel 1946, pro­prio quando comincia ad affer­marsi la nuova narrativa del se­condo dopoguerra, con la pre­fazione prestigiosa di Carlo Bo e con un titolo, I scarabòcc («Gli scarabocchi») che ne rivela la na­tura frammentaria, di schizzo improvvisato che con tratti bre­vi racconta storie drammatiche. Tra le molte «Italie dimenticate» del tempo conquista così un po­sto di rilievo la sua Romagna fat­ta di «povera gente» che fre­quenta modeste osterie e amo­reggia negli androni delle gran­di case coloniche, di paesaggi semplici, in cui basta però un po’ di pioggia perché tutto luccichi e risplenda come un miracolo. Il libro ottiene i giudizi lusinghie­ri di Pasolini e Contini, che in­durrà studiosi del valore di Tul­lio De Mauro e Claudio Marabi­ni a occuparsi della poesia suc­cessiva di Guerra. Che continua a scrivere e pubblicare da edito­ri importanti, ma in prevalenza narrativa; poi dal 1953 si trasfe­risce a Roma, dove rimane a lun­go, vivendo una fortunatissima carriera di sce­neggiatore cinematografico.
Ma senza mai abbandonare la poesia, come u­na via parallela, un filo lumino­so che collega alle origini. Un po’ come per il Pascoli che pas­sa da Myricae ai Canti di Castel­vecchio, uno dei libri successivi di Guerra, I bu («I buoi», 1972), consolida questa scrittura insieme realistica e af­fettiva, a tratti malinconica e o­nirica, riunendo le raccolte se­guite alla prima: La sciupteda («La schioppettata», 1950) e Lu­nario (1954). Si riafferma il ri­tratto dell’amata Romagna, un mondo di povertà dignitosa, che di rado assume vagamente i trat­ti di un esercito contadino in marcia contro un nemico iniquo (come in Sa vinzèm néun, «Se vinciamo noi»). Ma campeggia­no le ragioni dell’affetto, come nello splendido omaggio alla madre Penelope, quasi analfa­beta e capace di privarsi di tutto per il figlio, nella poesia I sacri­feizi («I sacrifici»). La raccolta Il miele del 1981 segna il passag­gio a una scrittura più distesa, fatta di versi e testi più ampi, che continua nei numerosi libri suc­cessivi, quasi tutti pubblicati da Maggioli di Rimini, nei quali do­mina la dimensione narrativa, che così viene del tutto assorbi­ta nella poesia, mentre la pro­duzione in prosa tende a cessa­re. Intanto, il cinema sembra al­lontanarsi da Guerra, che a fine anni Ottanta torna in Romagna con la seconda moglie, la russa Eleonora Kreindlina, Lora, che gli è rimasta accanto fino alla fi­ne, dapprima a Pennabilli e ne­gli ultimi tempi a Santarcange­lo. Scegliendo di nuovo la linea arcaica delle origini amate, del­l’infanzia ritrovata.
«Avvenire» del 22 marzo 2012

Addio a Tabucchi, l’italiano di Lisbona

Letteratura
di Alessandro Zaccuri
Le battute, per principio, non bisognerebbe spiegarle. Quella che tempo fa girava su Antonio Tabucchi, però, un minimo di introduzione lo richiede, e già questo basterebbe a testimoniare la complessità dello scrittore morto domenica all’Hospital da Cruz Vermelha di Lisbona (era nato a Pisa il 24 settembre 1943). Prima ancora di esordire come narratore, infatti, Tabucchi si era imposto per la sua esperienza di studioso e docente della letteratura portoghese. Il suo autore di riferimento – al quale si è dedicato per mezzo secolo con una passione ininterrotta, articolata in saggi, curatele e traduzioni – era Fernando Pessoa, la cui poetica, prevede il ricorso continuo alla pratica dell’eteronimo. Non un normale pseudonimo (e cioè un “falso nome”), ma in tutto e per tutto un “altro nome”. Anzi, il nome di un altro.
Ogni volta che cambiava firma, Pessoa assumeva i connotati di un alter ego immaginario, mutuandone la biografia, i gusti, i disgusti e, quel che più importa, lo stile. Bene, la battuta che perseguitava Tabucchi era che, a forza di ammirare Pessoa, si fosse convinto di essere uno dei suoi eteronimi. Scriveva, pensava, forse addirittura viveva in una sorta di funzione vicaria rispetto al suo maestro, in un orizzonte letterario in cui finzione e realtà si sovrapponevano in modo inestricabile. Non per questo era diventato un artista maledetto.
Al contrario, Tabucchi era a suo agio nel mondo, era un accademico stimato e un uomo cordiale, per quanto la sua mitezza potesse incrinarsi quando si trattava di questioni politiche o di sottigliezze filologiche relative, ancora una volta, all’amato Pessoa (cognome che, alla lettera, significa “persona”). Il suo esordio come narratore risale al 1975, quando Bompiani pubblica la prima edizione di Piazza d’Italia, al quale fanno seguito Il piccolo naviglio (1978), Il gioco del rovescio (1981) e Donna di Porto Pim (1983), libri votati alla forma breve del racconto o della novella, nei quali la ricerca sperimentale sembra farsi sempre più evidente. Alcuni elementi sono in ogni caso da subito riconoscibili: l’interesse di Tabucchi per il tema squisitamente pessoiano dell’identità e della perdita dell’identità, in primo luogo, ma anche un’apertura internazionale decisamente insolita per un autore italiano. Con Notturno indiano , uscito nel 1984 da Sellerio (l’editore che con Feltrinelli più ha contribuito al consolidarsi della reputazione di Tabucchi) arriva il successo in terra francese, prima con la vittoria del “Médicis étranger” e poi con l’omonimo film diretto da Alain Corneau, che accentuava ulteriormente il clima di viaggio iniziatico caratteristico del romanzo.
Dai racconti di Piccoli equivoci senza importanza (che nel 1985 segna appunto l’ingresso dell’autore nel catalogo Feltrinelli) ai saggi su Pessoa riordinati in Un baule pieno di gente (1990), Tabucchi conferma in forma sempre più precisa il suo sguardo attento eppure distaccato nei confronti della realtà. Il tentativo di virare in senso visionario ha il momento di massima tensione in un libro più ambizioso che riuscito come Requiem (1992), composto originariamente in portoghese, a ribadire quel processo di immedesimazione nel proprio modello ribadito, un paio di anni dopo, da Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa. Il 1994 è però anzitutto l’anno di Sostiene Pereira, il romanzo al quale più è legata la notorietà di Tabucchi. Portato con successo sullo schermo da Roberto Faenza (il ruolo del protagonista era interpretato da Marcello Mastroianni) e vincitore di numerosi premi, compreso il SuperCampiello, il romanzo è ambientato nella Lisbona del 1938 e mette in scena la ribellione al regime di Salazar da parte di un anziano giornalista mosso non tanto da una convinzione ideologica, quanto piuttosto da un sentimento di umana pietà. Un romanzo che ricorre con abilità agli stratagemmi della prosa d’avanguardia («Sostiene Pereira» è il refrain che contrassegna l’intera narrazione, sin dalla frase d’apertura) e che, nel martirio del giovane idealista Monteiro, rivela una compassione di intensità quasi religiosa.
A prevalere è tuttavia il gioco di specchi fra passato e presente, in virtù del quale Tabucchi si accredita come una degli intellettuali più autorevoli e severi della sinistra nella Seconda Repubblica. A un esplicito risentimento civile è ispirato per esempio La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), mentre gli interventi polemici di L’oca al passo (2006) non lasciano dubbi sul pessimismo con cui Tabucchi guarda alla situazione italiana del momento. Nella sua produzione, però, trovano spazio anche momenti di maggior introspezione come Si sta facendo sempre più tardi (2001), Tristano muore (2004) e Il tempo invecchia in fretta (2009). L’ultimo dei suoi titoli è, di nuovo, una raccolta di testi brevi, Racconti con figure, che Sellerio ha mandato in libreria lo scorso anno. Qui Tabucchi si sofferma a meditare sul rapporto strettissimo tra scrittura e pittura, tornando ad aprire quella porta sul mistero che già si era socchiusa in Sogni di sogni (1992). Con Pessoa, era convinto che la letteratura possa essere di per sé una ragionevole risposta all’irragionevolezza del mondo. Soluzione discutibile, ma che Tabucchi ha saputo perseguire con una coerenza spesso sostenuta dall’eleganza.
«Avvenire» del 27 marzo 2012

20 marzo 2012

Polibio e Panezio (Di Sacco - Serìo)

Tratto dal volume Il mondo latino, Bruno Mondadori, vol. 1, pp. 148-149
di Di Sacco e Serìo
Polibio e la superiorità politica di Roma
Il clima internazionale che si respira nell’Urbe del II secolo a.C., dove vivono ormai molti maestri ellenici, è incarnato da Polibio, uno dei maggiori storici della grecità. Polibio, che nella Lega Achea aveva ricoperto importanti incarichi politici, fu tra i mille ostaggi condotti nel 167 a. C. a Roma, dove visse a lungo, divenendo il maestro dei figli di Lucio Emilio Paolo. In particolare si legò in amicizia con uno di loro, Scipione l’Emiliano, attorno a cui si sarebbe raccolto il cosiddetto “circolo degli Scipioni”.
Nei 40 libri delle sue Storie, Polibio ricostruì le vicende della conquista romana del Mediterraneo, dalla seconda guerra punica al 144 a.C. A suo giudizio il segreto del successo di Roma consisteva nella superiorità del suo regime costituzionale: in esso si realizza intatti un inedito equilibrio fra le tre maggiori forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), corrispondenti ai poteri rispettivamente assegnati a consoli, senato e popolo; esse sono così salvaguardate dal rischio della degenerazione, che minava le altre costituzioni politiche.
L’opera di Polibio costituiva in sostanza una giustificazione storica e politica da una parte del primato dell’aristocrazia, espresso nel progetto di ‘costituzione mista’, dall’altra dell’imperialismo romano. Un ruolo preminente lo storico greco riconosceva anche alla religione romana, religione di stato, come fattore di coesione etico-sociale.

La cacciata dei filosofi greci
La diffusione delle idee e dei maestri greci a Roma e in Italia provocò l’avversione della fazione antiellena, capeggiata da Catone il Censore, che ottenne anche parziali successi. Pare che già nel 173 a. C. due filosofi epicurei, di nome Alceo e Filisco, fossero cacciati da Roma, con l’accusa di corrompere la gioventù (la stessa con cui a suo tempo Socrate era stato messo a morte, ad Atene). Con un senatoconsulto del 161 a. C. venne quindi proibito ai filosofi e ai retori greci di dimorare nell’Urbe.
Nel 155 a.C. giunse a Roma in missione politica una delegazione ateniese formata da tre filosofi, lo stoico Diogene di Seleucia, l’accademico (platonico) Carneade e il peripatetico (aristotelico) Critolao, che parlarono in senato. Poiché essi tenevano anche lezioni e conversazioni pubbliche propugnando tesi che suonavano spregiudicate e provocatorie alle orecchie dei tradizionalisti, vennero accusati di corrompere la gioventù romana e furono espulsi dalla città.

II progetto etico-politico di Panezio
Le resistenze della fazione antiellena venivano contrastate dalla fazione più avanzata dell’aristocrazia romana, incarnata dal “circolo degli Scipioni”. Per ragioni sia culturali sia politiche essa considerava l’apertura alla Grecia e all’Oriente un necessario strumento di governo e d’indirizzo per la politica romana.
Nel circolo scipionico la personalità filosofica di maggiore spicco fu quella di Panezio di Rodi, uno dei maggiori rappresentanti del cosiddetto ‘stoicismo medio’. Ospite a Roma degli Scipioni per circa un decennio, autore di un importante trattato Sul conveniente, che fornì un modello di comportamento all’aristocrazia dell’Urbe, Panezio svolse un’indispensabile opera di ‘sprovincializzazione’ della cultura romana. In particolare si adoperò per adattare la dottrina stoica all’orizzonte intellettuale e sociale dei suoi interlocutori romani; perciò approfondì le tematiche etiche, delineando una nuova idea di “umanità” (humanitas), come binomio di cultura e moralità, che rappresenta la maggiore conquista della civiltà romana di quest’epoca. “Umanità” intesa come patrimonio comune di ogni individuo capace d’intendere e di volere, diremmo oggi, e desideroso di entrare in relazione attiva con la società circostante.
Nel progetto di Panezio si ricompongono e quasi si dissolvono la distinzione libero/schiavo e le dìfferenze di razza e di estrazione geografica - è il cosmopolitismo tipico della civiltà ellenistica -, senza che peraltro risulti minacciato il privilegio politico di Roma nel mondo mediterraneo e quello dell’aristocrazia nell’Urbe: infatti il filosofo salvaguarda il senso della piramide sociale, pienamente rispondente alla mentalità romana, che ripartiva le classi e gli individui secondo una precisa scala di diritti e doveri. Anzi, Panezio formulò una teoria che giustificava il dominio romano sopra gli altri popoli, all’opposto, dunque, della requisitoria di Carneade sulla giustizia.
Nella teoria delineata dal filosofo stoico, «balena […] la prospettiva di una missione civilizzatrice di carattere universale, l’utopia filosofica degli stoici sembra acquistare concretezza e possibilità di attuazione. Le profonde idealità etiche bandite dalla più scaltrita filosofia ellenistica si congiungono al senso tutto romano e italico di virtus, elaborando una nuova dimensione umana e sociale, caratterizzata da una humanitas di cui Roma, per secoli, sarà messaggera» (A. Salvatore).
In particolare, la dottrina paneziana della megalopsykhìa (in latino magnitudo animi - “grandezza, eccellenza dell’animo”) costituiva la giustificazione teoretica della preminenza della personalità d’eccezione, dell’uomo “sapiente”, nel campo civile e politico. “Il sapiente” si faceva chiamare Scipione l’Emiliano, amico di Polibio e discepolo di Panezio. La filosofia greca si declinava così con naturalezza da un orizzonte puramente intellettuale e speculativo a uno più pratico, etico-politico, secondo la peculiare sensibilità romana, e si piegava a giustificare il ruolo preminente che nell’Urbe acquistavano i singoli individui come guida dello state e, parallelamente, la funzione di guida di tutti i popoli che Roma si era procurata con il suo impero mediterraneo.

GLOSSARIO
Polibio.
Storico greco. Nacque a Megalopoli, in Arcadia, attorno al 202 a.C.; morì nel 120 ca. Rivestì in gioventù cariche minori nella Lega delle città achee; dopo la sconfitta di Pidna (168 a. C.) fu incluso tra i mille ostaggi che la Lega dovette consegnare ai Romani. Ottenne di poter risiedere a Roma e qui visse a contatto con l’entourage degli Scipioni. Poté compiere viaggi in Spagna, in Gallia, in Africa; fu con Scipione l’Emiliano a Cartagine nel 146 a.C. Nelle sue Storie, in 40 libri, Polibio dà corpo a una storiografia “pragmatica” e politica, che ricerca, con l’appoggio delle fonti e in un disegno razionalistico di ampio respiro, le cause degli avvenimenti svoltisi tra il 220 e il 144 a. C. Dell’opera sopravvivono integri i primi cinque libri; ci rimangono inoltre estratti dei libri I-XVIII.

Panezio. Filosofo greco, vissuto all’incirca tra il 185 e il 109 a.C. Fu il principale introduttore dello stoicismo (nella versione eclettica che va sotto il nome di “media Stoa”) a Roma, dove giunse intorno al 145 a.C. e dove visse per qualche tempo in relazione d’amicizia con Gaio Lelio e con lo storico greco Polibio. Il suo trattatato Sul conveniente costituì la fonte primaria del De officiis di Cicerone. Scrisse altre opere filosofiche sulla Tranquillità dell’anima, la Politica, la Provvidenza ecc.; dei suoi scritti ci rimangono però solo frammenti. Tornato ad Atene, nel 129 a. C., successe ad Antipatro come scolarca della Stoa.

Cosmopolitismo. È la tendenza a considerare se stesso come ‘cittadino del mondo’ (dal greco kòsmos, “mondo”, e polites “cittadino”) e gli altri uomini come cittadini di un’unica patria. Furono i filosofi cinici a negare esplicitamente ogni rilievo alle divisioni tra gli stati o le razze: essi giudicavano ogni ordinamento politico come un ostacolo alla libertà dell’individuo, che per loro era il criterio assoluto da salvaguardare. In seguito il cristianesimo predicò la fratellanza universale, senza però giungere all’auspicio di abbattere le frontiere statali. L’illuminismo settecentesco affermò un’idea di cosmopolitismo fondato sul comune possesso della ragione e che vagheggiava un nuovo ordine mondiale, capace di garantire la libertà e il progresso dell’umanità.
Postato il 20 marzo 2012

Humanitas (Di Sacco - Serìo)

Tratto dal volumeIl mondo latino, Bruno Mondadori, vol. 1, p. 223
di Di Sacco e Serìo
Difficile riassumere in breve che cosa fosse per gli antichi l'uomo, che cosa l'humanitas: la mentalità greca «ogni volta che definisce qualcosa come "umano", ha presente l'opposizione col divino (perfetto)» (Klingner); in particolare Menandro dischiude lo sguardo su ciò che l'uomo può o deve essere, ma sempre con una nota di dubbio, se non di mestizia: «Che cosa piacevole è l’uomo, quando è uomo» (761 K); oppure: «Se noi tutti ci aiutassimo sempre a vicenda, a nessuno che sia uomo mancherebbe la felicità» (697 K.).
Terenzio dà al concetto un’accezione diversa. In lui risuona per la prima volta questo valore di humanitas, connesso a ciò che la dignità umana esige; homo, humanus sono termini frequenti nel suo lessico: negli Adelphoe (vv. 107, 934) ritroviamo la formula. che l'epistolario di Cicerone renderà poi proverbiale, si esses (sis) homo, «se tu fossi un uomo», cioè intelligente, sensibile come un uomo devo essere. Ogni pagina, si può dire, di Terenzio lascia trasparire questo interesse umano. Egli guarda alla condizione comune, di noi tutti; infatti per due volte nell'Hecyra riprende il testo greco di Apollodoro (10, 11 K), che diceva semplicemente «ciascuno» oppure «noi», traducendo con «noi tutti» (v. 286 e ss.; v. 380). Ancora negli Adelphoe: «Invecchiando, possiamo diventare più ragionevoli tranne che in una cosa: diventiamo tutti troppo puntigliosi, più calcolatori di quanto non s’addica a noi» (v. 832 e ss.). Qui lo scrittore latino include il prossimo, diremmo con un termine cristiano, vicino e lontano; l'eccessivo puntiglio, la meticolosità divengono in questo senso un aspetto tipico dell'uomo in assoluto.
Un secolo e più dopo Terenzio, con Cesare e soprattutto con Cicerone avremo un più largo ed esplicito uso del termine e del concetto di humanitas. Facendo tesoro in particolare della riflessione filosolica di Panezlo (che fu maestro del medio stoicismo e fece parte del circolo degli Scipioni). Cicerone identifica nell'humanitas la natura umana, distinta da quella animale e semmai affine a quella degli dèi, fondamento dell'etica e del diritto e della stessa convivenza civile; di qui il termine diverrà sinonimo di amabilità, cortesia, raffinatezza, cultura (anche nel senso di educazione letteraria: da cui humanae litterae), in una parola di civiltà, di contro alla inmanitas; avvicinandosi così ai due concetti greci della philantropía (l’amore per l'umano) e della paidéia, l'educazione al bello e al buono.

Fra l'uomo e la bestia c'è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l'uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l'uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla. [12.] Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in una comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e comunità umane, e sollecita le sue energie a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e al miglioramento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione. Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione. [13.] Ma soprattutto è propria esclusivamente dell'uomo l'accurata e laboriosa ricerca del vero. Ecco perché, quando siamo liberi dalle occupazioni e dalle ansie inevitabili della vita, allora ci prende il desiderio di vedere, di udire, d'imparare, e siamo convinti che il conoscere i segreti e le meraviglie della natura è la via necessaria per giungere alla felicità. E di qui ben si comprende come nulla sia più adatto alla natura umana di ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero (Cicerone, De officiis, I, 11-13).
L’idea di fondo, come si vede, è che l’humanitas sia in definitiva quell’elemento sostanziale che distingue l'uomo dall'animale, ciò che rende uomo l'uomo, al di là di qualunque distinzione d sesso, ceto, rango o condizione sociale.
Su questa base verrà elaborata un'etica della solidarietà umana (cioè della philantropía) che in Seneca, filosofo stoico di età neroniana, avrà uno dei sostenitori più autorevoli. Nelle Lettere a Lucilio, forse la sua opera più famosa, Seneca definisce con efficace chiarezza i caratteri di questa nuova solidarietà umana, citando, non a caso, proprio il celebre verso terenziano da cui ha preso le mosse la presente riflessione:
Ecco un altro problema, come dobbiamo comportarci con gli uomini? Che cosa dobbiamo fare? quali precetti dobbiamo dare? E che dobbiamo risparmiare il sangue umano? Che poca cosa è non nuocere a colui tu devi giovare! È davvero grande cosa se un uomo è clemente con un altro uomo. Consiglieremo di porgere la mano al naufrago, di mostrare la via al viaggiatore, di dividere il suo pane con colui che ha fame? Quando dirò tutte le cose che si devono fare e quali si devono evitare? Mentre posso brevemente trasmettergli questa formula dei doveri umani e tutto questo che vedi da cui è racchiuso ogni elemento divino ed umano, è unico e siamo membra di un grande corpo. La natura ci ha creato parenti poiché ci ha generato da quelli e in vista di quelli. Questa ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatto socievoli. Quella ha stabilito l’equità e la giustizia; sulla base delle sue norme è più misero nuocere che ricevere un'offesa: ai suoi comandi le mani siano sempre pronte ad aiutare. Quel verso sia ben radicato nel cuore e sulle labbra: "Uomo sono uomo: nulla di umano reputo estraneo a me". Teniamo presente questo: siamo nati per vivere in comune: la nostra società è molto simile ad una volta di pietre che, è destinata a cadere se non si sorreggessero a vicenda, proprio per questo è sostenuta (Seneca, Lettere a Lucilio, XV, 95, 51-53).
Postato il 20 marzo 2012

19 marzo 2012

Toglietemi tutto. Dante no

Le aberrazioni del politicamente corretto
di Alessandro D'Avenia
​Io sono lì che aspetto da anni una circolare ministeriale che mi costringa a leggere e commentare la Divina Commedia per intero – sì perché i programmi prevedono la lettura di una ventina di canti in tutto nel triennio – e dei "consulenti speciali" del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite propongono di depurare la Commedia da ciò che non è politicamente corretto. Un po’ come mettere le mutande ai personaggi della Sistina o il bikini alla Venere di Milo. Io sto a lì a lottare terzina dopo terzina, cercando di evidenziare la grandezza profetica e poetica del poema, nonostante i suoi limiti storici spesso valicati (un suicida a guardia del Purgatorio, più di un non cristiano in Paradiso...), senza bisogno di nascondere nulla, e questi mi vogliono rubare terzine. Mi vogliono togliere Giuda dal XXXIV dell’Inferno perché dicono che «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore... e giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, traditore. Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo».
A parte l’evidente e brutale semplificazione, mi sembra che anche Gesù fosse ebreo, anche Maria, anche i discepoli. Che facciamo per par condicio depuriamo anche loro? Dicono che se proprio non eliminiamo queste terzine dobbiamo almeno spiegarle come si deve, noi professori, che proprio non lo sappiamo fare: «Studiando la Divina Commedia i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un’opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». Io sono un professore, mica una SS. Chissà se chi avanza queste «purificazioni» dantesche ha mai aperto i commenti alla Commedia in uso nelle scuole, o se ha aperto anche la Commedia. Per rimanere in tema: Giuda all’Inferno è insieme a Bruto e Cassio. Giuda è punito come esemplare traditore in ambito spirituale (Cristo è fondatore della Chiesa) così come Bruto e Cassio in ambito politico (per Dante, Cesare è il primo Imperatore). Siamo infatti tra i traditori.
Qualsiasi commento serio e professore sano di mente questo lo sa e lo spiega. Non ne approfitta certo per fare apologia nazista. Io do retta piuttosto a un ebreo come George Steiner che, in apertura del suo testo più bello, Vere Presenze, afferma che «ogni discussione seria sulla natura dell’immaginazione poetica e sulle sue relazioni con l’interrogazione filosofica e la spiritualità è una postilla a Dante».
Io do retta piuttosto a un ebreo come Primo Levi che pone in esergo al suo capolavoro le parole «Considerate se questo è un uomo», dedicando poi un intero capitolo ai versi danteschi su Ulisse, che ne costituiscono l’appiglio di umanità proprio quando l’umano è del tutto naufragato. Proprio lui, in fila per un tozzo di pane, nel tentativo di ricordare versi sepolti nella memoria riesce a estraniarsi dall’inferno del lager: «Come se anch’io sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono». E sarebbe disposto a rinunciare alla zuppa, pur di saldare i lacerti di versi che ricorda appena.
Io do retta a un ebreo come David Grossman, che nel suo testo «Conoscere l’altro dall’interno», nel tentativo di capire le ragioni del nemico che gli ha ucciso il figlio in guerra, spiega che solo quando riusciamo a leggere la realtà «con gli occhi del nemico, allora quella realtà in cui noi e il nostro nemico viviamo e agiamo diventa improvvisamente più complessa, realistica; possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo». Non è "purificare" Dante che ci guarirà dall’odio e dai nostri eventuali pregiudizi, ma saranno proprio le sue terzine, spesso scomode, ad aprire il nostro sguardo «aumentando – continua Grossman – così le nostre probabilità di evitare errori fatali, e diminuendo quelle di incorrere in una visione egocentrica, chiusa e limitata». Magari solo per contrasto. Ogni ideologia tende alla chiusura, all’espunzione, all’eliminazione. Solo chi affronta tutto senza paura, anche il pensiero del presunto "nemico", può avviare una vera conciliazione. Mentre i "consulenti speciali" delle Nazioni Unite depurano Dante, io sono ancora qui che aspetto la circolare ministeriale.
«Avvenire» del 13 marzo 2012

06 marzo 2012

Invasioni barbariche

Disumane teorie bioetiche
di Gian Luigi Gigli
​L’aborto è largamente accettato per ragioni che nulla hanno a che fare con la salute del feto. Al pari del feto, il neonato non ha lo status morale di una reale persona umana. Anche il fatto che feto e neonato indiscutibilmente siano da considerarsi potenzialmente persone umane, è irrilevante dal punto di vista etico. Non sempre l’adozione è nel miglior interesse di una persona. Pertanto l’aborto dopo la nascita (cioè l’infanticidio, ossia l’uccisione di un neonato) dovrebbe essere permesso in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, inclusi i casi in cui il neonato non è portatore di disabilità.
Detto così brutalmente sembra il trailer di un film dell’orrore. Invece si tratta del riassunto fedele di un articolo apparso on line pochi giorni fa sul Journal of Medical Ethics, la prestigiosa rivista della stessa editrice del British Medical Journal.
Si va ben al di là dello stesso ignominioso Protocollo di Groningen, in base al quale dal 2002 in Olanda è permesso porre fine attivamente alla vita dei neonati con prognosi infausta che, a giudizio dei medici e dei genitori, si trovano in condizioni di «sofferenza insopportabile». Nell’articolo si afferma infatti la liceità morale anche dell’infanticidio per motivi economici, psicologici o sociali (auspicandone domani la liceità giuridica).
Non è casuale che esso sia stato pubblicato sulla rivista fondata da Tristam H. Engelhardt, il noto bioeticista che coniò la definizione di «straniero morale» per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali, dementi, comatosi, stati vegetativi, etc.) che non avrebbero titolo a essere considerati persone umane perché privi della capacità di esprimere biasimo o lode e quindi, appunto, estranei alla comunità sociale.
Non è casuale neanche il fatto che uno dei due autori dello sconvolgente articolo sia affiliato alla Monash University di Melbourne, tempio della bioetica utilitarista, eretto da Peter Singer e da Helga Khuse (colei che definì l’interruzione di nutrizione e idratazione «il cavallo di Troia» per far passare l’eutanasia).
Sconvolge semmai che i due autori, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, siano entrambi italiani. Anche Sergio Bartolommei, successore di Maurizio Mori alla cattedra di bioetica di Pisa, che gli autori ringraziano per i preziosi suggerimenti in fase di redazione, è italiano. Studiosi italiani, dunque, cittadini di un Paese in cui la giustificazione per motivi utilitaristici delle azioni umane non è considerata un’attenuante, né moralmente né giuridicamente, ma semmai un’aggravante.
Se è permesso l’aborto, perché non l’infanticidio?, si chiedono oggi i due autori. E se domani sarà permesso l’infanticidio, ci chiediamo noi, perché non permettere dopodomani anche l’eliminazione dei dementi e degli altri «stranieri morali»? Il vaso di Pandora, una volta aperto, fa uscire di tutto, giustificando le decisioni più barbare e inumane come il legittimo prevalere degli interessi di chi è persona rispetto a chi lo sarebbe solo in modo potenziale o non lo sarebbe più per le sue condizioni di malattia. Secondo questa logica: l’«interesse» della società prevale inevitabilmente su quello di ciascun essere umano.
Pochi giorni fa, parlando a Torino presso la Casa Valdese, lo stesso Engelhardt riconosceva che, prive di un fondamento divino, «tutte le morali sono socialmente e storicamente condizionate» e che, pertanto, in una cultura dopo-Dio riusciva difficilmente sostenibile l’affermazione secondo cui «tutti gli uomini sono stati creati uguali». Forse è il caso che qualcuno, anche tra chi non crede in Dio, incominci a dire basta alle invasioni barbariche, per non trovarci tutti a vivere nel crepuscolo disumano della civiltà occidentale.
«Avvenire» del 28 febbraio 2012

La vita umana è sacra per tutti (o per nessuno)

Le tesi sull'aborto post-nascita
di Rocco Buttiglione *
Bravi Alberto Giubilini e Francesca Minerva! Hanno mostrato coraggio e consequenzialità logica e hanno spiegato apertamente nell’articolo pubblicato sul Journal of Medical Ethics le conseguenze inevitabili del principio abortista. Se è lecito l’aborto per un qualunque motivo, non si vede logicamente per quale motivo non debba essere lecita, alle stesse condizioni, l’uccisione di un bambino già nato. La differenza, infatti, fra un feto all’ultimo stato (un bambino non nato) e un bambino appena nato è troppo trascurabile perché su di essa si possa basare una diversa valutazione morale e giuridica della loro soppressione. Se è lecita l’uccisione dell’uno, deve essere lecita anche alle stesse condizioni l’uccisione dell’altro. Per la verità, questa conseguenza logica del principio abortivo da tempo era stata tratta dagli antiabortisti. Essa costituisce uno degli argomenti classici con cui gli avversari dell’aborto motivavano il loro rifiuto della distruzione del feto. Il processo di trasformazione e crescita dell’essere umano non conosce uno stacco qualitativo dal concepimento fino alla morte naturale. Non esiste nessuna trasformazione improvvisa che consenta di dire: dopo la nascita il feto diventa qualcosa di sostanzialmente diverso, che deve avere diritti che prima non aveva. In realtà, non esistono nemmeno stacchi che consentano di dire: fra il feto di x settimane e quello di y settimane esiste una differenza qualitativa; oppure, fra il bambino di una settimana e quello di un mese esiste una simile differenza. In effetti, Giubilini e Minerva confermano questa conclusione rifiutando di precisare se l’infanticidio debba essere consentito fino alla fine della prima, della seconda o della quarta settimana.
Tendenzialmente il diritto di spegnere una vita che ci genera incomodo dovrebbe essere esteso a tutte le età della vita. Il diritto alla libertà di aborto si salderebbe così con il diritto alla eutanasia. L’articolo di Giubilini e Minerva è interessante (e onesto) anche da un altro punto di vista. Basta con il tentativo ipocrita di giustificare la morte di un altro con le argomentazioni ipocrite che quella vita non meriterebbe di essere vissuta. Chi decide se la vita meriti di essere vissuta o no è chi decide di dare la morte. È ben possibile che la persona che deve morire desideri vivere, specialmente se è un bambino appena nato che non ha idea di quello che noi consideriamo una vita degna di essere vissuta.
Se noi tuttavia riteniamo che la sua vita non meriti di essere vissuta, abbiamo egualmente il diritto di farlo morire. Ogni qual volta la vita di un altro ci imponga obbligazioni alle quali non vogliamo far fronte o non riteniamo di poter far fronte, la soppressione di quella vita diventa legittima. E così si apre lo spazio di un’interessante comparazione economica dei costi e dei benefici. Alla fine, se il malato costa troppo alla famiglia o alla società, perché farlo vivere ancora?
Finora questi ragionamenti li facevano solo gli antiabortisti più accaniti, e i sostenitori della «libertà di scelta della donna» che non volevano essere chiamati abortisti si ribellavano e cercavano di negare che quelle fossero le loro posizioni o che quelle fossero conseguenze logiche necessarie delle loro posizioni.
Adesso sono due giovani brillanti studiosi pro-choice (cioè pro-aborto) a sostenere con intransigente candore queste tesi. C’è da chiedersi: ci sarà una levata di scudi nel campo della bioetica pro-aborto che rigetti laicamente quelle conseguenze? E ancora: come potrà quella bioetica 'laica' rigettare quelle conseguenze senza sottoporre a revisione critica anche le proprie premesse logiche ed epistemologiche? E se alfine qualcuno trovasse il coraggio di dire, con candore e rigore logico simili a quelli di Giubilini e Minerva, ma con opposta valutazione morale: «Ci siamo sbagliati? O la vita umana è sacra per tutti o non è sacra per nessuno».
* Vicepresidente della Camera dei deputati e presidente dell’Udc
«Avvenire» del 3 marzo 2012

L'infanticidio nel deserto del nichilismo

Il cammino a ritroso di tesi inumane
di Carlo Cardia
La tesi recentemente sostenuta sul Journal of Medical Ethics, per la quale il neonato può essere soppresso come è soppresso il feto mediante l’aborto, è stata fatta conoscere su Avvenire prima con l’analisi di Gian Luigi Gigli che ha indicato alcune radici teoriche del relativismo assoluto, di cui la legittimazione dell’infanticidio è figlia; poi con la raccolta di opinioni e reazioni di scienziati e filosofi che ne hanno denunciato la gravità, l’inumanità, la via di non ritorno che segnerebbe. Credo però si debba riflettere ancora sul terreno di coltura che ha favorito l’affermazione di tesi che prima neanche affioravano nel pensiero umano (se non in segmenti di estremismo votati all’irrilevanza), e sulle loro conseguenze. Il terreno di coltura è quello proprio del nichilismo, nel quale l’uomo si trova per caso a vivere e vive seguendo il caso, perdendo coscienza della propria umanità. In questo deserto non esiste verità alcuna, che ci parli e ci interroghi, da ricercarsi con fatica e gioia, diventi criterio di comportamento che avvicina gli uomini, li rende solidali, li fa crescere insieme. Esistono solo opinioni, tante quante sono le persone, tutte burocraticamente eguali, e ogni gerarchia di valore e giudizio è azzerata. L’uomo è abbandonato a se stesso, la sua possibilità di dominio è dilatata fino a comprendervi ogni cosa, a cancellare il concetto di bene e di male, scendendo nel declivio che porta al male assoluto, da consumarsi anche nel privato. Il male è spogliato della sua tragicità, esposto come merce da prendere o lasciare, teoria da accettare o rifiutare, nel silenzio della coscienza.
Come nell’antico adagio, e corollario, del diritto di proprietà: ius utendi et abutendi. Con la specifica che oggetto d’uso e d’abuso è oggi una persona.
Guardiamo bene ciò che si colpisce a morte. Quell’amore che si presta al bambino appena nato, che è alla base dell’etica naturale e cristiana, della poesia e dell’arte più elevate cresciute nei secoli, si trasforma nel suo contrario: nell’atto terribile di genitori e adulti che possono rifiutarlo e spazzarlo via dal novero dei viventi. Queste parole hanno un suono sinistro, ma sono state pronunciate, senza provocare grandissimo scandalo, o vera ribellione come contro un’offesa all’umanità. Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere. Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo, all’arte che canta la natività in ogni forma e sfumatura, o ricorda le stragi di innocenti come infamie terminali di una società corrotta, alla gioia dei genitori di tutto il mondo quando nasce un figlio.
Si pensa al patrimonio di bellezza e amore accumulato nella cura dell’infanzia, e ci si accorge che può perdersi per ignominia o per ignavia. Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade, o di suoi epigoni. Giovanni Paolo II ha denunciato per tempo la «guerra dei potenti contro i deboli» inaugurata dal relativismo proprio nell’epoca dei diritti umani, e ha parlato di una vera «congiura contro la vita» che si va perpetrando, nel silenzio di molti. Oggi ne conosciamo un altro tassello. Benedetto XVI richiama di continuo la necessità di tornare alla Legge di Dio che gli uomini conoscono nel proprio intimo ma che viene nascosta come fosse il prodotto opinabile di un pezzetto di storia, o del pensiero umano fluttuante. Di fronte al frutto così amaro dell’infanticidio che si prospetta (ma qualcosa già si è fatto in qualche Paese) ci si deve chiedere quale possa essere lo sbocco di una china fatale che stiamo scendendo gradino dopo gradino, per tornare ai giorni del primo apparire dell’umanità sulla terra.
Se l’uomo è padrone di sé e degli altri, fino a poter sopprimere il figlio già nato, è inutile che si interroghi sul senso della vita, sulle sue finalità ultime, perché ha già risposto, ha cancellato la propria specificità, la ricerca del bene, la solidarietà con i suoi simili, si è posto come arbitro assoluto della vita. È l’ennesima riprova del fatto che il relativismo crea un deserto attorno a noi, costringe l’umanità a ricominciare daccapo, perché non v’è più spazio per i diritti umani, per la cura dei più deboli, per ogni umanesimo che voglia portare l’uomo oltre la materialità. Si è come ricaduti in quel peccato originale che aveva reso l’uomo superbo fino a sostituirsi a chi l’aveva creato. Ricominciare dalla legge eterna iscritta nella coscienza vuol dire spingere di nuovo l’uomo in avanti, elevarlo come creatura chiamata al bene, rifiutare ogni dominio sugli altri.
«Avvenire» del 6 marzo 2012