Addii
di Bianca Garavelli
Sarà Santarcangelo a tributare l’ultimo saluto a Tonino Guerra. Nella città natale il poeta si era ritrasferito di recente da Pennabilli, nella Valmarecchia, dove abitava da decenni. La camera ardente sarà allestita nella sala del Consiglio comunale di Santarcangelo (che ha proclamato lutto cittadino) domani a partire dalle 9. Sabato intorno alle 10 è prevista in piazza Ganganelli, di fronte alle finestre di casa Guerra, l’orazione funebre che dovrebbe tenere il senatore Sergio Zavoli. Poi il feretro raggiungerà Pennabilli, dove alle 15.30 si reciterà una preghiera di saluto. La moglie Lora e il figlio Andrea (musicista e noto compositore di colonne sonore per cinema e tv) stanno ancora definendo lo svolgimento delle commemorazioni funebri. (P.Guid.)
Il destino di un autore poliedrico, anche narratore e sceneggiatore, è stato quello di essere apprezzato soprattutto per la sua poesia, e da un pubblico molto più vasto di quello che di solito tocca a un poeta in Italia. Tonino Guerra si è spento pochi giorni dopo il suo 92° compleanno, festeggiato appena il 16 marzo. La poesia era per Guerra il legame indissolubile con la terra di Romagna e con la propria infanzia a Santarcangelo, povera, forse troppo negli affetti familiari, eppure sempre nel cuore radice profonda, sostegno, fonte d’ispirazione mai inaridita. È da qui che nasce la scelta di scrivere in dialetto, una variante del romagnolo particolarmente 'stretta', arcaica, ma che nelle sue mani si è rivelata duttile, adattabile alle forme più variegate: dal frammento in versi brevi al poemetto narrativo dalla metrica più articolata.
Il linguaggio dell’infanzia diventa la sofisticata lingua della poesia, acquistando assoluta dignità letteraria. Con un fondamento narrativo originario che rimane una costante: lo stesso Guerra, in una breve autobiografia comparsa in un volume del 1985 (Tonino Guerra, Maggioli), racconta di aver iniziato a scrivere versi dialettali durante la prigionia in Germania, dove era stato internato nel campo di Troisdorf dal 1943 al 1945. Qui erano tornati con forza i ricordi di un passato ancora molto vivo, perché il giovane Guerra non aveva mai lasciato la sua casa prima di allora, e inoltre era con altri prigionieri romagnoli che come lui sentivano il bisogno di ritrovare la loro identità per sopravvivere.
Uno dei primi ricordi è il motivo per cui era stato catturato dai nazisti: era tornato nella casa di Santarcangelo per portare da mangiare al gatto di famiglia, rimasto là da solo mentre i Guerra erano fuggiti. La sintonia con l’atmosfera letteraria del neorealismo è quasi una coincidenza inevitabile: il primo libro esce nel 1946, proprio quando comincia ad affermarsi la nuova narrativa del secondo dopoguerra, con la prefazione prestigiosa di Carlo Bo e con un titolo, I scarabòcc («Gli scarabocchi») che ne rivela la natura frammentaria, di schizzo improvvisato che con tratti brevi racconta storie drammatiche. Tra le molte «Italie dimenticate» del tempo conquista così un posto di rilievo la sua Romagna fatta di «povera gente» che frequenta modeste osterie e amoreggia negli androni delle grandi case coloniche, di paesaggi semplici, in cui basta però un po’ di pioggia perché tutto luccichi e risplenda come un miracolo. Il libro ottiene i giudizi lusinghieri di Pasolini e Contini, che indurrà studiosi del valore di Tullio De Mauro e Claudio Marabini a occuparsi della poesia successiva di Guerra. Che continua a scrivere e pubblicare da editori importanti, ma in prevalenza narrativa; poi dal 1953 si trasferisce a Roma, dove rimane a lungo, vivendo una fortunatissima carriera di sceneggiatore cinematografico.
Ma senza mai abbandonare la poesia, come una via parallela, un filo luminoso che collega alle origini. Un po’ come per il Pascoli che passa da Myricae ai Canti di Castelvecchio, uno dei libri successivi di Guerra, I bu («I buoi», 1972), consolida questa scrittura insieme realistica e affettiva, a tratti malinconica e onirica, riunendo le raccolte seguite alla prima: La sciupteda («La schioppettata», 1950) e Lunario (1954). Si riafferma il ritratto dell’amata Romagna, un mondo di povertà dignitosa, che di rado assume vagamente i tratti di un esercito contadino in marcia contro un nemico iniquo (come in Sa vinzèm néun, «Se vinciamo noi»). Ma campeggiano le ragioni dell’affetto, come nello splendido omaggio alla madre Penelope, quasi analfabeta e capace di privarsi di tutto per il figlio, nella poesia I sacrifeizi («I sacrifici»). La raccolta Il miele del 1981 segna il passaggio a una scrittura più distesa, fatta di versi e testi più ampi, che continua nei numerosi libri successivi, quasi tutti pubblicati da Maggioli di Rimini, nei quali domina la dimensione narrativa, che così viene del tutto assorbita nella poesia, mentre la produzione in prosa tende a cessare. Intanto, il cinema sembra allontanarsi da Guerra, che a fine anni Ottanta torna in Romagna con la seconda moglie, la russa Eleonora Kreindlina, Lora, che gli è rimasta accanto fino alla fine, dapprima a Pennabilli e negli ultimi tempi a Santarcangelo. Scegliendo di nuovo la linea arcaica delle origini amate, dell’infanzia ritrovata.
Il destino di un autore poliedrico, anche narratore e sceneggiatore, è stato quello di essere apprezzato soprattutto per la sua poesia, e da un pubblico molto più vasto di quello che di solito tocca a un poeta in Italia. Tonino Guerra si è spento pochi giorni dopo il suo 92° compleanno, festeggiato appena il 16 marzo. La poesia era per Guerra il legame indissolubile con la terra di Romagna e con la propria infanzia a Santarcangelo, povera, forse troppo negli affetti familiari, eppure sempre nel cuore radice profonda, sostegno, fonte d’ispirazione mai inaridita. È da qui che nasce la scelta di scrivere in dialetto, una variante del romagnolo particolarmente 'stretta', arcaica, ma che nelle sue mani si è rivelata duttile, adattabile alle forme più variegate: dal frammento in versi brevi al poemetto narrativo dalla metrica più articolata.
Il linguaggio dell’infanzia diventa la sofisticata lingua della poesia, acquistando assoluta dignità letteraria. Con un fondamento narrativo originario che rimane una costante: lo stesso Guerra, in una breve autobiografia comparsa in un volume del 1985 (Tonino Guerra, Maggioli), racconta di aver iniziato a scrivere versi dialettali durante la prigionia in Germania, dove era stato internato nel campo di Troisdorf dal 1943 al 1945. Qui erano tornati con forza i ricordi di un passato ancora molto vivo, perché il giovane Guerra non aveva mai lasciato la sua casa prima di allora, e inoltre era con altri prigionieri romagnoli che come lui sentivano il bisogno di ritrovare la loro identità per sopravvivere.
Uno dei primi ricordi è il motivo per cui era stato catturato dai nazisti: era tornato nella casa di Santarcangelo per portare da mangiare al gatto di famiglia, rimasto là da solo mentre i Guerra erano fuggiti. La sintonia con l’atmosfera letteraria del neorealismo è quasi una coincidenza inevitabile: il primo libro esce nel 1946, proprio quando comincia ad affermarsi la nuova narrativa del secondo dopoguerra, con la prefazione prestigiosa di Carlo Bo e con un titolo, I scarabòcc («Gli scarabocchi») che ne rivela la natura frammentaria, di schizzo improvvisato che con tratti brevi racconta storie drammatiche. Tra le molte «Italie dimenticate» del tempo conquista così un posto di rilievo la sua Romagna fatta di «povera gente» che frequenta modeste osterie e amoreggia negli androni delle grandi case coloniche, di paesaggi semplici, in cui basta però un po’ di pioggia perché tutto luccichi e risplenda come un miracolo. Il libro ottiene i giudizi lusinghieri di Pasolini e Contini, che indurrà studiosi del valore di Tullio De Mauro e Claudio Marabini a occuparsi della poesia successiva di Guerra. Che continua a scrivere e pubblicare da editori importanti, ma in prevalenza narrativa; poi dal 1953 si trasferisce a Roma, dove rimane a lungo, vivendo una fortunatissima carriera di sceneggiatore cinematografico.
Ma senza mai abbandonare la poesia, come una via parallela, un filo luminoso che collega alle origini. Un po’ come per il Pascoli che passa da Myricae ai Canti di Castelvecchio, uno dei libri successivi di Guerra, I bu («I buoi», 1972), consolida questa scrittura insieme realistica e affettiva, a tratti malinconica e onirica, riunendo le raccolte seguite alla prima: La sciupteda («La schioppettata», 1950) e Lunario (1954). Si riafferma il ritratto dell’amata Romagna, un mondo di povertà dignitosa, che di rado assume vagamente i tratti di un esercito contadino in marcia contro un nemico iniquo (come in Sa vinzèm néun, «Se vinciamo noi»). Ma campeggiano le ragioni dell’affetto, come nello splendido omaggio alla madre Penelope, quasi analfabeta e capace di privarsi di tutto per il figlio, nella poesia I sacrifeizi («I sacrifici»). La raccolta Il miele del 1981 segna il passaggio a una scrittura più distesa, fatta di versi e testi più ampi, che continua nei numerosi libri successivi, quasi tutti pubblicati da Maggioli di Rimini, nei quali domina la dimensione narrativa, che così viene del tutto assorbita nella poesia, mentre la produzione in prosa tende a cessare. Intanto, il cinema sembra allontanarsi da Guerra, che a fine anni Ottanta torna in Romagna con la seconda moglie, la russa Eleonora Kreindlina, Lora, che gli è rimasta accanto fino alla fine, dapprima a Pennabilli e negli ultimi tempi a Santarcangelo. Scegliendo di nuovo la linea arcaica delle origini amate, dell’infanzia ritrovata.
«Avvenire» del 22 marzo 2012