24 ottobre 2019

L’unica legge diventa quello del più forte

di Pierluigi Battista
Se il giudice avesse detto: non costituisce diffamazione dare su Twitter del «pallone gonfiato», per di più «irrispettoso della vita delle persone e degli animali» e persino dell’«idiota» a due personaggi pubblici come Fedez e Chiara Ferragni, allora non ci sarebbe notizia. Invece ha aggiunto che nel caos della Rete ogni giudizio o pregiudizio è equiparato a una miriade di giudizi e pregiudizi che, postati e frullati in un affastellamento di messaggi senza autorevolezza e senza rigore, non sono sottoposti allo stesso regime di rigore che si pretende siano applicati in strumenti comunicativi meno confusionari, a cominciare dai giornali. Il che da una parte è vero, perché i social network nel loro insieme formano un’insalata indigeribile di ingredienti improbabili in cui ciascuno si sente il diritto di sparare sentenze a vanvera. Dall’altro è pericoloso dedurne che un territorio senza rigore e coerenza possa proprio per questo diventare anche senza legge. Al di là dei singoli casi, in cui può esserci o meno diffamazione e questo lo può legittimamente decidere un giudice, il rischio è la motivazione che nella Rete non ci sia nulla da fare e perciò da sanzionare. Il rischio che senza il rispetto di una qualsiasi norma, chiunque può dire qualunque cosa godendo di un diritto di immunità che non esiste in un altro settore della comunicazione. Un territorio in cui l’unica legge diventa la legge del più forte, di chi urla di più, di chi ha più seguaci che fanno coro attorno a un’affermazione che non può essere più giudicata con gli strumenti del diritto, che saranno pure inadeguati e obsoleti ma almeno possono porre un freno all’arbitrio più sregolato. E dato che l’invasività della Rete è destinata a intensificarsi, regalare l’impressione dell’assoluta sregolatezza potrò diventare persino un incentivo. Tanto, a quali conseguenze si può andare incontro?
«Corriere della sera» del 23 ottobre 2019

Fedez-Martani e l'eterna lotta della diffamazione sui social network

La procura di Roma chiede l'archiviazione per la querela sporta dal rapper verso l'ex concorrente del GF per un tweet sul party al supermercato. Oltre il caso, sono le motivazioni a dare da riflettere
di Simone Cosimi
Ci risiamo. Insulti e offese sui social network sono più o meno gravi di quelli espressi di persona o in cerchie sociali ristrette? Per molti la sterminata platea digitale (effettiva o potenziale) è un’aggravante dell’eventuale diffamazione o delle ingiurie, che sono state depenalizzate dal 2016. Per altri, a quanto pare, è la credibilità di quegli ambienti a dover essere considerata per prima, al di là del seguito dei protagonisti. Lo sostiene la procura di Roma che ha chiesto l’archiviazione di una querela che il rapper Fedez aveva sporto contro Daniela Martani, ex concorrente del Grande Fratello 2009.
In occasione della festa a sorpresa in un supermercato di Milano organizzata dalla moglie Chiara Ferragni, debitamente documentata sui social dai protagonisti e dagli invitati con pesanti strascichi polemici per l’atteggiamento sprezzante nei confronti dei prodotti, molti dei quali andati sprecati, Martani scrisse un anno fa su Twitter il seguente post: “Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali. Per far parlare di loro non sanno più cosa inventarsi. Fare una festa a casa era troppo normale altrimenti chi glieli mette i like”. Fedez, all’anagrafe Federico Leonardo Lucia, presentò querela. Oggi, appunto, la richiesta di archiviazione. Che comunque è solo una richiesta: i legali del cantante si sono opposti in virtù del fatto che “la diffusione di un messaggio diffamatorio” su Facebook, Twitter o Instagram, proprio perché può raggiungere un numero enorme di utenti, “integra un’ipotesi di diffamazione aggravata”.
L’ex assistente di volo di Alitalia è tornata sul punto questa mattina, sempre via Twitter: “Gli sono arrivato (sic) milioni di insulti, invece di spargersi cenere sul capo per quello che fecero nel supermercato tirandosi addosso frutta e verdura, #Fedez e #ChiaraFerragni mi avevano denunciata. Beh gli è andata male. Il PM ha chiesto l’archiviazione”. Dal punto di vista del gesto, e in fondo anche della presunta diffamazione, si è in fondo visto e letto di peggio: il grottesco party al supermarket fu in effetti uno dei momenti di massimo scollamento dei re Mida del Like dalla realtà di milioni di persone (ma si scusarono) e l’osservazione di Martani, per quello che siamo abituati a ingoiare sulle piattaforme, perfino moderata.
Tuttavia il punto è un altro, e chiaramente si lancia oltre questa storia. Che forse potrà segnare un precedente interessante e anche se si tratta solo di una richiesta di archiviazione segnala evidentemente un certo orientamento dei giudici inquirenti. L’idea, cioè, che le piattaforme social, in virtù di una “scarsa considerazione e credibilità” non siano “idonee a ledere la reputazione altrui”. Una tesi piuttosto complessa da sostenere, in una società che vive sempre di più il confronto con la realtà digitale che si sovrappone a quella fisica e delle conseguenze, spesso drammatiche, della prima sulla seconda.
I pubblici ministeri, per giunta in presenza di due star dei social, sostengono dunque che una certa sfera di confronto, in questo caso quella delle piattaforme sociali, non valga granché. E che quindi in fondo la gravità di quanto vi accade, possibili diffamazioni incluse o fatti di altro genere, sia da considerarsi inferiore rispetto a come sarebbe valutata se fosse successo altrove. Lo decidono loro, o meglio questa la loro proposta per l’archiviazione. Così, almeno, pare di capire dalle cronache.
Secondo i legali di Fedez – contro cui Martani, animalista convinta, si è scagliata per esempio quando il rapper e la moglie hanno indossato pellicce naturali – la questione è del tutto opposta: proprio perché un numero enorme di persone li frequenta l’offesa è molto grave. Altrimenti si corre il rischio di trasformarli “in una vera e propria zona franca in cui tutto e concesso”. Il quadro è mutato, dalle mobilitazioni dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini contro gli hater fino a iniziative come la campagna #odiareticosta, la consapevolezza di come quel che si scrive e si fa online non possa essere giudicato in modo differente rispetto alla sfera offline è senz’altro aumentata. E se il caso specifico è ricco di sfumature sulle quali ovviamente non sta a noi entrare, certo la valutazione di fondo della richiesta di archiviazione rischierebbe di dilapidare quei pochi passi avanti che siamo riusciti a fare i termini di cittadinanza digitale.
La procura scrive infatti al gip che “sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali, avverta la necessità immediata di sfogare la propria rabbia e frustrazione, scrivendo fuori da qualsiasi controllo qualunque cosa, anche con termini scurrili e denigratori che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività”. A parte che è una rappresentazione parziale di quegli ecosistemi, inquadrati come dei porcili senza senso dei quali lo Stato di diritto può eventualmente fregarsene. Ma chi decide in che misura quelle frasi rimangano davvero in astratto e se davvero possano considerarsi prive di offensività, quando lette, rilanciate e spesso sfruttate per costruire ulteriori attacchi da centinaia se non migliaia di utenti?

22 ottobre 2019

K. tra rinuncia e partenza

di Alessandro D'Avenia
«Era di mattina molto presto, le strade pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che già era molto più tardi di quanto avessi creduto, dovevo affrettarmi, l’ansia per quella scoperta mi fece incerto della strada, non conoscevo ancora bene quella città; per fortuna lì vicino c’era una guardia, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”. “Sì”, dissi, “perché non riesco a trovarla da me”. “Rinuncia, rinuncia!”, disse e si girò bruscamente, come chi vuole essere solo con la propria risata». Avevo 17 anni quando Franz Kafka mi fece scoprire che la realtà è una metafora della grande narrativa e non viceversa. Il brevissimo racconto s’intitola Rinuncia e mi è tornato in mente leggendo, sulle pagine di questo giornale, la recente intervista a Umberto Galimberti che denuncia: «i ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca». Personalmente vedo anche altri ragazzi, statisticamente meno numerosi o rappresentati, ma non per questo meno rilevanti, e sono altresì convinto che il dolore dell’insignificanza sia una risorsa educativa e non un capolinea, ma: «Nessuno li convoca». Perché? Manca la chiamata, l’assenza di scopo infatti riguarda chi lo scopo dovrebbe mostrarlo, gli educatori: «Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista — prosegue Galimberti — i problemi erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso». Nichilismo e individualismo sono, oggi, la Grande Rinuncia alla vita.
Il vuoto di senso ha i suoi guardiani, come racconta Kafka: essi non dicono che non ci sia una strada, ma scherniscono chi la cerca, voltandosi dall’altra parte, con una risata. Sono coloro che, a vario titolo, annichiliscono (la radice è la stessa di nichilismo) le vite loro affidate. In qualsiasi ambito (politico, economico, professionale, educativo...), i burocrati della Rinuncia non spingono ma spengono la vita: attorno a loro fioriscono censura, invidia, calunnia, disunione, sospetto, paura, menzogna, sotterfugio, sopruso, violenza... La loro risata «di spalle» suona a scherno, ma tradisce la paura di essere smascherati, perché la chiamata a cui hanno rinunciato non viene meno: una voce sussurra dentro di noi e, nel nostro cuore, se non siamo già vittime della Rinuncia o addirittura agenti della sua Burocrazia, cova sempre un po’ dell’ardore dell’Ulisse dantesco. Lo rappresenta lo stesso Kafka in un altro micro-racconto: Partenza. Scritto nello stesso anno di Rinuncia (1922), ne è l’altra faccia: «Ordinai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì. Andai io stesso nella stalla, sellai il mio cavallo e vi montai. In lontananza sentii suonare una tromba, chiesi al servo che cosa volesse dire. Egli non lo sapeva e non aveva sentito niente. Presso il portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove vai?”. “Non lo so - dissi - solo via di qua, solo via di qua. Sempre via di qua, solo così posso raggiungere la mia meta”. “Conosci allora la tua meta?”, chiese. “Sì - risposi - Te l’ho detto: ‘Via-di-qua’. Ecco la mia meta”. “Non hai viveri con te”, disse. “Io non ne ho bisogno - dissi - il viaggio è così lungo, che dovrò morire di fame, se non ricevo nulla sulla via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente immenso (ungeheure)”». Il finale sembra paradossale, ma paradossali sono le verità essenziali dell’arte di vivere.
La meta del viaggio è Via-di-qua: via dalla rinuncia al senso della vita. La Partenza è il primo atto di ribellione necessario contro la Rinuncia, perché chi rinuncia si trova, prima o poi, senza vita o addirittura contro la vita. Chi è vicino a noi non capirà: solo noi abbiamo sentito il suono della convocazione. Siamo noi a decidere e niente di quello che ci hanno dato finora può «salvarci», perché il cammino è lungo quanto tutta la nostra anima, sulla cui irripetibile via non ci si può nutrire di nessun’altra provvista se non quella che vi si trova o vi si riceve, perché solo la ricerca di senso rende il senso già presente. Possiamo certo ignorare la chiamata, ma si ripresenterà, con il passare del tempo, più forte e dolorosa, quanto più vicina sarà l’ultima chiamata, quella per cui la Partenza sarà inevitabile. Cacciamo via i guardiani, interni o esterni, dell’assenza di scopo. Andiamo Via-da-qua, via dall’ultimo banco della vita: la Rinuncia. È l’ora della Partenza. Il viaggio sarà (Kafka usa ungeheur, parola tedesca bellissima per estensione di significato e centrale nella sua creazione artistica): enorme, tremendo, spaventoso, immenso, straordinario, incredibile. Proprio come la vita.
«Corriere della sera» del 23 settembre 2019

Umberto Galimberti: «A 18 anni via da casa, serve servizio civile di 12 mesi»

Confessioni
di Stefano Lorenzetto
Il filosofo psicoanalista: «La tecnica domina, la politica non decide, i giovani consumano e basta». La riflessione: «Stop all’adolescenza perenne. È finita l’idea di bene comune»


Filosofo. Antropologo. Psicologo. Psicoanalista. Sociologo. Dal professor Umberto Galimberti ti aspetteresti un eloquio iniziatico all’altezza delle materie che ha insegnato, compendiate nelle 1.637 pagine del Nuovo dizionario di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Feltrinelli), alla cui stesura ha faticato per 15 anni. Invece parla ancora come «il numero 8» — si definisce così — dei 10 figli di Ernesto, ex partigiano, venditore di cioccolato Theobroma improvvisatosi impiegato bancario, che in un paio di locali aprì a Biassono la prima agenzia del Credito artigiano e morì di tumore il giorno dell’inaugurazione. «Da bambino andavo in ufficio ad aiutarlo: mi faceva timbrare gli assegni. Avevo 14 anni quando mancò. Sognavo di diventare medico. Ma due borse di studio mi spalancarono le porte di Filosofia alla Cattolica di Milano. Lì trovai i miei maestri: Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Righi ed Emanuele Severino, con il quale mi laureai. C’erano anche Gianfranco Miglio e Francesco Alberoni. Poi lavorai per tre anni nel manicomio di Novara, dove conobbi il primario Eugenio Borgna. Fui io a obbligarlo a scrivere, prima non lo conosceva nessuno. Li sento ancora, Severino e Borgna. Ci vogliamo molto bene. Non ho mai capito il parricidio».

Fortunato ad avere dei padri così.
«Aggiunga Karl Jaspers, che frequentai a Basilea e che mi avviò alla psicopatologia. E Mario Trevi, con cui feci il percorso psicoanalitico. Oggi l’analisi non è più possibile. L’ultimo che ho accompagnato per cinque anni è stato il regista Luca Ronconi. Ma solo perché lì c’era un uomo. Capace di riflettere, incuriosito dalla sua vita».

Eppure qui nello studio vedo che c’è ancora il lettino dello psicoanalista.
«Non ho mai smesso di ricevere. La gente mi chiede di risolvergli i problemi. Invece la psicoanalisi è conoscenza di sé: sapere chi sei è meglio che vivere a tua insaputa. Quanto al dolore, non lo puoi cancellare con i farmaci».

L’angoscia più frequente qual è?
«Quella provocata dal nichilismo. I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca. Non potendo fare nulla, erodono la ricchezza accumulata dai padri e dai nonni».

Stanno male anche i genitori?
«Eccome. Senza che lo sappiano, non sono più autori delle loro azioni. Nell’età della tecnica sono diventati funzionari di apparato. Vengono misurati solo dal grado di efficienza e produttività. Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».

La mia è la prima generazione che consegna ai suoi figli un futuro ben peggiore di quello lasciatoci in eredità dai nostri padri, spesso nullatenenti.
«Fino a 37 anni ho insegnato storia e filosofia nei licei. Guadagnavo 110.000 lire al mese. Un appartamento ne costava 75.000 al metro quadro. In famiglia abbiamo tutti studiato. Le mie cinque sorelle frequentavano l’università e intanto facevano le colf. Oggi mi tocca aiutare la mia unica figlia, che ha tre bambini».

Ai figli dei nostri figli che accadrà?

«Non riesco a vedere il loro futuro. Il domani non è più prevedibile. La tecnica ha assoggettato il mondo. Scambia lo sviluppo per progresso. È regolata da una razionalità rigorosissima, raggiunge il massimo degli obiettivi con il minimo dei mezzi e mette l’uomo fuori dalla storia. Ma l’amore non è razionalità, e neppure il dolore, la fede, il sogno, l’ideazione lo sono».

Il destino dei giovani dovrebbe essere in cima all’agenda del governo?

«Certo. Ma la politica non è più il luogo della decisione. Ha delegato le scelte all’economia, e l’economia alla tecnica. È finita l’idea di bene comune che c’era negli anni Cinquanta. Rimane solo quella della poltrona. Non vi è alcun dubbio che i 5 Stelle stanno al governo solo per non tornare a fare i disoccupati e i leghisti volevano votare per avere la maggioranza assoluta e instaurare il sovranismo al soldo di Vladimir Putin».

Forse spariranno i nipoti: solo il Giappone procrea meno dell’Italia.
«Colpa dell’edonismo sfrenato: i figli lo ostacolano. Siamo il popolo più debole della terra. Per mangiare, apriamo il frigo anziché sudare nei campi. Ci difendiamo dal resto del mondo con il colonialismo economico, che ha sostituito quello territoriale. L’impero romano cadde così, fra postriboli e spettacoli circensi. Non lavorava più nessuno. Dovette importare i barbari per fare le guerre e le opere idrauliche. Un tempo pensavo che le civiltà finissero per cause economiche. Ora invece sono certo che muoiono per decadenza dei costumi».

Mi pare che gli italiani lavorino.
«Ho parlato alla Confartigianato di Vicenza. I padri si lamentavano perché i figli non vogliono saperne di portare avanti le loro aziende. Per forza, quando compiono 18 anni gli regalano la Porsche! Si è mai chiesto perché, su 5 milioni d’immigrati, 500.000 siano imprenditori? Vedo negli africani una potenza biologica che noi abbiamo perso».

Questo tempo di pace è segnato da rivolte di piazza, guerriglie negli stadi, aggressività. Che la guerra fosse un grande evento regolatore?
«Lo è sempre stato. Nell’Ottocento ci furono tre guerre d’indipendenza, nel Novecento due guerre mondiali. Siamo ormai alla terza generazione che non ha conosciuto questo male assoluto. Ma non vi è dubbio che periodi prolungati di pace inducono a una lassitudine nei comportamenti. Le sofferenze psicologiche hanno soppiantato quelle fisiche, come potevano essere la fame e le malattie. Quanta gente c’è in giro che se la mena senza un perché? Spesso sono costretto a dire ai miei pazienti: ma scusi, questi sono problemi, secondo lei?».

Ha un suggerimento per uscirne?
«Un rito iniziatico che interrompa l’adolescenza perenne: a 18 anni servizio civile per 12 mesi, ma a 1.000 chilometri da casa. Bisogna separare i figli da padri e madri. E cacciare dalla scuola i genitori, interessati più alla promozione che alla formazione. Tullio De Mauro nel 1976 calcolò che un ginnasiale conosceva 1.600 vocaboli. Oggi sono 600. Il più volgare, “c...”, viene usato per dire tutto. L’Italia è ultima nella comprensione di un testo, certifica l’Ocse. Ma non puoi avere più pensieri di quante parole possiedi, insegnava Martin Heidegger».

Sono i malesseri del benessere.
«Il denaro è diventato l’unico generatore simbolico di valori. Non sappiamo più che cosa è bello, vero, giusto, santo. Pensiamo solo a che cosa è utile. Ho visto salire una ragazza con un’arpa sul treno Milano-Venezia. Un signore distinto ha cominciato a porle domande. Alla fine l’ha raggelata: “Scusi, signorina, ma qual è il suo business?”».

Per questo costruiamo solo «cristogrill» al posto delle cattedrali?
«Padre David Maria Turoldo celebrò le mie nozze. Sosteneva che le chiese oggi sono ridotte a garage in cui è parcheggiato Dio. Ma la gente per credere ha bisogno della liturgia, del canto, dell’organo, dell’incenso. L’ho detto anche a papa Francesco. E ho aggiunto: Santità, lei ha messo le persone davanti ai princìpi, però ha un polmone solo, lavora come un pazzo, è pieno di nemici; stia attento a non morire, altrimenti dopo ne eleggono uno che rimette i princìpi davanti alle persone. Lui ha riso e mi ha abbracciato, sussurrando: “Si ricordi che Dio salva le persone, non i princìpi”».

Il cardinale Gianfranco Ravasi, suo compagno di liceo, l’ha convertita?
«No, io resto greco. Non mi colloco neppure fra i laici, i quali sono credenti in un’altra maniera. Per me la morte è una cosa seria, mentre i cristiani pensano che dopo vi sia la vita eterna».

Tuttavia sul cristianesimo ha scritto un saggio.
«È diventato la religione del cielo vuoto, ha completamente smarrito il senso del sacro, e questo mi procura tanta rabbia. La dimensione religiosa è essenziale nell’uomo. Perché negare che la fede offra conforto a tante persone?».

Ha sofferto per le accuse di plagio che le hanno mosso in passato?
«Ho copiato solo da me stesso, mai dagli altri. Recensendo un libro sui giornali, talvolta inserivo due righe dell’autore che mi sembravano efficaci, senza virgolettarle, anche perché non le riportavo integralmente. Quando questi articoli sono stati raccolti in un volume, ho messo le virgolette nei soli casi in cui riuscivo a reperire la citazione: un mio errore, che però non mi era mai stato contestato fintantoché la recensione appariva sulla stampa. Montare su questi elementi una campagna denigratoria non mi pare ancora oggi un’operazione innocente, come peraltro documenta una tesi di laurea sul mio caso discussa nel 2018 all’Università dell’Insubria».

In che cosa spera?
«In niente. La speranza è una virtù cristiana».

Stava meglio quando stava peggio?
«No, da giovane rischiavo di saltare i pasti. Ma oggi la tecnica ha come unica finalità il proprio autopotenziamento e viaggia a una velocità tale che la psiche proprio non ce la fa a tenerle dietro. È lenta, la psiche».

Il senso dell’esistere qual è? Se c’è.
«Lo devo cercare nell’etica del limite, in quella che i greci chiamavano la giusta misura».
«Corriere della sera» del 13 settembre 2019

La notte di Francesco

di Alessandro D'Avenia
«O mio fratello fuoco, l’Altissimo ti ha creato splendido fra tutte le creature, forte, bello e utile. Sii buono con me e gentile. Io prego il Signore che t’ha creato, perché moderi il tuo calore. Così tu brucerai dolcemente e io potrò sopportarti». Sono le parole di Francesco d’Assisi quando il medico, con un ferro arroventato, sta per cauterizzargli la tempia come rimedio per curare la sua malattia agli occhi. Francesco dava del tu a ogni cosa, per lui non esisteva la «natura» come entità astratta ma quest’albero, non l'«umanità» ma quest’uomo, non si prendeva cura del mondo ma delle circo-stanze (ciò che sta attorno), perché in ogni cosa vedeva la luce dell’esserci: il fuoco è questo fuoco, figlio dello stesso Padre, e quindi fratello. Grazie a questo guardare negli occhi ogni cosa e ogni persona, nel 1224 comincia la nostra letteratura con il Cantico delle creature. Ridotto spesso a ode sentimental-panteistico-ambientalista, è invece un inno scritto in un nascente italiano letterario dopo una notte di tormento, proprio a causa del dolore agli occhi, e infatti, nella (spesso dimenticata) seconda parte, Francesco loda Dio per coloro che «sostengono infirmitate e tribulatione in pace», cioè chi vive crisi e difficoltà in una misteriosa pace con se stesso: qualcosa che tutti noi vorremmo saper fare. Ma come possono mai il dolore e le crisi trasformarsi in canto e bellezza?
L’alba portò, insieme alla luce, i 33 versi (gli anni di Cristo) del Cantico, scritto sul modello dei salmi biblici. Poesia è dire-bene le cose, e Francesco le bene-dice tutte: come un cieco che torna a vedere, egli è così felice della loro ritrovata compagnia, dopo quella notte di dolore, che vuole ringraziare Dio con e per «tutte le creature» (v.5). La nostra letteratura comincia bene-dicendo, all’opposto del cieco quotidiano dire-male di cose e persone, a male-dirle di continuo. Per Francesco tutte le cose, essendo create da Dio, sono consanguinee: da fratello sole a sorella terra, passando per luna, stelle, vento, aria, cielo, acqua e fuoco. In questi elementi, nella prima parte, e nell’uomo, nella seconda, egli riconosce i tratti di un Creatore che è tale perché è Padre. Per lui ogni cosa è creatura, parola composta da creo (da cui cresco) e un suffisso latino che indica un’azione che sta per accadere: la creatura non è «creata» una volta per tutte, ma «sta per esserlo», continuamente e in ogni istante. Francesco vede la continua creazione-crescita operata da Dio in ogni cosa e prende parte allo spettacolo. A me succede con l’appello, il mio cantico delle creature: imparo a dare del tu a nomi e volti, e a gioirne. Dal Cantico ho imparato che chi loda non odia, chi stima ama. Quand’è l’ultima volta che avete detto «grazie perché ci sei» con tre aggettivi, come fa Francesco: l’acqua è preziosa, umile e casta; le stelle luminose, preziose e belle? Non è un esercizio facile, richiede coraggio: ha il coraggio di bene-dire cose e persone solo chi ha il coraggio di riceverle come sono e di impegnarsi per come saranno. Quest’apertura a ogni cosa significa soprattutto disponibilità a fare la propria parte nella loro creazione-crescita, cioè ad amare. Francesco riesce così a trasformare tutto, persino il dolore, perché ne accetta il potenziale creativo-accrescitivo: alla sofferenza cerchiamo sempre una causa, un colpevole, per diminuirne il morso. Eppure il segreto (cioè ciò che secerne, il succo) del dolore non è nel passato ma nel futuro, è una storia ancora da scrivere, che «in-vita», spinge ad aprirsi alla vita con occhi nuovi. Francesco chiama «sorella» persino la morte: voglio conoscere il segreto di chi è così libero da bene-dire anche la male-detta per eccellenza, di chi nell’estremo limite non vede il muro ma una soglia, non il capolinea ma un transito. Il Cantico muta la ferita in feritoia per far entrare più vita: quella che sgorga proprio dalle crisi, quando, con le mani aperte della resa, riceviamo ciò che a pugni chiusi non riuscivamo ad afferrare da soli.
Il Cantico inaugura la letteratura italiana inventando e cucendo, nella lingua che ci fa da madre, parole che liberano cuore e mente dalla male-dizione, e rendono la vita più bene-detta. Lo sguardo di Francesco è poetico e profetico, crea e fa crescere: come accade in amore. Egli guarda ogni cosa negli occhi e gli riconosce la sua originaria e originale bellezza, perché lodare significa «ri-conoscere», conoscere qualcosa, ogni volta, «di nuovo» e «come nuovo»: chi loda è «in-novativo» e «ri-conoscente», ha e dà gioia. All’ultimo banco della vita non si guarda negli occhi e si male-dice tutto, al primo si dà invece del tu a ogni cosa, ricevendone il valore più o meno compiuto: anzi se è incompiuto ci si sente impegnati a portarlo verso il compimento, costi quel che costi. Rileggere il Cantico guarisce dalla cecità, facendo del semplice fatto di vivere un’arte e un’irripetibile avventura.
«Corriere della sera» del 14 ottobre 2019