Risposta a Pamuk su letteratura e impegno
di Claudio Magris
I poeti - anche e soprattutto i più grandi come Omero e i tragici, che egli stesso tanto amava - vengono esclusi da Platone, in un famoso capitolo della Repubblica, dal suo Stato ideale e dalla formazione spirituale dell’ideale cittadino di questo utopico Stato. Solo la poesia «dorica» viene ammessa, l’arte severa che chiama alla virtù e se necessario alla battaglia, che forgia la moralità e i valori patriottici, sociali e civili; con terminologia odierna, potremmo dire che è permessa solo la letteratura impegnata. Questa sentenza platonica è inaccettabile ed egli, autore fra l’altro anche di tragedie sia pur da lui distrutte, lo sapeva meglio di ogni altro, tanto da celebrare nello Jone la poesia quale divina mania, ispirazione che ha solo in se stessa, negli abissi e nei voli della fantasia e del sentimento, la propria sorgente e il proprio senso. Quell’espulsione platonica dei poeti dalla Repubblica è ovviamente inaccettabile, perché significherebbe totalitarismo, potere assoluto di uno Stato che non tollera espressioni difformi dal suo modello di valori e fa violenza all’individuo e al suo diritto alla diversità. Ma per respingere la condanna platonica è necessario fare i conti a fondo con essa e con la sua verità pur pericolosa e distorta, ignorando la quale è impossibile rendere giustizia alla letteratura, cogliere la sua seduzione e la sua ambiguità e dunque il significato che essa ha per la vita degli uomini, siano essi responsabili cittadini, randagi clandestini o naufraghi dell’esistenza in balia dei propri demoni e delle proprie follie. La letteratura - ha scritto qualche giorno fa Orhan Pamuk sul Corriere, polemizzando con la politicizzazione dell’arte - non è giudizio morale bensì identificazione con un personaggio, col suo modo di essere (generoso o malvagio), con la sua fede, la sua passione, la sua violenza o il suo delirio. La letteratura non giudica né dà voti di condotta alla vita, che scorre al di là o al di qua del bene e del male; se rappresenta una rosa, sa - come diceva un gesuita e grande poeta mistico tedesco del Seicento, Angelus Silesius - che la rosa non ha perché e fiorisce perché fiorisce. Ma identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano. Narrare l’esistenza di un trafficante di organi che li fa strappare ai bambini delle favelas comporta - per uno scrittore autentico, che non è un moralista - una certa identificazione, che a sua volta è sconcertante. Se l’arte è bellezza, quest’ultima non sempre è, come secondo Platone dovrebbe essere, l’apparizione del Bene e del Vero. Platone teme che l’arte, proprio perché deve prescindere da giudizi morali, possa rendersi complice dell’ingiustizia e delle violenze che regnano nel mondo; intuisce che l’individuo, dando voce ai propri sentimenti, finisce spesso per civettare col proprio egoismo, per mimare compiaciuto le miserie, le contraddizioni e talora la banalità del suo stato d’animo e per idolatrare la perfezione della sua opera a scapito dell’umano: se rappresenta commosso un incendio, un poeta rischia di commuoversi più per le mirabili rime in cui descrive le vittime tra le fiamme che per le sofferenze reali di quelle vittime.
I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi - dice un verso di Milosz, grande poeta - hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi. La cosiddetta letteratura impegnata ritiene invece che il suo compito sia anche - per taluni soprattutto - quello di portar aiuto alle vittime di quell’incendio, di contribuire a cambiare il mondo e non solo di rappresentarlo. Un impegno morale e dunque inevitabilmente politico, in quanto la politica è (o dovrebbe essere) la necessaria capacità di vedere - e lenire - non solo il bisogno del singolo individuo che conosciamo e che ci è caro, ma pure quello di tanti altri individui, a noi personalmente ignoti, che si trovano in condizioni analoghe e che sono cari ad altri, né più né meno importanti di noi. Un’opera letteraria, anche se nasce da un’irripetibile situazione individuale, si rivolge a tutti e dunque, se ha un messaggio morale, quest’ultimo diviene pure politico, perché entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della polis, della comunità. La democrazia, così schernita quale astrazione ideologica dal pensiero reazionario, è invece la capacità fantastica di capire e sentire che anche i milioni che non conosciamo - e per i quali ovviamente non possiamo provare personalmente affetto o passione - sono altrettanto reali e concreti, fatti di carne e di sangue come noi e i nostri amici. In questo senso ogni romanzo, a prescindere dall’ideologia professata dall’autore, è democratico, perché ci mette nei panni e nella pelle degli altri. Ma l’impegno non riguarda gli scrittori o gli artisti in quanto tali e tanto meno li riguarda più di altre categorie. Gli elementari doveri verso gli altri concernono ogni uomo; essere leali, soccorrevoli, sinceri, fedeli è un fondamento di ogni esistenza. Gli scrittori e gli artisti non sono un clero laico che amministri spiritualmente l’umanità né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri. Molti fra i più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, comunisti adoratori di Stalin; continuiamo ad amarli, a capire il tortuoso e spesso doloroso itinerario che li ha portati a identificarsi con la malattia scambiandola per una medicina e ad imparare da essi pure una profonda umanità che la loro aberrazione ideologica non è riuscita a soffocare, ma di politica essi capivano certo meno di milioni di loro sconosciuti contemporanei. La responsabilità verso il mondo riguarda ogni persona, nel suo rapporto con gli altri, e coinvolge la sua vita e il suo lavoro, poco importa se da avvocato, scrittore o barbiere. Il romanzo, ha detto di recente Doris Lessing, non dev’essere un manifesto politico; l’impegno politico, va aggiunto, non si esaurisce certo con la firma sotto manifesti che troppo spesso assomigliano alla lista degli iscritti a un club esclusivo. Il grande Ernesto Sábato non si è limitato a firmare proclami contro la dittatura dei generali argentini, ma ha sacrificato per un lungo periodo la sua attività di scrittore alla ricerca dei desaparecidos. «Mettersi al servizio di una causa, ha detto Pamuk, distrugge la bellezza della letteratura». Forse è invece il modo in cui ci si mette al servizio di una causa che distrugge, potenzia o addirittura stimola a creare la bellezza. Lo scrittore non è un responsabile padre di famiglia, ma è piuttosto un figlio ribelle che obbedisce al suo demone; la letteratura ama il gioco, la libertà di inventare la vita come il barone di Münchhausen, di rendere la realtà leggera come un palloncino colorato che scappa di mano e se ne va per conto suo. Piegare tutto questo a un’ideologia, a una causa, a un dovere uccide la letteratura. Ma se mettersi al servizio di una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica - a torto o a ragione - quella causa con la vita, allora pure l’impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. Virgilio che canta l’impero romano, Kipling quello britannico e Brecht il comunismo fanno poesia; il cattolicesimo - vissuto, non predicato - di Bernanos è indissolubile dalla sua epica; lo sdegno morale e l’ideale imperiale o metafisico di Dante creano vette non inferiori alla partecipe pietà per Paolo e Francesca. Se in passato occorreva contestare la soffocante pressione politica e ideologica sulla letteratura, oggi - come hanno osservato Alberto Asor Rosa e Franco Cordelli - è piuttosto il volgare o sgomento rifiuto della politica a minacciare la visione del mondo e indirettamente pure la poesia, a spegnere quella che Pierluigi Battista, sul Corriere, ha chiamato «una passione creativa ineguagliata nell’era del disincanto» e dovuta alla «stagione militante e ideologica precedente». L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo. I grandi fondatori di religioni, da Gesù a Buddha, hanno annunciato verità, ma per farle concretamente capire e sentire agli uomini hanno avuto bisogno della letteratura: hanno raccontato parabole, in cui la verità si incarna nella vita e diviene vita, e la dottrina diviene racconto. È questa l’autentica dimensione morale - e di conseguenza l’impegno politico - della letteratura, che non predica bensì mostra. Joseph Conrad non impartisce sermoni, ma leggendo le sue storie si capisce, si sente cosa vuol dire vivere nella lealtà o nella menzogna, nel coraggio o nella paura, nel buon combattimento o nella diserzione. In questo senso - ma solo in questo senso - la letteratura è un’educazione all’umano, efficace solo se non si propone di educare ma lo fa d’istinto, con la rappresentazione delle cose. Pure l’educazione in senso stretto, peraltro, è efficace solo se non predica, bensì mostra e fa sentire i valori. I miei genitori non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, ma non mi hanno mai nemmeno detto che non si pranza al gabinetto; semplicemente, il loro modo di vivere, lavorare, divertirsi rendeva impensabile che si potesse essere razzisti o mangiare gli spaghetti nella toilette. Se avessero dovuto dirmelo esplicitamente, sarebbe forse già stato troppo tardi. La rappresentazione letteraria è anche giudizio, ma implicito e sempre comprensivo della totalità: in Delitto e castigo Dostoevskij riesce a comunicarci l’umana desolazione che induce Raskolnikov al delitto e a farci partecipi del suo destino, ma ci fa anche capire - e dunque giudicare - la stupida banalità delle idee che lo spingono al delitto e l’orrore di quest’ultimo. La letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dèi, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori. Sábato, che ha parlato di queste due scritture, dice, in un libro nobilmente impegnato, che le sue profonde verità non si trovano in quel libro bensì in altri suoi racconti tenebrosi - «verità anche orribili, che talora mi hanno tradito». Quando scende lì sotto, gli ho detto anni fa a Madrid, scopre che due più due fanno forse quattro, forse nove, e che è impossibile e insensato appurarlo con esattezza. Ma quando risale alla superficie non ne approfitta per imbrogliare il conto al ristorante.
«Corriere della sera» del 21 ottobre 2007