Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica
di Carlo Galli
"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.
L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.
Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.
L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.
Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
«la Repubblica» del 19 luglio 2022