Intrecci di storie, amicizie, passioni: Ezio Raimondi racconta le voci dei suoi libri
di Paolo Di Stefano
Le voci dei libri sono le tante voci contenute nei libri, ma sono anche quelle che arrivano a determinarne la scelta e la lettura, e sono quelle che dai libri, una volta letti e consumati, si dipartono per proseguire lungo percorsi imprevisti. I libri sono intrecci di voci, confluenze, crocevia. Le voci dei libri è il titolo del nuovo libro di Ezio Raimondi (a cura di Paolo Ferratini, Il Mulino), che a sua volta è un intreccio di voci e di incontri. Si sarà notata l'abbondanza di «libri» nelle righe che aprono questo articolo. Non è casuale. Perché il nuovo libro di Raimondi, che con i suoi quasi 88 anni è il decano degli italianisti, è in realtà un metalibro, racconta le letture-chiave di una lunga vita, quelle che prima ancora di rappresentare una svolta culturale sono state un momento importante sul piano esistenziale: voci che provenivano da lontano lasciando nell'intimo una lunghissima eco. Nel momento in cui si prefigura il suo tramonto, questo è un canto di riconoscenza dal tono quasi testamentario all'oggetto libro quale segno tangibile e imprescindibile di profonda umanità. Non c'è pagina che si esaurisca in sé. Ogni pagina letta si riallaccia a una presenza, a un incontro, a un'amicizia. Del resto, si sa, per Raimondi la letteratura, non solo quella poetica e narrativa ma anche quella critica, è il luogo del dialogo per eccellenza: non c'è niente di più democratico. Ogni libro è un incontro dentro e fuori le pagine.
Seduto al tavolo della sala nel suo appartamento di via Santa Barbara, sulla collina innevata di Bologna, Raimondi non nasconde l'emozione di fronte a questa sua esile creatura; emozione che contrasta un po' con la magrezza severa del portamento ma soprattutto con il rigore razionale del suo immenso lascito critico. Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima». Ma l'incontro con i suoi autori che viene fuori dal racconto di Raimondi è soprattutto una continua occasione umana: «Il mio rapporto con i libri è fatto anche di assenza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l'integrità dell'uomo, come di un amico che accettiamo così com'è».
Il libro prende avvio da un'infanzia povera, da un padre ciabattino che preferirebbe un figlio artigiano e da una madre donna di servizio che insiste perché Ezio continui a studiare. «In realtà - dice Raimondi - io avevo due padri e quello che parlava di più era l'altro, il mio era laconico. Il caso volle che bambino in fasce venni accolto da una coppia di vicini senza figli. Mia madre andava a lavorare e mio padre pure, così io rimanevo con loro tutto il giorno e nacque un affetto di paternità e di maternità. Il Baratta, un operaio specializzato che leggeva il «Corriere» e «La Stampa», divenne per me una specie di padre elettivo che era stato corista a Milano e mi portava a teatro. Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, un abito a puntino azzurro, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni: aveva un volto affilato ed era privo della tipica espansività verbale bolognese. L'espansività era un dono del Baratta, che coniugava dialetto e italiano in una miscela molto inventiva».
A proposito di miscela linguistica, c'è un incrocio fatale nella vita di Raimondi: l'amicizia con Giuseppe Guglielmi, lo scrittore, il poeta, il miglior traduttore di Céline. La parte centrale del libro è occupata dall'immagine dell'amico Giuseppe che ogni domenica mattina sale verso via Santa Barbara per leggere con Ezio le traduzioni in corso. Non facili: Céline, Queneau, Baudelaire... Il sodalizio, che durerà per una vita dando frutti straordinari, è anche per Raimondi un'immersione nell'intimità della lingua: «Prima di tradurre Céline schedammo tutto Gadda per capire se poteva servirci il suo lessico, ma scoprimmo che non ne veniva nulla. La pagina di Céline era musicale, fango che si accende di improvvise accensioni celesti: da bambino mi era stato vietato di parlare in dialetto, ma traducendo Céline ripescavo dalla memoria le mescolanze di Baratta e le passavo a Guglielmi».
Bisogna tornare all'infanzia per cogliere le difficoltà di un ragazzo la cui casa è ridotta in macerie dai bombardamenti e che presto perde il padre, morto per malattia nel '45: rimane da solo con sua madre nel locale di una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme. Il giovane Ezio scrive la tesi in cucina, uno studio su Codro e l'umanesimo bolognese, nelle narici l'odore del soffritto. «Mia madre era una persona spericolata, che aveva combattuto nella Resistenza e incitava mio padre a metter su bottega. Quando finii le elementari, mio padre disse che non c'erano soldi per farmi studiare e fu mia madre ad assumersi l'onere della spesa, qualche volta aiutata dallo stesso Baratta».
Prima di passare dalla cucina alla biblioteca, entra in casa un volume della storia della letteratura del Flora: un regalo che la mamma, suggestionata dal battage pubblicitario mondadoriano, volle consegnare al figlio come un messale. «C'era una commistione tra libro dotto e contesto domestico, artigianale: nell'esperienza del libro c'era il vissuto diretto, l'odore della cucina. Io parlavo a mia madre delle mie ricerche, e Petrarca e Codro diventavano personaggi del nostro mondo: mia madre era quasi in grado di chiedermene lo stato di salute». Eccole là, le voci dei libri. Si potrebbe anche dire i volti dei libri. Per esempio, il sorriso malinconico di una ragazza, Sonia, che un giorno gli dice: «Tu conosci il tedesco...», e gli passa un libro intitolato Sein und Zeit . La scoperta di Heidegger, nella miseria dei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, è una rivelazione per il giovane Ezio, che lo legge a suo modo, in una chiave esistenziale, depurata del côté eroico e nietzschiano, «quasi con inconsapevole baldanza», scrive giustamente Ferratini nella postfazione al volume. Tra caso e destino arrivano altri incontri e con essi altre letture: le prime lezioni con Roberto Longhi sono una folgorazione capace di cambiare una vita e Raimondi ricorda che rinunciò a laurearsi in storia dell'arte per ragioni economiche, ma anche per timore: «Paura pazza dell'ironia di Longhi, attorno a lui c'era un mondo borghese che non mi apparteneva e rispetto al quale non mi sentivo ostile ma diverso: io ero portato alla parola discreta e non gridata. Il grido lo riservavo al gioco del calcio in cui ero soprannominato Qui-Qui, perché chiedevo sempre la palla. Io avevo due facce: quella del primo della classe in una classe di fannulloni e quella del ragazzino che giocava e cascava come tutti».
Altri incontri, altre amicizie, altri libri, altri casi, altri destini: la scoperta del Medioevo europeo attraverso il dono del grande libro di Ernst Robert Curtius proveniente da un altro amico inseparabile, Franco Serra, lo studioso di filosofia tedesca che nel '48 tornando dalla Germania portò con sé quel volume: «Ecco - disse all'amico -, è tuo». Quel libro fu una «premessa ai movimenti del cuore», commenta Raimondi. E poi l'«epifania» del saggio di Lucien Febvre su Rabelais e i problemi della miscredenza, pescato tra i tanti volumi arrivati sulla scrivania dello stesso Serra e divorato febbrilmente. «Questa è la vera storiografia», avrebbe detto Ezio opponendo quella concretezza di spazi e di oggetti e quella dimensione materiale all'idealismo stagnante della cultura italiana. Le passeggiate in bicicletta verso l'Appennino e le conversazioni sotto gli alberi approfondivano l'amicizia con Franco, nipote di Renato Serra, cui Raimondi avrebbe poi dedicato studi fondamentali.
Meno caso e più destino, forse, è un altro dono: quello che nel novembre del '68 a Baltimora Raimondi ricevette dai suoi allievi che lo salutavano prima del rientro in Italia: «Era un involto con il fiocco tricolore, conteneva il Rabelais di Michail Bachtin, credo la prima edizione occidentale, un libro che desideravo o, per meglio dire, aspettavo e che mi avrebbe aperto gli orizzonti sulla polifonia dei mondi ideali: le prospettive del mondo si moltiplicavano, le voci composite coesistevano, la lingua diventava pluralità, vitalità e dialogo». E poi Broch e Nabokov, Fuoco pallido, un romanzo travestito da filologia, una prima edizione Mondadori trovata forse alla Biblioteca circolante Brugnoli: «Lì si potevano reperire Proust, Faulkner, Virginia Woolf, Mann. Copertine povere e i commenti dei precedenti lettori, magari a contrappunto: ricordo che Conversazione in Sicilia era costellato ai margini da una serie di "porco". Anche alla Biblioteca circolante ho incontrato tanti libri non sapendo che sarebbero stati grandi eventi della mia vita».
Maestro
• Ezio Raimondi (1924), filologo e saggista, è professore emerito di Letteratura italiana a Bologna
• Il suo lavoro critico spazia dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini all’Umanesimo, dal Barocco al ’900. Tra i saggi più importanti, quelli su Dante, su Tasso, su Manzoni, su Gadda e su Montale
• È stato tra i fondatori della rivista «Il Mulino». I suoi libri più recenti trattano la letteratura scientifica, la retorica, l’etica della lettura
Seduto al tavolo della sala nel suo appartamento di via Santa Barbara, sulla collina innevata di Bologna, Raimondi non nasconde l'emozione di fronte a questa sua esile creatura; emozione che contrasta un po' con la magrezza severa del portamento ma soprattutto con il rigore razionale del suo immenso lascito critico. Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima». Ma l'incontro con i suoi autori che viene fuori dal racconto di Raimondi è soprattutto una continua occasione umana: «Il mio rapporto con i libri è fatto anche di assenza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l'integrità dell'uomo, come di un amico che accettiamo così com'è».
Il libro prende avvio da un'infanzia povera, da un padre ciabattino che preferirebbe un figlio artigiano e da una madre donna di servizio che insiste perché Ezio continui a studiare. «In realtà - dice Raimondi - io avevo due padri e quello che parlava di più era l'altro, il mio era laconico. Il caso volle che bambino in fasce venni accolto da una coppia di vicini senza figli. Mia madre andava a lavorare e mio padre pure, così io rimanevo con loro tutto il giorno e nacque un affetto di paternità e di maternità. Il Baratta, un operaio specializzato che leggeva il «Corriere» e «La Stampa», divenne per me una specie di padre elettivo che era stato corista a Milano e mi portava a teatro. Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, un abito a puntino azzurro, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni: aveva un volto affilato ed era privo della tipica espansività verbale bolognese. L'espansività era un dono del Baratta, che coniugava dialetto e italiano in una miscela molto inventiva».
A proposito di miscela linguistica, c'è un incrocio fatale nella vita di Raimondi: l'amicizia con Giuseppe Guglielmi, lo scrittore, il poeta, il miglior traduttore di Céline. La parte centrale del libro è occupata dall'immagine dell'amico Giuseppe che ogni domenica mattina sale verso via Santa Barbara per leggere con Ezio le traduzioni in corso. Non facili: Céline, Queneau, Baudelaire... Il sodalizio, che durerà per una vita dando frutti straordinari, è anche per Raimondi un'immersione nell'intimità della lingua: «Prima di tradurre Céline schedammo tutto Gadda per capire se poteva servirci il suo lessico, ma scoprimmo che non ne veniva nulla. La pagina di Céline era musicale, fango che si accende di improvvise accensioni celesti: da bambino mi era stato vietato di parlare in dialetto, ma traducendo Céline ripescavo dalla memoria le mescolanze di Baratta e le passavo a Guglielmi».
Bisogna tornare all'infanzia per cogliere le difficoltà di un ragazzo la cui casa è ridotta in macerie dai bombardamenti e che presto perde il padre, morto per malattia nel '45: rimane da solo con sua madre nel locale di una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme. Il giovane Ezio scrive la tesi in cucina, uno studio su Codro e l'umanesimo bolognese, nelle narici l'odore del soffritto. «Mia madre era una persona spericolata, che aveva combattuto nella Resistenza e incitava mio padre a metter su bottega. Quando finii le elementari, mio padre disse che non c'erano soldi per farmi studiare e fu mia madre ad assumersi l'onere della spesa, qualche volta aiutata dallo stesso Baratta».
Prima di passare dalla cucina alla biblioteca, entra in casa un volume della storia della letteratura del Flora: un regalo che la mamma, suggestionata dal battage pubblicitario mondadoriano, volle consegnare al figlio come un messale. «C'era una commistione tra libro dotto e contesto domestico, artigianale: nell'esperienza del libro c'era il vissuto diretto, l'odore della cucina. Io parlavo a mia madre delle mie ricerche, e Petrarca e Codro diventavano personaggi del nostro mondo: mia madre era quasi in grado di chiedermene lo stato di salute». Eccole là, le voci dei libri. Si potrebbe anche dire i volti dei libri. Per esempio, il sorriso malinconico di una ragazza, Sonia, che un giorno gli dice: «Tu conosci il tedesco...», e gli passa un libro intitolato Sein und Zeit . La scoperta di Heidegger, nella miseria dei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, è una rivelazione per il giovane Ezio, che lo legge a suo modo, in una chiave esistenziale, depurata del côté eroico e nietzschiano, «quasi con inconsapevole baldanza», scrive giustamente Ferratini nella postfazione al volume. Tra caso e destino arrivano altri incontri e con essi altre letture: le prime lezioni con Roberto Longhi sono una folgorazione capace di cambiare una vita e Raimondi ricorda che rinunciò a laurearsi in storia dell'arte per ragioni economiche, ma anche per timore: «Paura pazza dell'ironia di Longhi, attorno a lui c'era un mondo borghese che non mi apparteneva e rispetto al quale non mi sentivo ostile ma diverso: io ero portato alla parola discreta e non gridata. Il grido lo riservavo al gioco del calcio in cui ero soprannominato Qui-Qui, perché chiedevo sempre la palla. Io avevo due facce: quella del primo della classe in una classe di fannulloni e quella del ragazzino che giocava e cascava come tutti».
Altri incontri, altre amicizie, altri libri, altri casi, altri destini: la scoperta del Medioevo europeo attraverso il dono del grande libro di Ernst Robert Curtius proveniente da un altro amico inseparabile, Franco Serra, lo studioso di filosofia tedesca che nel '48 tornando dalla Germania portò con sé quel volume: «Ecco - disse all'amico -, è tuo». Quel libro fu una «premessa ai movimenti del cuore», commenta Raimondi. E poi l'«epifania» del saggio di Lucien Febvre su Rabelais e i problemi della miscredenza, pescato tra i tanti volumi arrivati sulla scrivania dello stesso Serra e divorato febbrilmente. «Questa è la vera storiografia», avrebbe detto Ezio opponendo quella concretezza di spazi e di oggetti e quella dimensione materiale all'idealismo stagnante della cultura italiana. Le passeggiate in bicicletta verso l'Appennino e le conversazioni sotto gli alberi approfondivano l'amicizia con Franco, nipote di Renato Serra, cui Raimondi avrebbe poi dedicato studi fondamentali.
Meno caso e più destino, forse, è un altro dono: quello che nel novembre del '68 a Baltimora Raimondi ricevette dai suoi allievi che lo salutavano prima del rientro in Italia: «Era un involto con il fiocco tricolore, conteneva il Rabelais di Michail Bachtin, credo la prima edizione occidentale, un libro che desideravo o, per meglio dire, aspettavo e che mi avrebbe aperto gli orizzonti sulla polifonia dei mondi ideali: le prospettive del mondo si moltiplicavano, le voci composite coesistevano, la lingua diventava pluralità, vitalità e dialogo». E poi Broch e Nabokov, Fuoco pallido, un romanzo travestito da filologia, una prima edizione Mondadori trovata forse alla Biblioteca circolante Brugnoli: «Lì si potevano reperire Proust, Faulkner, Virginia Woolf, Mann. Copertine povere e i commenti dei precedenti lettori, magari a contrappunto: ricordo che Conversazione in Sicilia era costellato ai margini da una serie di "porco". Anche alla Biblioteca circolante ho incontrato tanti libri non sapendo che sarebbero stati grandi eventi della mia vita».
Maestro
• Ezio Raimondi (1924), filologo e saggista, è professore emerito di Letteratura italiana a Bologna
• Il suo lavoro critico spazia dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini all’Umanesimo, dal Barocco al ’900. Tra i saggi più importanti, quelli su Dante, su Tasso, su Manzoni, su Gadda e su Montale
• È stato tra i fondatori della rivista «Il Mulino». I suoi libri più recenti trattano la letteratura scientifica, la retorica, l’etica della lettura
«Corriere della Sera» - Supplemento "La Lettura" del 19 febbraio 2012
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