31 ottobre 2020

Non sto con la satira quando diventa sadica

Libertà
di Ferdinando Camon
So di entrare in un terreno delicato, sul quale in queste pagine altri hanno camminato prima di me. E può darsi che quel che dico qui in Italia non sia possibile dirlo in Francia. Ma non sono d’accordo sul diritto alla blasfemia, praticato dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo e ribadito in tv dal presidente Macron: esiste il diritto alla libertà di espressione, ma non può esistere il diritto alla libertà di blasfemia. Lo dico chiaro, consapevole che nel mondo c’è chi usa l’accusa di blasfemia per perseguitare la religione o la religiosità degli altri.
Qui si tratta d’altro. All’università un docente di Filosofia ci spiegava che se uno non crede in Dio può mettersi al tavolo e scrivere la Critica della Ragion Pura, ma non può girare per le strade col megafono bestemmiando ad alta voce. Il ragionamento sull’esistenza o la non-esistenza di Dio è un diritto, aiuta a ragionare, l’umanità non fa altro che fabbricare 'aiuti' come questo e trasmetterli lungo i secoli, tra le generazioni, ma sono arrivato alla conclusione che i redattori di Charlie Hebdo non vogliono ragionare e dialogare, vogliono irridere, sbeffeggiare, insultare e profanare. Non di nascosto, ma pubblicamente. Non solo all’interno del loro giornale, ma deliberatamente in copertina. Non per i lettori di quel giornale, ma per tutti i passanti che transitano davanti all’edicola.
La vignetta è immediatamente comprensibile e se è una bestemmia questo non cambia: l’occhio ci casca sopra e subito la bestemmia entra nel cervello. Per chi ritiene quell’immagine una bestemmia, vedere quella vignetta è come ricevere una ferita. L’edicola espone con gioia quel giornale blasfemo, vuol venderlo, più copie vende e più guadagna, il giornalaio fa il giornalaio per questo. Ma le città francesi sono piene di musulmani, per i quali camminare per le strade e vedere il loro profeta bestemmiato come pedofilo o assassino è una coltellata. Non ritengo un diritto di quelle città accoltellare i passanti di una data religione. A mio parere, questa non è democrazia, non è concittadinanza, non è ospitalità, non è accoglienza. Non è libertà d’espressione, è libertà d’insulto, è sopraffazione. Anni fa lessi un libro, un best-seller, di un grande scrittore, del quale non dirò il nome, che non era cristiano e per dire che un cristiano teneva in casa appesa al muro una croce, disse: «Esponeva una lordura». Ma milioni di persone han sopportato tribolazioni di ogni genere e sono morte per quel simbolo, tu non puoi chiamarlo «lordura». Non amo quell’autore, lo ritengo umanamente fallito.
I redattori di Charlie commettono (ripeto: a mio modesto giudizio) lo stesso errore: ritengono che la loro libertà di espressione sia libertà di oltraggio, e se oltraggiano una figura interiore che è nella coscienza di alcuni lettori e se una parte di questi ne soffre fino a impazzire e a restituire coltellate reali per coltellate morali, la colpa è solo di questi impazziti. I quali sono dei fobici, e come tali peggiorano la società, devono guarire. Giusto: una società di fobici non è una buona cosa. Ma loro, quelli che oltraggiano una religione altrui, sono dei sadici, una società di sadici è forse una buona cosa?

«Avvenire» del 27 settembre 2020

Odio omicida, libertà e responsabilità

L'irrevocabile assimetria
di Andrea Lavazza
L’orribile ed esecrabile attentato nella basilica di Notre Dame di Nizza non poteva che suscitare un’ondata emotiva, tracimata anche in molti commenti e in tante presunte attribuzioni di responsabilità diretta o indiretta. A mente un poco più fredda è possibile provare a riconsiderare alcuni snodi della vicenda in cui si inserisce l’attacco di giovedì.
Chi ha armato la mano di Brahim Aoussaoui? Non il presidente turco Erdogan, che non ha nemmeno guidato il rifugiato ceceno assassino del professor Paty. Avviare una contesa che coinvolge anche la religione non significa arruolare killer a distanza. Si può e si deve stigmatizzare la strumentalizzazione del caso delle vignette di 'Charlie Hebdo' che il leader di Ankara sta conducendo a suo esclusivo vantaggio. Ma come tante volte è accaduto anche in altri contesti, avviare o soffiare su uno scontro ideologico non equivale ad arruolare terroristi.
Se singoli individui radicalizzati assaltano e uccidono, essi ne hanno la piena responsabilità insieme con coloro che da più vicino li hanno educati e assecondati a una visione estremistica e criminale, immersa o meno che sia in un humus musulmano. Mettere sul banco degli accusati soltanto Erdogan e con lui tutto l’islam è una scappatoia rispetto alla seria constatazione che l’islam non è affatto un monolite e ha un problema interno ben più grave e radicato rispetto alla 'guerra santa' di un capo politico che sente di poter perdere il potere a causa della crisi economica del suo Paese.
Ma nemmeno è colpevole della provocazione che avrebbe scatenato i jihadisti il presidente francese Macron. La sua difesa a oltranza della laicità delle istituzioni e della libertà di pubblicare vignette, anche se ritenute blasfeme, può certamente essere criticata nel merito, e anche il direttore di questo giornale lo ha fatto, condannando la follia omicida delle «coltellate mortali» in nome di Dio e denunciando la logica presuntuosa delle «coltellate morali» di una satira che incentiva ormai ossessivamente lo scontro tra culture e sensibilità. Ma sarebbe un errore gravissimo pensare che ci sia una qualche simmetria tra il docente che forse turba il sentimento religioso di qualche famiglia perché, in una lezione sulla tolleranza, decide di mostrare in classe i 'disegni dello scandalo' e il giovane che per difendere l’onore della sua fede sgozza chi ha commesso l’offesa.
È una cultura cristiana e laica insieme quella che in Europa (e non solo) è giunta con fatica ed errori a concepire le libertà individuali inviolabili, lo Stato di diritto, la democrazia e il pluralismo. Il singolo e l’opinione pubblica hanno molti strumenti per fare sentire la propria voce di dissenso. Possono manifestare, scioperare, organizzare campagne, persino votare per un altro presidente. È su un piano di responsabile libertà che è accettabile concepire il no alle vignette di 'Charlie Hebdo', in questo senso perfettamente contestabili. Ma se ci sposta su un piano diverso, quello dell’odio, dell’aggressione e della violenza, ogni ragione è perduta, nessuna istanza può più essere accettata. L’asimmetria è completa e irrevocabile.
E se sappiamo che qualcuno è pronto a passare all’azione, sordo a ogni richiamo alla ragionevolezza? Non sarebbe più sensato scegliere la cautela? Rinunciare alle sterili provocazioni è sempre saggio, ma cedere al ricatto, esplicito o implicito, non lo è mai: aprirebbe le porte a una ritirata sul piano dei diritti.
Qualora pochi estremisti di un qualunque segno facessero sapere di essere pronti a dar fuoco alla sede di un giornale che pubblica vignette contro di loro, si dovrebbero forse ritirare le copie stampate o chiudere la redazione? E non vale neppure l’obiezione che certi temi sono più importanti di altri. In una società plurale lo si può decidere solo a valle di un processo politico regolato da garanzie procedurali e sostanziali. Ed è infine ovvio che la responsabilità dell’arrivo sul suolo europeo del killer di Nizza non può essere minimamente addebitata al governo in carica in Italia nel momento in cui egli è sbarcato a Lampedusa da un barchino arrivato in porto mentre ancora vigevano le regole fissate dal ministro dell’Interno di un governo precedente, né l’accaduto può essere usato per reclamare lo stop al soccorso e alla civile accoglienza.
Semplicemente, si ignora che decine di migliaia di persone sono giunte in Italia via mare e che mai finora terroristi identificabili come tali sono sfuggiti ai controlli. Anche in questo caso, una sterile polemica di breve respiro contribuisce a mettere sullo sfondo le difficoltà più profonde che affliggono la gestione umana e sensata dei grandi flussi migratori e che andrebbero affrontate unendo volenterosamente forze e sensibilità diverse. Si tratta certamente di situazioni molto più complesse di quanto si possa qui sintetizzare. Spesso, tuttavia, una migliore comprensione dei fenomeni può contribuire a un approccio più efficace verso di essi.
«Avvenire» del 31 ottobre 2020

Nizza, Charlie Hebdo, e la libertà di essere orribili

di Luca Bottura
La diffusa opinione che le vignette di Charlie Hebdo rappresenterebbero un brodo di coltura per il terrorismo somiglia a quella di chi pensa che la minigonna faciliti lo stupro. Tra i valori non negoziabili che la Francia ha insegnato all'Occidente c'è quello della laicità, più che del laicismo, e tutti poggiano sull'architrave della libertà di espressione. Dire che Macron se l'è cercata, con la sua difesa del foglio satirico parigino, rappresenta un grave equivoco e un ribaltamento plateale del rapporto di causa-effetto. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, è il paravento per una torsione democratica che non solo non dobbiamo permettere, ma non dobbiamo concedere agli estremisti islamici. Le copertine di Charlie su Maometto erano orribili? Certo. Specie se sei musulmano. Quelle sull'Italia dopo il terremoto, con il sangue dei morti paragonato al sugo, irricevibili? Ovviamente. Specie se sei italiano. I motteggi contro il Papa, le suore, altre religioni assortite, potevano risultare disturbanti? Se sei cattolico, di più. Perché di qualunque evenienza satirica è difficile dire che "non fa ridere". Spesso fa ridere alcuni, non altri. Dipende da quanto ti tocca.
Ma c'è una differenza ancora più decisiva. Che dopo la pubblicazione, nessun italiano è mai entrato nella sede del giornale che le ha stampate per giustiziarne gli autori. E che nessun cattolico si è messo a sgozzare innocenti per lavare una presunta onta scritta con l'inchiostro.
Delle due, dunque, l'una: l'emancipazione non tanto culturale, ma esperienziale, di chi con la democrazia ha una consuetudine più lunga, va onorata continuando a difendere i valori che da noi sono ben riposti nella Costituzione all'altezza dell'articolo 21.
Oppure, mettiamo un tetto. Fissiamo delle regole di buon gusto, non foss'altro che per paura, a quel che si può dire. Sostituiamo l'opportunità al codice penale, che al momento stabilisce i limiti di ciò che è pronunciabile e cosa no.
A quel punto però si pone la domande delle domande: chi li decide, questi limiti?
Chi decide dove sia la decenza? Chi mette il punto di non ritorno oltre il quale devono valere la censura o l'autocensura? Perché mica ce n'è una sola, di soglia da superare. Che tu sia cattolico, islamico, italiano, sammarinese, persino tifoso del Bologna, la tua percezione del sacro non è la stessa di quello che ti sta accanto. Figurarsi del legislatore. O del giudice.
Ma poi: ne basterebbe uno? Chi dovrebbe stilare il codice di auto-condotta? Nulla contro Vittorio Feltri, per dire. Ma se a lui danno fastidio i musulmani, e lo scrive tutti i giorni a caratteri di scatola, io non avrei mai pubblicato il titolo "Vaffanmerkel".
Per sua fortuna, mia, e di tutti, non ho potuto impedirglielo.
Da queste parti, dopo che è diventato l'Oriana Fallaci d'Oltralpe, si porta molto bene il filosofo francese Houellebecq, che da molti libri in qua sembra nient'altro che una copia senza battute del comico Dieudonné. I suoi testi sono ormai riferimento per la nostra Destra sovranista, quella che chiede dimissioni di ministri perché un tizio sbarcato in Italia è andato a spargere sangue in Francia, contando sul win-win: governano gli altri, li accusano di negligenza e di favoreggiamento dell'invasione. Ci fossero stati loro, ne avrebbero approfittato per sollecitare qualche escalation autoritaria. Il Bignami più noto di Houllebecq si intitola "Sottomissione".
Ecco: non riesco a immaginare nulla di più sottomesso che intimare a qualcuno di nascondere i propri disegni perché qualcuno se ne fa schermo per uccidere. Siamo più forti di così. Dovrebbero esserne consapevoli anche quelli che, appunto, cianciano ogni secondo di "superiorità culturale".
È un concetto rozzo. Ma anche se fosse, è arrivato il momento in cui ci tocca di dimostrarlo. Restando liberi.
Visto, si stampi.

«la Repubblica» del 30 ottobre 2020

"Clarisse"

di Alesandro D'Avenia
«Incredibile, la capacità d’identificazione di quella ragazza! Era come l’appassionata spettatrice d’uno spettacolo di burattini, che prevede ogni batter di palpebre, ogni gesto della mano, ogni movimento d’un dito un istante prima che lo spettacolo cominci». Sono le parole con cui Guy Montag, il protagonista di Fahrenheit 451, descrive Clarisse, la diciassettenne che lo guarisce dalla sua cecità: egli vive in un mondo in cui gli uomini si credono liberi ma sono diventati dei burattini. Montag lavora infatti in un corpo di pompieri che non devono spegnere incendi ma dar fuoco a degli oggetti considerati pericolosissimi, perché costringono le persone a ricordare chi sono e per quale ragione respirano: i libri (il titolo del romanzo viene dalla temperatura necessaria a far bruciare la carta).
Il brano su Clarisse che ho riportato è stato scelto da una mia studentessa alle prese con un tema incentrato sul passo che li aveva più colpiti. Durante l’estate infatti, ho fatto leggere agli studenti di prima superiore tre libri incentrati su un pericolo che li minaccia oggi più che mai: la privazione progressiva e inconsapevole della libertà, che scorgo nella loro crescente difficoltà a prendere decisioni, anche le più piccole, lasciando la scelta agli altri o al caso.
I libri sono Open, Fahrenheit 451 e La fattoria degli animali. Volevo che i miei ragazzi vivessero l’esperienza di perdere la libertà in tre ambiti vitali (famiglia, cultura e politica), e scoprissero che può accadere inconsapevolmente, come ai protagonisti di queste storie, scivolati nella schiavitù senza rendersene conto. Come? Hanno rinunciato alla verità. Per vivere bisogna fare scelte e le scelte dipendono sempre dalle convinzioni che ci muovono, e quando non ne abbiamo perché abbiamo rinunciato a decidere per chi e cosa viviamo, finiamo con l’assorbire le «opinioni dominanti». Chi sceglie le «verità di maggioranza» spesso sceglie il potere non la verità, perché ci tranquillizza essere parte di qualcosa di più grande, avere una parte nel grande spettacolo. Montag, per esempio, non ha mai messo in discussione il suo lavoro e il mo(n)do in cui vive, né l’avrebbe fatto senza Clarisse.
La mia studentessa dice di avere scelto il passo su di lei perché, come accade a Montag, sta perdendo «l’attenzione». Il pompiere poche righe prima ha paragonato Clarisse a uno specchio che gli permette di vedere la verità su se stesso, la ragazza ha infatti un nome parlante (da clarus): chiaro, trasparente, puro. Grazie a lei l’uomo scopre perché è infelice e comincia a lottare... e una quattordicenne di oggi ha nostalgia di questa «chiarezza» e dice che l’ha persa a causa della «disattenzione». I nostri occhi sono ben aperti ma dedicati a chi li sa sedurre, anziché alla realtà. La rete si è accaparrata in modo «spettacolare» la nostra attenzione, che serve a profilare i nostri comportamenti e a orientarli, per venderci prodotti e convinzioni (se qualcosa è gratis il prodotto sei tu, come mostra il documentario The social dilemma). L’algoritmo che governa Google o i social costruisce attorno a noi uno spettacolo che scambiamo per il mondo (una ricerca dà risultati diversi per ciascuno): il tribalismo è la paradossale conseguenza del villaggio globale.
Abbiamo scelto, senza rendercene conto, di regalare la nostra attenzione a chi sa come usarla e manipolarla. Questo colpisce soprattutto la generazione che ha un cellulare in mano sin dall’infanzia: vi siete mai chiesti perché 13 anni sia la soglia per aprire un profilo Instagram? Perché ogni sito che aprite vi chiede di «accettare» i cookies? Perché Steve Jobs impediva l’uso degli oggetti che creava ai suoi figli? Adesso le conseguenze cominciano a essere evidenti e rilevanti a livello psicologico e sociale: gli adolescenti sono sempre meno inclini a rischiare, scoprire, fare scelte, mettersi in gioco, relazionarsi perché sono ipnotizzati da uno spettacolo che li riempie e dà dipendenza. L’espropriazione dell’attenzione (dal latino tendere a) non permette di incontrare la realtà, che è necessaria per scoprire chi siamo, i nostri limiti e la nostra grandezza. Senza attenzione, che è la «presenza del presente», il nostro io si disincarna, non sa più agire e comincia ad avere paura del mondo. Ritrovare l’attenzione è necessario per ritrovare se stessi e ribellarsi alla dolce schiavitù che ci consegna al vuoto spettacolare del consumismo. Clarisse è il nome dei nostri incontri con la realtà: un libro, un giorno senza cellulare, una passeggiata in cui scoprire che alberi e nuvole esistono ancora, una chiacchierata a cuore aperto con un amico... e tutte quelle cose che rafforzano la nostra resistenza interiore a ogni forma di dominio. Il segreto di Clarisse è la famiglia: non hanno televisori, parlano tra loro, sono liberi da ogni manipolazione. Per sapere che fine fa leggete il libro.
«Corriere della sera» del 28 settembre 2020