30 gennaio 2011

Aiutiamoli a scegliere: s’impara così a non avere paura

Lo studio sa iniziare, l'ansia dei ragazzi, il ruolo dei genitori
di Alessandro D'Avenia
«Ho paura del futuro ... iniziare il liceo ... Ci sono tante cose ke nn puoi controllare, mi manca qualcosa ma non so ke kosa ... Voglio che tutto migliori ... ma non so da dove cominciare!».
Sono parole del blog di una ragazza che confida worldwide il suo segretissimo tormento, simile in tante lettere che ricevo. La paura è il denominatore comune delle vite dei ragazzi quando c’è in gioco il futuro: è il segno che stanno entrando nella realtà. Spesso anche io ho paura, ed è il messaggio che la realtà manda per dirmi che la mia libertà è in gioco: la paura è la vertigine della libertà. Ma io ho 33 anni, diverso è quando la paura attanaglia il cuore di un’adolescente confusa sul presente, figuriamoci sul futuro. Per questo i genitori non possono aver paura, o almeno non possono aver paura di averne, di fronte alle nuove scelte dettate dalla riforma. Come consigliare senza sostituirsi? Come non lasciare la decisione in carico solo ai figli?
La scelta non è il giudizio universale: se si sbaglia, si corregge il tiro.
Educare non è essere infallibili, ma servire le vite a noi affidate, gradualmente incoraggiandole ad essere sé stesse, senza sconti. I ragazzi vogliono essere provocati, messi nel gioco della vita, protetti sì dalla paura, ma non dalla libertà: non c’è montagna più alta di quella che non si scala.
Dato che la vita, a raccontarla, consiste nelle scelte che fai nelle circostanze che ti è dato vivere, questa, che è forse la prima vera di un ragazzo, è occasione di crescita personale e familiare. Educare è provocare la libertà a scegliere, e si può scegliere solo se si conosce la realtà.
I ragazzi hanno affrontato test attitudinali, hanno alle spalle anni di studi e molti adulti che li conoscono.
Un bagaglio sufficiente per diventare consapevoli delle proprie risorse migliori e dei propri limiti, per costruire sulle prime e convivere, migliorandosi, con i secondi. In questa linea possono muoversi i genitori, non lasciandosi guidare da esperienze personali ormai lontane o attese sociali e familiari non sempre adeguate alle qualità dei figli. La mamma che vede il figlio con il dito nel naso pensa: sarà un grande ricercatore! Per guidare, senza soffocare o ignorare, occorre avere lo sguardo al futuro e sapere incoraggiare segnali ancora tenui al presente, che saranno ciò che 'salva' quella vita, il punto di appoggio per sollevarsi dal letto al mattino. I genitori faranno bene a scegliere con e per il figlio: se può dare 7, che intraprenda un curriculum che richiede 9, e raggiungerà 8. Solo così quel percorso sarà un viaggio di crescita reale, non un parcheggio.
Genitori e insegnati dicano ai ragazzi le qualità che vedono in loro: una relazione funziona solo se ognuno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno, costi quel che costi.
La ragazza impaurita ha bisogno dei due pilastri educativi fondamentali per la sua età: contenere la paura dell’ignoto e mettersi in movimento con le sue risorse reali verso una meta, ardua ma possibile. La vita ci è stata data, ma non ci è stata data già fatta, per fortuna. Occorre aiutare e farsi aiutare, cercando il percorso più adatto, alleandosi con un gruppo di insegnanti capaci anche di educare.
Sono i genitori a decidere dell’educazione dei figli, senza delegare, ma rendendo i professori partecipi alla missione educativa, scegliendoli: ti affido mio figlio, aiutami a renderlo sé stesso.
L’inizio di un nuovo percorso scolastico è un’imperdibile occasione per conoscere e aiutare a crescere il proprio figlio/a: cosa guarda, per cosa si appassiona? E poi additare la meta al di sopra (non troppo) delle capacità, con riscontri positivi ad ogni passo di avvicinamento. I ragazzi saranno disposti a lanciarsi in mare aperto, forti dello sguardo di adulti che garantiscono l’esistenza del porto: la certezza che la loro irruzione nel mondo è apportatrice di novità, che altrimenti andrebbero irrimediabilmente perdute. Educare non è controllare, né ignorare, ma servire la novità di ciascuno.
«Avvenire» del 30 gennaio 2011

Come “imparare a imparare”

Consigli sul metodo di studio per gli allievi delle Scuola Secondaria Superiore
di Paola Melo
1-QUANTO STUDIARE?
Quasi certamente te lo stai già chiedendo. Sappi allora che non esiste una rispostauguale per tutti. La quantità di tempo utile a realizzare uno studio proficuo è infatti subordinata ad una serie di elementi:
a) la motivazione, che deve accompagnare anche la scelta di iscriversi a un indirizzo di studi
b) la concentrazione, di cui ciascuno sa disporre
c) il possesso di conoscenze di base necessarie per acquisire abilità superiori
Per una migliore gestione del tempo ecco, però, alcuni consigli pratici.
Nel tuo orario settimanale ci saranno, presumibilmente, giorni più intensi, altri meno; impara fin da principio ad organizzarti, sfruttando al meglio la giornata: non subordinare perciò il tuo pomeriggio all'orario scolastico del giorno successivo!
Ciò significa che devi uscire dal meccanismo a rischio che ti porta ad aprire il diario alla ricerca del "che cosa devo fare per domani?". La gestione del tuo tempo, anziché occasionale, dovrà essere puntualmente programmata e non in funzione del giorno, ma almeno dell'intera settimana.
Stabilisci dunque un tuo orario di studio e in tale ambito distribuisci il lavoro settimanale da svolgere, compilando una tabella di marcia
Solo così riuscirai ad avere il tempo necessario a preparare una lezione o un compito.


2-QUANDO STUDIARE?
Evita di studiare dopo cena, quando la stanchezza certamente rallenterebbe i tuoi ritmi di lavoro, rendendo inoltre improduttivi i tuoi sforzi. Ciò sarebbe ancora più sciocco se dovesse accadere perché magari hai sprecato il pomeriggio.
Ricorda che dare ordine e ritmi regolari alla tua vita è uno dei primi obiettivi che devi prefiggerti, se vuoi operare con profitto.
Tieni anche presente, tuttavia, che è dannoso incollarsi allasedia per interi pomeriggi; suddividi le tue ore di studio in unità di quaranta minuti, quindi concediti una pausa di dieci.
Dopo due, tre unità, fa’ una pausa più lunga. Saranno questi i momenti in cui potrai fare merenda o ascoltare una canzone: sarebbe invece fonte di deconcentrazione farlo mentre sei impegnato a studiare.
Non rinunciare ad avereun'attività sportiva, o sociale. Organizzati per avere spazi di libertà!


3-IL METODO, QUESTO SCONOSCIUTO
Ogni insegnante, nel proprio ambito, ti fornirà in maniera esplicita adeguate indicazioni sulla metodologia di studio più adatta , così come ti consiglierà in merito agli strumenti che ritiene più idonei e dei quali potrai avvalerti al fine di facilitare e migliorare il tuo rendimento.
Ricorda che esistono anche le assemblee di classe, nel corso delle quali ti sarà possibile esporre le tue difficoltà ai compagni e discuterne con loro per individuare assieme le possibili strategie di intervento o formulare ipotesi di soluzione.
Non dimenticare che la prima regola d'oro consiste nel rendere proficuo il tuo stare a scuola. Come? Rispettando i tre punti qui sotto.

a) Cominciamo dall’ascolto in classe
Quanto vale l'ascolto in classe? Vale molto, moltissimo. Se segui con attenzione le spiegazioni, poni già le fondamenta del tuo lavoro successivo. Con carta e penna e sforzati (anche se all'inizio ti risulta difficoltoso) di prendere appunti durante le lezioni. Ciò ti aiuta a non distrarti e sarà anche un modo per dare un primo ordine agli argomenti trattati. Con questo non siamo tuttavia che alla prima fase.
Meglio rielaborare quanto prima (se possibile lo stesso pomeriggio) i tuoi scritti, quando ancora la memoria è fresca e può aiutarti a ricostruire gli eventuali anelli mancanti.
Gli appunti vanno trascritti in modo ordinato dai fogli di brutta al quaderno che poi sarà strumento vero del tuo studio (gli appunti presi disordinatamente e mai rivisti non servono a nulla).

b) Il libro di testo
I tuoi insegnanti si servono, durante le spiegazioni, anche del libro di testo. Non trascurare di avere sempre con te evidenziatori, matite (dei colori che preferisci). Ma più “dell'armamentario”, ciò che conta veramente è che tu possa sottolineare sul testo quanto ti viene segnalato e spiegato dal docente (i famosi NB = Nota Bene!).
Sottolineare con efficacia equivale ad evidenziare sulla pagina le parole o le frasi chiave utili a ricostruire lo schema logico del ragionamento condotto.
E' importante, in ogni caso, che i tuoi libri di testo diventino veramente "tuoi", si trasformino in agevoli e produttivi strumenti di lavoro e che non restino invece intonsi e immacolati, abbandonati sulla scrivania.
Quando usi il libro, nello studio pomeridiano, cerca allora di:
1)comprendere il testo individuandone l'argomento generale
2) comprendere il lessico specifico della materia
3) focalizzare i diversi temi affrontati
Per far ciò devi eseguire una prima lettura rapida, ma completa; dovrai individuare le parole, le espressioni ed i riferimenti non chiari e cercarne il significato sul vocabolario o su un’enciclopedia ; dovrai poi procedere ad una seconda lettura più approfondita e selettiva.
Sarà opportuno, soprattutto in mancanza di una titolatura precisa, scrivere in margine al testo dei titoli significativi, che sintetizzino i diversi sottoargomenti trattati.
Tieniti sempre accanto un amico fidato, il Vocabolario di Italiano, e servitene ogni qualvolta le tue conoscenze lessicali dovessero vacillare. Anche una sola parola travisata può impedirti di comprendere appieno ciò che leggi.

c) Le risposte dei compagni
Fatti furbo: non distrarti durante le verifiche orali dei tuoi compagni! Attiva il tuo ascolto e preoccupati di annotare i quesiti formulati. Sarà un'ottima occasione per verificare la tua preparazione.
Approfitta delle risposte altrui ! Potrai riorganizzare al meglio le tue conoscenze.


4-RIPASSO O NON RIPASSO?
Non puoi illuderti di studiare una sola volta un argomento e poi di abbandonarlo. Sarebbe come non averlo mai conosciuto ed equivale a dimenticarlo per sempre. Riservati uno spazio per ripassare.
E' ovvio che nell'ambito dell'organizzazione quotidiana del tempo dedicherai allo studio degli argomenti nuovi i momenti della giornata in cui sei più fresco, lasciando tranquillamente al ripasso le ore cosiddette di serie B.


5- L'ESPOSIZIONE ORALE
Tradurre in parole il proprio pensiero non è sempre facile. Dovrai sforzarti, e molto, per acquisire un lessico adeguato, specifico e tecnico per ciascun ambito disciplinare e dovrai aiutarti a coltivare l’arte del parlare attraverso un costante esercizio.
Per alcune materie può essere utile studiare leggendo ad alta voce e ripetere, sempre ad alta voce, i contenuti da assimilare, fino a quando l’esposizione risulterà abbastanza sciolta.
Consiglio: prova a simulare a casa l’interrogazione, rivolgendo a te stesso delle domande: ti aiuterà ad imparare a ragionare "per problemi" e ad organizzare intorno ad essi le tue conoscenze.


6 - COME SI STUDIA PER UN’INTERROGAZIONE ORALE?
Per ottenere questa abilità sarà meglio:
1) leggere attentamente l'argomento oggetto di studio (primo livello di lettura);
2) selezionare gli argomenti principali anche attraverso sottolineatura;
3) fare il primo tentativo di esposizione orale di ciò che è stato letto;
4) verificare attraverso la rilettura eventuali passaggi poco chiari o incerti;
5) passare ad unaseconda esposizione orale a voce alta, finalizzata all'espressione corretta, completa e logica;
6) verificare l'esattezza delle risposte ed, eventualmente, in caso di risposta errata o incompleta, consultare il testo.


... E DURANTE UN’INTERROGAZIONE
1) Individua i punti facili della domanda.
2) Organizza rapidamente i contenuti da esporre.
3) Costruisci la risposta cercando di sviluppare innanzitutto il momento centrale.
4) Utilizza esempi opportuni a sostegno dell'argomentazione che si sta sviluppando.
5) Usa una forma espositiva chiara e semplice.
6) Adotta un lessico specifico.
7) Respira profondamente e ripeti a te stesso: “Calma, ho studiato, andrà bene!”


6-DOVE ( E COME) STUDIARE?
Per essere chiari e sintetici, cerca di studiare:
In un luogo predisposto per questa funzione, che sia la tua camera o un tavolo in unangolo tranquillo della casa.

Ma:
- non davanti al cellulare, alla televisione o al computer, con un occhio allo schermo e l’altro alla pagina del libro
- non disteso/a a letto con l’i pod nelle orecchie: ti addormenterai!
E inoltre…
se studi circondato/a da molti “distrattori” multimediali, ti capiterà di sprecare gran parte del tempo!
E ora… tocca veramente a Te! In bocca al lupo per un sereno e proficuo anno scolastico!
«Corriere della Sera» del 29 gennaio 2011

29 gennaio 2011

“Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”

Marco Paolini porta in scena, nella tv laica e di sinistra, l’orrore dell’eugenetica e dell’eutanasia. Racconta quel che fecero i nazisti, ma il suo sguardo è tutto rivolto all’oggi
di Marina Valensise
E’ tutto pronto al Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico tra Quarto Oggiaro e la Comasina, attrezzato come teatro, ostello della gioventù, spazio per mostre e luogo di ristoro. La nuova vita del manicomio inizia negli anni Novanta, diciott’anni dopo l’entrata in vigore della legge 180, la legge Basaglia, dal nome dello psichiatra triestino che chiuse i manicomi italiani. Stasera e domani qui, nella Sala delle cucine, si parlerà di eugenetica e di eutanasia, di scienza e di morale. E’ in scena “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”, ultima narrazione di Marco Paolini, il più intenso tra gli autori del teatro civile italiano. Lo spettacolo è un monologo sulle teorie eugenetiche e eutanasiche messe in atto dai nazisti, e dai loro successori, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale per sterilizzare e poi eliminare disabili mentali e psichici, disadattati, storpi, ragazzi malformati con tare ereditarie. Al fine di migliorare la razza e di tagliare costi sociali.
Raccontando l’orrore nazista, Paolini vuole restituire il dolore dell’esperienza, il senso di responsabilità, il dilemma della scelta, la dimensione stessa del diverso. Ma soprattutto vuole offrire una prospettiva storica al dilemma che ancora oggi attanaglia le coscienze in fatto di eugenetica e di eutanasia. E infatti non è solo un uomo schivo, attore pudico e carismatico, capace di stare in scena per ore da solo e ammaliare il pubblico con una recita mai uguale a se stessa. “Dopo due ore di racconto, chiedo sempre agli spettatori come stanno, di cosa vogliono parlare”, confessa Paolini. “A volte mi risponde un medico, a volte un genitore, a volte un insegnante, a volte un cieco, un sordo… Solo se imposti le cose su una base di integralità, puoi discutere sull’onda delle emozioni, sopportando idee opposte, e avendo la civiltà di sviluppare i rispettivi argomenti sino in fondo, senza strillare”.
A conferma di questo suo civismo militante, domani sera, vigilia della Giornata della memoria, il canale tv La7 trasmetterà in diretta “Ausmerzen”, seguito da un dibattito fra il pubblico, animato da Gad Lerner, la star della rete Telecom che considera Paolini “un traguardo”. Così, nel salotto buono televisivo saldamente in mano alla sinistra laica e politicamente corretta stanno per irrompere due ore di televisione integrale (niente interruzioni pubblicitarie) su un tema impegnativo, al centro delle preoccupazioni non soltanto della chiesa e di intellettuali laici non allineati al pensiero dominante in materia, ma anche delle battaglie culturali di questo giornale. E’ possibile porre un limite all’onnipotenza della scienza? O in nome della tecnica e della produttività del sistema dobbiamo continuare a negare impunemente la dignità della persona umana? E qual è il rapporto che corre tra economia e società? Eliminare i deboli, gli idioti, i malati mentali, gli infelici, gli inguaribili, come fecero i nazisti per migliorare la razza e contenere la spesa sociale, è davvero un’esclusiva abietta dello stato totalitario? O una tentazione che percorre anche i regimi liberi e le democrazie? E che cosa succede quando la “brava gente” si mette in testa di avere ragione?
Paolini è un apostolo del teatro civile. Studia per anni le sue narrazioni, preparandole scrupolosamente con ricerche, interviste, testimonianze a tutto campo – si tratti del “Racconto del Vajont” o del “Sergente nella neve”, del “Gioco del Rugby” o del “Galileo”. E’ uno che crede nelle virtù catartiche del dramma, come un antico cittadino della polis, ma senza pose apocalittiche, e tenendo a bada le emozioni: “Vogliamo parlare di eutanasia oggi? Volevo fare un testamento biologico, ma sono rimasto sconcertato dal tono con cui si è discusso del caso Englaro, dal furore integralista di parole d’ordine brucianti”, dichiara in modo programmatico. “Non credo che in questo modo si sia reso un servizio alla mente umana. Personalmente, avrei voluto che non si coprisse con tanto fracasso un argomento dal quale pochi di noi sono colpiti direttamente. Ringrazio Dio di non essere fra quanti si trovano a vivere una situazione del genere, e come forma di rispetto chiederei innanzitutto di abbassare la voce. Non voglio entrare a gamba tesa nel dibattito, ma dare una prospettiva che aiuti a riflettere. A questo serve una narrazione come la mia: a fornire una base razionale, non solo emotiva, per dire: guardate cosa abbiamo alle spalle, guardate l’orrore commesso dai nazisti in nome dell’eutanasia, dell’eugenetica e della presunzione di risolvere ogni malattia su base scientifica”.
Anagraficamente, Paolini è un veneto che ama il sud e odia la Lega; “un veneto di minoranza” o, come dice lui, “che usa la lingua non per ergere muri o discriminare il forestiero, come fanno oggi gli impiegati alle poste di Conegliano, ma per ragionare con gli altri, anzi per fare in modo che il teatro ricrei la società, e gli uomini non impazziscano”. Caratterialmente, è un bellunese ruvido, montanaro, chiuso e così geloso di sé che rifiuta di confessare il suo mondo interiore: “Perché farmi giudicare per le mie opinioni, quando non ne ho una grande stima?”. Nemmeno sotto torchio rivelerebbe cosa davvero lo muova. “Non voglio mettere l’accento su ciò che penso, ma su ciò che faccio. Perché se pensi certe cose, ma non riesci a farle sentire, è velleitario dire quali siano le tue intenzioni”. Insomma, è un attore e un artista, nutre la convinzione che il teatro sia ancora quel luogo d’elezione utile a smascherare il potere e le sue mistificazioni, per dare un ordine al reale e un senso al mondo. E infatti è persuaso che solo una rappresentazione corale permetta il confronto tra tesi contrapposte, favorendo una dialettica ispirata alla ragione e all’uso pubblico della ragione, al riparo da sofismi, scorciatoie, da derive demagogiche: “Se dovessi scegliermi un ruolo del teatro classico”, confessa, “mi assegnerei quello del coro”.
Paolini pone col suo racconto i dilemmi che vuole suggerire alle coscienze contemporanee. Irradiarle nelle case degli italiani è l’ultimo exploit della piccola nave corsara che sta smuovendo le acque del nostro mare mediatico. “Servizio pubblico è anche quello di una tv privata e commerciale che abbia un rapporto onesto e costruttivo col suo pubblico”, dice infatti il direttore di rete de La7 nel suo ufficio romano in via della Pineta Sacchetti. In epoca di tagli, ristrutturazioni e controllo draconiano dei bilanci, è stato proprio lui, Lillo Tombolini, a convincere del progetto Gianni Stella, feroce risanatore, soprannominato dai dipendenti “er canaro”, e oggi strenuo difensore di Paolini. “Da uomo intelligente, si è convinto da solo”, si schermisce Tombolini. “Paolini, infatti, restituisce una realtà che nessuna lettura ti può dare. Impossibile spezzare l’emozione con lo spot”.
Il sodalizio tra Paolini e La7 nasce negli anni passati e si consolida col “Sergente nella neve”, racconto sulla ritirata dei soldati italiani in Russia, tratto dal libro autobiografico di Mario Rigoni Stern, trasmesso in diretta nel 2007 da una cava dismessa nei pressi di Zovencedo, in provincia di Vicenza. “Come faremo a riempirla di pubblico? Mi domandavo allora”, ricorda Tombolini. “C’era un freddo cane, pioveva, tirava un vento gelido. Per arrivare alla cava bisognava percorrere un viottolo sterrato nel bosco. A un certo punto, vidi decine di ragazzi arrivare a piedi, dopo una salita di tre chilometri. Paolini li aspettava intorno a un fuoco. ‘Venite a scaldarvi’, gridava, offrendo vin brûlé”. Questo per dire il calore, il legame comunitario, il contatto diretto, ingredienti base del suo teatro.
Dopo il successo del “Sergente”, Tombolini avrebbe voluto allestire un altro teatro su strada, con palco su via Mario Fani, per il trentennale del rapimento Moro. “Solo un anno per prepararlo? Troppo poco”, rispose Paolini, che avrebbe voluto intervistare tutto il Trionfale e conoscere uno per uno gli abitanti del quartiere romano per entrare con loro nel ricordo di quel giovedì 16 marzo 1978, giorno in cui fu rapito lo statista dc e uccisi i cinque uomini della sua scorta. Il fatto è che Paolini non è solo un teatrante eccentrico che studia i suoi spettacoli come uno studente universitario si prepara l’esame; quando sale sul palcoscenico ha l’ambizione di un cronista, che tenga a bada sia l’attore sia il teatro, “perché se l’attore e il teatro sono troppo presenti distraggono lo spettatore, e se ci metti troppo pathos, scateni nel pubblico l’adrenalina”. Così gran parte della sua preparazione consiste nel cercare il giusto tono della voce, nel costruire una presenza scenica non troppo invadente, per raccontare l’orrore rendendolo plausibile.
Per esempio “Ausmerzen”, “verbo gentile”, come dice Paolini, “che evoca la terra e il mese di marzo, quando i pastori, prima della transumanza, sopprimevano le pecore e gli agnelli troppo lenti, tant’è che in tedesco significa ‘sopprimere chi rallenta la marcia, chi è troppo lento per seguire il branco’” (ma è anche sinonimo di ‘sradicare, abbattere, eliminare, rifiutare, dimenticare, espungere, estirpare, radiare’) è la cronaca agghiacciante dello sterminio di massa, che prepara la soluzione finale, raccontata col distacco paradossale di uno che avrebbe potuto esserne sia la vittima sia il responsabile, e la freddezza di chi mettendolo in scena cerca di aiutare la gente a affrontare i dilemmi che pone. “Lo spettacolo segue le origini delle idee eugenetiche”, spiega infatti Paolini. “Racconta ciò che accadde in Germania tra il 1934 e il 1939, l’accelerazione della macchina burocratica tedesca verso la sterilizzazione di massa, quando l’eugenetica diventa disciplina universitaria, e poi il salto dalla sterilizzazione all’eliminazione. C’è la storia del primo bambino disabile sequestrato e soppresso. La fase ufficiale del programma T4 dura due anni, dal primo settembre 1939 all’estate 1941. Esiste persino un bilancio di 70.292 vittime, ma si tratta di stime. E c’è anche il racconto della così detta “eutanasia selvaggia”, termine che rischia di sembrare un alibi, ma indica la morte negli ospedali psichiatrici di altre 230 mila persone tra il settembre del 1941 e il settembre del 1945. La guerra finisce ai primi di maggio del 1945, ma la macchina eutanasica non si ferma, anzi continua a funzionare per anni. Tant’è vero che fino al 1948, negli ospedali psichiatrici tedeschi l’indice di mortalità resta altissimo. In Italia, invece, di quei dati non ci sono stime, mancano le statistiche”.
Farà sicuramente effetto assistere al racconto-spettacolo di Paolini dalle cucine dell’ex manicomio Paolo Pini, luogo in cui i malati di mente, una volta dimessi, hanno trovato alloggio, e persino lavoro, come addetti all’ostello, al ristorante, alla sala mostre, grazie a una cooperativa sociale e a varie organizzazioni di volontariato riunite sotto il nome di “Olinda”, che era quello scelto da Italo Calvino per la città immaginaria che cresce senza periferia, come una grande piazza aperta in cui convivono le persone più diverse. “E’ normale oggi per i milanesi venire qui a bere un caffè o mangiare un piatto di pasta in compagnia di persone che pur avendo problemi psichiatrici anche gravi, affetti da disturbi psichici e vissuti per anni come barboni in mezzo alla strada facendosi espellere ovunque, hanno finito per integrarsi, e oggi riescono persino a lavorare, con effetti terapeutici notevoli”, dice al Foglio lo psichiatra ticinese Thomas Emmenegger che del Paolo Pini è il direttore. Emmenegger crede in “un’impresa sociale”, dove ogni singola attività, legata al mangiare, al dormire, al pensare, alimenta un sistema complesso di cittadinanza, permettendo di mitigare competitività e produttività con altre forme di compensazione. Così il teatro per esempio surroga alle carenze dell’ostello, e il ristorante a quelle del teatro. E in questo luogo deputato alla solidarietà, che accoglie i disabili, gli psicotici, gli ossessivi, li nutre, li integra come parte di un tutto, restituendo loro un ruolo attraverso il lavoro, il racconto di Paolini non è solo un percorso, una testimonianza, ma una lezione di pedagogia civile.
“Cent’anni fa per finire in manicomio bastava che ci fossero troppi figli in famiglia, che qualcuno avesse un problema”, dice Paolini. “Molti ragazzi, di cui racconto in ‘Ausmerzen’, se avessero avuto un insegnante di sostegno si sarebbero salvati la vita. L’Italia è l’unico paese in Europa a non avere le classi differenziate. In Germania pure i sordi ce le hanno. Noi siamo gli unici matti che provano a tenere i disabili e i ritardati mentali in classe con gli altri bambini. Tutti ci studiano per copiarci, ma noi oggi rischiamo di rinunciare a questo modello perché non ce la facciamo più. In una certa regione del nord c’è persino un assessore alla Sanità che ha stabilito di escludere dai trapianti di organi i pazienti con un quoziente intellettuale inferiore al 60. Si rende conto? E invece ci servirebbe uno scatto d’orgoglio per riconoscere le cose buone che siamo riusciti a fare alla faccia dei paesi più ricchi di noi”.
Non per niente, “Ausmerzen” nasce da un’idea del fratello di Marco Paolini, Mario, di due anni più giovane, pedagogista di professione. “Lui lavora sin dai tempi del servizio civile coi portatori di handicap, mentre io sono un imbranato”, dice il fratello maggiore, “non sarei capace di star dietro ai bambini ritardati”. Mario oggi si occupa anche di formazione degli educatori dei bambini “con disabilità complesse”, come si dice in gergo, incapaci cioè di accedere a un lavoro, vuoi per un deficit neurologico, come una paralisi cerebrale infantile, vuoi perché privi di competenze linguistiche, per effetto di carenze relazionali. Insomma, vive a diretto contatto con un campione di popolazione che ai tempi di Hitler veniva considerata “geneticamente inguaribile” e perciò passibile di misure radicali. “Oggi sappiamo molte più cose di un tempo”, dice al Foglio Mario Paolini, citando i suoi maestri, Andrea Canevaro ed Enrico Montobbio, pionieri nella cultura dell’integrazione. “Ci sono conoscenze che scadono come un vasetto di yogurt. Perciò, non è corretto usare giudizi tranchant quando ci si occupa di disabili: meglio sentirsi compagni di strada, formare operatori che dedichino molto tempo all’istruzione. In passato, le persone disturbate, che avevano comportamenti aggressivi e autolesionistici finivano in manicomio. Oggi si è capito che il lavoro per molti di loro può avere un effetto terapeutico”.
Mario ha il viso dolce di un sacrestano veneto e il verbo pieno del cittadino ispirato. Solo pochi anni fa ha scoperto cos’era successo nella Germania nazista. Nel 2002, leggendo gli atti di un convegno su psichiatria e nazismo, tenuto nel 1998 nell’ex ospedale psichiatrico di San Servolo, venne a conoscenza del famigerato “Aktion T4”, il programma eutanasico e eugenetico nazista, così chiamato dall’indirizzo della villa berlinese, in Tiergartenstrasse 4, sede della Fondazione per la salute e l’assistenza sociale, che ebbe per legge il mandato di sterilizzare prima e sopprimere poi le persone affette da malattie ereditarie considerate inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. “Mi consideravo un ottimista, ma quando lessi quegli atti mi resi conto di essere un cretino”, dice sgomento il pedagogista Paolini. “Stavo facendo un mestiere senza sapere che settant’anni prima gente come me aveva commesso quel che aveva commesso. Così, cominciai a studiare, a documentarmi, e mi accorsi che nella storiografia ufficiale di tutto ciò non c’era quasi traccia. L’università continuava a sfornare laureati in Psicologia e Scienza dell’educazione con una scarsissima conoscenza di questi fatti, che non erano l’ennesima nefandezza compiuta dai nazisti, ma l’effetto di una serie di procedure sviluppate in base al movimento eugenetico che a quei tempi accomunava la classe medica, più o meno consapevole delle sue conseguenze”. Mario Paolini cita “Die Freigabe der Vernichtunglebensunwerten Lebens” (“Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”), saggio del 1920 i cui autori, Alfred Hoche e Klaus Binding, rispettivamente un medico e un giudice, sostenevano il diritto dello stato di uccidere “persone mentalmente morte” e eliminare i “gusci vuoti di essere umani”. Insomma, erano i precursori nazi delle tesi care oggi a mille e mille eutanasici libertari.
Sconvolto dalla scoperta, Mario Paolini trovò un appassionato alter ego in Giovanni De Martis, consulente d’azienda col pallino della storiografia, presidente dell’associazione Olokaustos e fondatore dell’omonimo sito, oggi fra i più informati sul tema. Così un bel giorno propose al fratello Marco di girare un documentario con la loro società di produzione. “Partimmo insieme per la Germania”, ricorda oggi De Martis. “Andammo a intervistare il professor Von Cranach, direttore dell’Istituto psichiatrico di Kaufbeuren, massimo conoscitore dell’archivio di quella che negli anni Trenta fu la clinica dello sterminio. E andammo a trovare pure Alice Ricciardi von Platen, la studiosa che per prima, come membro della commissione medica al secondo processo di Norimberga (che finì per comminare lievi pene ai medici, agli psichiatri, al personale sanitario coinvolto) aveva ricostruito l’intero programma eutanasico nazista. Girammo molto, in senso fisico e cinematografico, ma poi finì tutto nel cassetto”.
Il documentario non venne mai realizzato. La cosa parve morire lì. Ma i materiali raccolti erano tali che premevano per essere utilizzati. Mario Paolini continuava a raccontare la storia dei nazisti assassini dei propri figli disabili, dello stato totalitario che organizza il sequestro, la sterilizzazione poi la soppressione fisica dei “pesi morti”, fissando parametri, procedure, stratagemmi vari, che serviranno come prova generale allo sterminio degli ebrei. Nel luglio 1933, cinque mesi dopo la nomina di Hitler alla Cancelleria, venne emanata la legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie. L’esecuzione era affidata al ministero dell’Interno attraverso i tribunali speciali per la sanità ereditaria, formati da due medici e un giudice distrettuale. Tra il 1933 e il 1939 si calcola siano state sterilizzate dalle 200 mila alle 350 mila persone. Più tardi poi, con l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra, partì l’“Aktion T4”, che si protrasse fino al 1941 quando, sospeso per le proteste, venne continuato in altro modo. De Martis, intanto, continuando a fare ricerche, finì per scrivere una prima bozza di sceneggiatura, intitolata “Apolide”. Da questa bozza nacquero le due letture pubbliche tenute da Paolini nel 2008 al Paolo Pini di Milano e a Trieste. Il testo di stasera è l’ultima rielaborazione, passata al vaglio del pubblico e modificata in funzione delle sue reazioni. “Marco ha un’eccezionale capacità di sintesi” dice De Martis. “Rimuginando il testo, riesce a rielaborarlo di continuo finché non trova l’espressione migliore”.
Il racconto di stasera dunque, è stato già provato su gruppi di spettatori a Castelfranco Veneto, a Padova, a Quarto d’Altino, poi in Puglia, a Zara e Mantova. In scena con Paolini ci sarà anche una tedesca di ventitré anni, Naomi Brenner, che non è un’attrice ma una psicologa, che ha tradotto le fonti sensibili, per restituire la verità dei termini con tutte le sfumature necessarie. “Detesto il politicamente corretto”, dichiara infatti Paolini. “La mia non è un’operazione della memoria, e nemmeno un’archeologia confinata a sessant’anni fa. Vuol essere un racconto attuale. Come li chiamo questi disabili, con le parole che usavano i nazisti? Con quelle che usiamo noi? Con quelle che vorrebbero loro? La narrazione non può essere una cosa tranquilla come un saggio: citare le stesse parole che usavano i nazisti significa giocare con termini difficili”, spiega Paolini, che pur essendo un maniaco della preparazione, lascia spazio all’improvvisazione. “Il racconto è un flusso continuo. A volte mi esce una parola, a volte un’altra, a volte mi dico che schifo, attenzione, ho esagerato. Io sono un musicista, sto suonando le parole e mi vengono fuori sbagliate. Qualcuno è turbato, qualcuno protesta… cazzo. Allora a volte usi detestabili eufemismi, per esempio, il termine ‘infelici’ apre un abisso, perché fornisce una giustificazione mostruosa. E comunque, meglio sbagliare e poi vergognarsi, che starci a pensare, sennò non apri più bocca”.
Per il suo racconto, Paolini dunque si serve di documenti ufficiali, di atti processuali, di circolari della Cancelleria del Reich. Ricostruisce il modo in cui i nazisti organizzarono il censimento, racconta dei tribunali speciali che procedettero alla valutazione dei malati, per autorizzare la consegna o per organizzare il sequestro delle persone da “curare”, sterilizzandole prima e eliminandole in seguito. Descrive il modo in cui l’apparato dello stato nazista coinvolse i medici di base, che dovevano persuadere le famiglie a consegnare loro i figli, con la scusa di internarli in strutture ospedaliere create ad hoc per curarli meglio, salvo poi comunicarne ai genitori il decesso, avvenuto previa somministrazione di un cocktail di scopolamina e di luminol, negando loro però il diritto di riottenerne le spoglie, con un imbroglio sulla decorrenza dei termini. Intanto, i corpi di quelle vite indegne di essere vissute erano finiti nei forni crematori, prodromo alla soluzione finale. Insomma, una storia tremenda. L’eutanasia di massa, perpetrata in nome della razza, del miglioramento della specie, della “razionalità” del sistema sanitario e dell’intera società, venne decisa senza alcun consenso individuale. Era il trionfo dell’equivoco nazista, e cioè dell’idea che ci fossero vite indegne di stare al mondo, che lo stato e i funzionari pubblici determinavano, al di là della volontà dei loro stessi portatori o dei loro cari. “Lo stesso inventore dell’eugenetica Francis Galton (1822-1911) non pensò mai che questa scienza scellerata potesse tradursi in una pratica tanto violenta”, avverte oggi Giovanni De Martis. Ma la così detta eutanasia eugenetica non era un’esclusiva della Germania nazista. Era un progetto diffuso, praticato con successo da molti paesi del civilissimo occidente, la Svezia, la Svizzera, la Danimarca, la Gran Bretagna, e persino l’America. E mentre Paolini insiste sulla peculiarità dell’eutanasia nazista, che anticipa lo sterminio di massa, quello che gli sta a cuore è anche l’urgenza di riflettere su un dilemma che, nonostante le differenze, continua ad attanagliare il nostro presente.
“Non credo che la soluzione sia una deliberazione del Parlamento, che ce la caveremo con una legge. Chiunque affronti questa storia sta d’un male cane. Per questo, penso che raccontarla serva da contrappeso a ogni scorciatoia, rendendoci più attenti, più sensibili. D’altra parte, è imbarazzante interpretare documenti o storie come questi in un paese che rischia di farsi governare dall’onda emotiva. Fare una cosa del genere in tv è quasi criminale, perché fai stare male la gente”, avverte Paolini. “Ma il teatro è società. E allora un contrappeso ci vuole. Bisogna incivilire il confronto, parlare di eugenetica per dire che alla fine non migliora la vita. Se io riesco a ricreare la società col teatro, col dibattito, con la tv, tutto questo forse può servire a sconfiggere l’eugenetica, a superare la retorica del miglioramento, a riconoscerla e smascherarla. Forse se ci si frequenta di più non si impazzisce”.
Ma cosa nutre l’ambizione di Marco Paolini? Cosa c’è dentro la testa di questo pazzo che ha il coraggio di portare in tv l’orrore dell’Aktion T4 in un monologo di due ore? Chi è veramente questo montanaro bellunese che invoca il rispetto per la finitezza, il senso del limite, e difende senza condizioni la creatura umana? E’ un cristiano, un cattolico? Un ex comunista? Un cane sciolto? Un laico pentito? Un ateo devoto? Noi non l’abbiamo incontrato al Paolo Pini, dove di “Ausmerzen” non c’è stata nemmeno una prova, ma a Catania, dove Paolini era in tournée fino all’altro ieri col suo “ITIS Galileo”, ospite del Teatro Stabile. Niente di più incongruo di un bellunese nella città etnea. Ma basta una battuta, uno sguardo assorto sull’arborescenza che cresce spontanea sotto certi lastroni inamovibili, sigillati sul lastrico medievale di Palazzo Platamone, attuale sede dell’assessorato alla Cultura, per capire che il saltimbanco aedo del teatro classico, è un uomo attento, dotato di ironia: “La natura è improgettabile. Tra vent’anni i curatori di qualche museo berlinese verranno qui a inchinarsi di fronte a questa installazione spontanea intitolata ‘Erbacce’”.
La visita continua nell’atelier dell’assessore alla Cultura, Marella Ferrera, a Palazzo Biscari. La stilista-assessore mostra la nuova collezione, abiti tessuti a mano, con reti cucite su una composizione di centrini, e intarsi all’uncinetto formati da particolari di vecchie foto in bianche e nero che spiccano al centro. Sono le tracce dei ricordi e dei dolori delle spose per procura che cent’anni fa sbarcavano a Ellis Island, pronte a farsi impalmare da chiunque, persino da un perfetto sconosciuto oriundo siciliano o conterraneo, pur di ottenere un visto d’ingresso negli Stati Uniti. Era questo il nuovo mondo, il futuro riservato a milioni di emigrati (15 in tutto). “Ognuno di questi vestiti è come la rete da pesca di una piccola barca in cui è rimasto impigliato qualcosa”, commenta assorto Paolini. L’intervista col Foglio diventa la prova generale della tenuta scenica, del tono di voce, dell’intensità orale che servirà mettere in scena al Paolo Pini. “Nel 1920, quando le spose siciliane approdavano a Ellis Island, era il momento in cui gli americani applicavano l’eugenetica per rilasciare il visto d’ingresso agli emigranti”, dice Paolini. “Per entrare, dovevi compilare una serie di questionari, e dichiarare strane cose, per esempio se avevi l’abitudine di mangiare la verza, oppure il cavolo. Era un modo per discriminare i settentrionali dai meridionali, e scegliere i primi a scapito dei secondi”.
Per preparare “Ausmerzen”, Paolini ha letto pure il “Mein Kampf”: “Hitler aveva la fobia dei matti, raccontava di quelli che mangiano la cacca, ma aveva capito benissimo cosa stava succedendo in America. ‘Gli Stati Uniti, scriveva, sono più avanti di noi tedeschi: rifiutano certe razze per l’immigrazione’. Il che dimostra che non è il nazismo a creare il clima in cui poi si formano le idee radicali di sterilizzazione e eliminazione dei disabili, ma è il razzismo che si respira nei così detti paesi civili a creare il nazismo”.
E’ il primo colpo contro il luogo comune. Anche le democrazie, come dimostra la storia dei visti siciliani, hanno le loro zone d’ombra. “Esistono le idee eugenetiche legate a Galton alla fine dell’Ottocento”, insiste infatti Paolini, mentre gli occhi pervinca iniziano a brillare, cancellando i tratti della stanchezza. “Uno dei primi a interessarsi alle idee eugenetiche fu Mr. Bell, l’inventore del telefono. Il suo problema erano i sordi che bloccano il mercato. Commissionò uno studio sugli abitanti di una certa isola, mi pare Virgin Island (lo racconta De Martis), ed ebbe la conferma che la sordità è una caratteristica ereditaria. Sicché per risolvere un problema legato al mercato, Bell proporrà di sterilizzare i sordi, per impedirne la riproduzione, consentendo con ciò a tutta la popolazione di utilizzare il telefono. Perciò l’idea di respingere chi non è provvisto di caratteristiche genetiche gradite non nasce in una dittatura o in uno stato totalitario, ma in una democrazia a forte immigrazione”.
Del resto, era la stessa epoca in cui gran parte della popolazione dell’Italia meridionale venne sottoposta a osservazione dal frenologo Cesare Lombroso, che definendo i tratti fisiognomici del tipo bruzio, per corroborare la lotta al brigantaggio, fondò la scienza della criminologia. “Effettivamente, basta guardare le foto della Prima guerra mondiale, per vedere come rinviassero ancora a un carattere somatico prevalente”, replica Paolini. “I reggimenti sardi sull’altipiano di Asiago erano somaticamente diversi dai loro ufficiali piemontesi. Di fatto, gli italiani si guardano per la prima volta nelle palle degli occhi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. L’emigrazione interna ancora non esisteva. Un friulano alto, bianco robusto e un calabrese nero riccio e secco come i fichi di settembre, erano increduli di appartenere allo stesso paese. All’inizio, tra loro c’è diffidenza”. Poi però la trincea crea un legame. “La guerra certo lega, perché se fai la stessa tribolazione diventi fratello, e poi in quella tribolazione circolano idee nuove, le idee socialiste, le idee di solidarietà, nella sopportazione dei triboli fraternizzi persino con quelli che combattono dall’altra parte”.
Allora torna la domanda: il razzismo è una tendenza propria al nazionalsocialismo, dell’idea di uno stato fondato sulla purezza etnica o anche altro? “Non parliamo di tendenza, per favore”, esclama Paolini. “E’ pericoloso!”. E per dimostrarlo torna agli anni Settanta, quando si discuteva sull’innato e sull’acquisito, discettando su natura e cultura. “Di chi è la colpa se tu sei un delinquente, della società o della genetica? Ce lo domandavamo da ragazzi. La questione era chiara: chi sosteneva che sono i geni a determinare il carattere era di destra; se invece dicevi che era la società, passavi per uno di sinistra. La distinzione appariva in embrione in un libro di Erich Fromm e costellava le nostre discussioni adolescenziali tra chi citava le tesi di Konrad Lorenz, e chi replicava con quelle di Bertrand Russel. Tutte cose che approcciavamo ingenuamente, bevendoci brutte traduzioni. Oggi non si ragiona più così. Non si osa nemmeno. Però, se ci pensi, la genetica piano piano è diventata un elemento cardine nella soluzione dei nostri problemi. E’ al centro della possibilità di migliorare la nostra vita non solo per vincere le malattie, ma come strumento di controllo sociale, di controllo delle nascite, di orientamento anche estetico, nella selezione del sesso dei nascituri. Siamo arrivati allo shopping procreativo, a decidere come voglio il mio bambino. Ne discutiamo e ci arrabbiamo pure, perciò è importante sapere cosa il passato abbia prodotto di mostruoso, in questo senso. Ma se poniamo al genetista la domanda che assillava i ragazzi negli anni Settanta, e cioè quanto è determinato dall’impronta genetica e quanto invece è effetto dell’educazione e della società, lui sorriderà, spiegandoci che il nostro Dna non può fornirci più del sei per cento di ciò che noi siamo”.
Percentuale irrisoria. “Le differenze cromosomiche tra la più bianca antartica e la più nera aborigena delle popolazioni, mi dirà oggi il genetista, sono racchiuse in un numero infinitamente piccolo di elementi del corredo genetico della specie umana. Il che vuol dire che la velleità di creare un popolo in base a un patrimonio genetico comune, come quella della Germania nazista, si fonda su un assurdo, su un dato scientificamente falso; perché alla fine, se solo il sei, il sette, l’otto, diciamo pure il dieci per cento dipende dal corredo genetico, se guardandoci intorno ci scappa da dire, ‘questa è una società di stronzi’, il problema purtroppo non è risolvibile geneticamente, ma rinvia al discorso della scuola. In altre parole, non è che se mettiamo a posto il Dna l’Italia va meglio; perché il 90 per cento dipende da quello che guardiamo, sentiamo leggiamo. Perciò, puoi pure sceglierti il bambino che vuoi allo shopping genetico, ma sta’ tranquillo che se tu sei stronzo per educazione e per cultura, viene fuori stronzo anche lui. Dunque, non è questione di Dna o di concepimento, ma del lavoro che devi fare su te stesso. Su questo non c’è scampo. Certo, se interpreti la procreazione come marketing cui scegli il prodotto, la vera domanda è: vale ancora la pena di riprodurre una specie umana che ragiona in questo modo? Mi sembra di no. C’è una linea di demarcazione tra le preoccupazioni per la salute e il capriccio, il vizio, l’idea che il mercato mi mette a disposizione un prodotto e io sono come un bambino davanti alla vetrina, di un negozio, senza più i genitori di una volta che sapevano tirargli uno scappellotto, se cominciava a gridare voooglioooo quello!!!!!”.
La genetica così però ne esce a pezzi? “Certo, può tutelarci dalla malattia, ma non risolve la stronzaggine. Ora, i problemi che abbiamo di fronte sono per la maggior parte educativi, comportamentali. Non richiedono l’investimento da parte di una multinazionale e nemmeno il colpo di scena che migliori la specie. Tocca fare manutenzione, arte ordinaria, sulla quale non ci sono scorciatoie, come frequentare la scuola dell’obbligo, imparare a parlare senza ruttare o senza alzare la voce. Il che significa introdurre un’autolimitazione, fatto di per sé privo di appeal, ma necessario”.
Così, partendo dall’opposizione tra natura e cultura, e passando per lo studio del genoma, si arriva allo spettacolo di stasera. “Io racconto un pensiero mostruoso. Racconto di come brava gente possa arrivare a mettere in opera pratiche criminali avendo demolito, ma molto progressivamente, ogni freno inibitore. Alla fine, so che la causa di tutto questo è, da un lato, nelle idee eugenetiche, dall’altro nel mancato bilanciamento offerto da un sistema solido dotato di un senso del limite. Il mancato contrappeso all’eugenetica, che permette lo sterminio, però, non è un’idea scientifica. E’ un’idea morale e culturale: è il tessuto sociale in grado di avere il senso del limite. Un dittatore può anche avere la velleità di pensare che in questo modo si debellano le malattie e si migliora la specie, soprattutto se la specie avesse contezza che il miglioramento non avviene attraverso un colpo di scena, ma attraverso un costante lavoro di manutenzione, grazie al peso dell’esperienza, grazie all’autorevolezza della nazione, al ruolo dell’adulto… noi oggi però viviamo un’epoca che vede l’abiura degli adulti”.
Abiura degli adulti, dice proprio così Marco Paolini, usando una bella espressione per un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, e cioè la morte della vecchiaia, il trionfo spasmodico della giovinezza, inseguita fuori tempo massimo da chiunque. “Gli adulti abiurano perché vogliono essere giovani. Questo ci chiedono il mercato e i modelli dominanti: tenerci giovani. E in questo c’è la complicità degli adulti, che rifiutano di farsi sorpassare, non mollano la sedia. Fare coming out, oggi, significa dichiararsi adulti”. Insiste Paolini, con sottinteso politicamente scorrettissimo. Dichiararsi adulti è ciò che richiede vero coraggio sociale, altro che dichiararsi gay. “Assumersi il compito della responsabilità, smascherare tesi grottesche. D’accordo la genetica, ma dove arriveremo? Dammi un contrappeso. D’accordo la ricerca sulle staminali e la possibilità di debellare malattie. Non voglio censurare alcuna opzione che mi permetta di battere queste strade. Dopodiché non voglio essere semplicemente il malato ansioso e spaventato che si rivolge al medico e non capendo di cosa stia parlando e, vedendo che magari la cura non funziona, un attimo dopo va dal mago. Io rispetto il dolore e l’ansia delle persone, ma non è un mondo di adulti quello che avrà bisogno del dottor Di Bella o chi per lui, per avere speranza, per trovare quel magico plus di energia che a volte manca nell’approccio con un medico bravo, ma incapace di trasmettere fiducia. Noi siamo fragili, perché siamo disposti ad affidare la soluzione dei problemi a chi non ha queste capacità. Mentre un adulto delle generazioni più solide, che accettavano la finitezza, non apriva subito a chiunque bussasse alla sua porta. Ecco, secondo me è questo che ci manca degli adulti, l’esperienza che, sulla base di qualcosa che non posso aver imparato solo io, ma anche la mia gente, permette di selezionare, di accettare una cosa, di decidere se vale la pena di fidarmi. Oggi non abbiamo più questa diffidenza istintiva che difende, siamo tutti creduli. Siamo fragili. Questo è il pericolo rispetto all’eugenetica. La Germania degli anni Trenta era fragile. Soffriva le conseguenze di una crisi economica devastante. Non voglio stabilire un nesso di tipo deterministico, ma è chiaro che una condizione di sofferenza diffusa che interessa molte fasce della popolazione, la perdita di sicurezza, l’inflazione galoppante, offrono il destro all’idea di eliminare gli inutili, di buttare a mare chi non produce, chi non ha pagato il biglietto e costa troppo. E se stai male è più difficile resistere alla lusinga di un pensiero cattivo, che anche i sani hanno, perché è un pensiero che alberga nel cuore di ogni persona, non solo dei cattivi. Solo che, se hai il contrappeso dell’educazione, o di un sistema di relazioni, lo puoi isolare, neutralizzare. Puoi vergognartene. In un momento di crisi, invece, quel pensiero diventa condiviso. E se poi il governo, arrivato al potere nel 1933, lo esprime nei manifesti, nei libri di scuola, nei corsi universitari, alla fine quando vedo tanti professori che dicono la stessa cosa, io di quel pensiero recondito non mi vergogno più, perché ormai ha assunto una cittadinanza”.
E’ strano parlare di miseria, solitudine, sofferenza, per spiegare il trionfo dell’eugenetica nazista, e farlo nel meridione. Qui da sempre manca il lavoro, e tutti si ricordano i poveri che mendicavano scalzi l’olio fritto nelle case dei ricchi. Eppure i matti, gli scemi del villaggio qui sono sempre stati una presenza familiare, come Cipì, che s’aggirava in pieno agosto, in un paesino della Calabria, coperto di strati di cappotti e impermeabili, le mani avvolte in sacchetti di plastica, e gli occhi da ebete puntati su di noi bambini che pure capivamo benissimo cosa voleva dirci con quei suoi strani suoni gutturali. “Attenzione”, risponde Paolini sorridendo. “L’unica forma di resistenza all’eutanasia di stato si ebbe nei paesini della Pomerania, del Baden Württemberg, della Sassonia, nei villaggi dei minatori della Ruhr, dove tutti si conoscono e il matto del villaggio ha un nome proprio. Sono pochi i casi dove il pulmino coi vetri oscurati che andava a prelevare i disabili, gli idioti, gli idrocefali, gli schizofrenici o gli psicotici girava a vuoto, senza poter fare il suo carico umano, perché gli abitanti di quei paesini erigono barricate”.
Paolini cita il libro di Alice von Platen, ma insiste sulla complicità dei medici. Dice che ci furono obiezioni di coscienza, ma molti inganni, ricatti, intimidazioni. Se rifiutavano di consegnare il figlio ritardato o storpio, le famiglie rischiavano di perdere la tessera annonaria. Gli unici episodi di resistenza avvennero in piccole comunità solidali che dei loro matti e dei loro storpi si prendevano cura. Oggi non se ne vedono più. “La società liquida rende tutti perfettamente uguali e omologabili. E appena arriva l’alluvione, ti parlo da veneto, in questi paesi dove si vive bene e tante case vanno sott’acqua, si dice ‘ci hanno lasciato soli’, lo stato non ci aiuta. Ma a parte i tempi tecnici per l’arrivo della Protezione civile, io dico, il tuo vicino di casa dov’era? Non ne hai? Se l’argine si rompeva trent’anni fa, sarebbe accorso per primo a darti una mano. Ma se tu i vicini non li vedi da sedici anni, questo ti rende più fragile, ti espone a idee bislacche come il pensare che il tuo rapporto col mondo passi per uno schermo al silicio, invece che dalla porta di casa. Oggi a noi manca la società vicinale, manca il prossimo, che determinava la prevalenza della vita pubblica su quella privata”.
A questo serve il racconto di Paolini, a ricordarci cosa è successo nella Germania di Hitler e a farci riflettere sul perché, a richiamarci al senso del limite e alla nostra responsabilità di uomini liberi, anche se nessuno oggi riesce a farsi soverchie illusioni. “Rispetto alla mostruosità di queste cose”, conclude Paolini, “un attore è come un’aspirina. Sono consapevole che devi avere un senso del limite pauroso, pur muovendo in una zona in cui se non fai vivere questa cosa qui, se non l’accendi, nessuno ti ascolta. E come faccio io ad accenderla? Non lo so. So solo che ho smesso di fare ‘Vajont’ perché nessuna tecnica teatrale mi permetteva di ripeterlo a teatro tutte le sere, mantenendo la mia integrità psicofisica. Ripetendo una cosa che costa fai del male, picchi duro, picchi i bambini. Mi sono accorto che ci sono cose che trascendono il mestiere, perché ti fanno soffrire davvero. Devi stare attento a non esagerare. Se ti fai coinvolgere ti si spezza la voce e rendi un cattivo servizio. Ci sono parti in cui corro dei rischi, trattenere il respiro sarebbe un po’ troppo liberatorio per chi guarda. L’unica cosa che posso fare per raccontarla bene questa storia, e provocare domande che turbano senza offendere, è creare un tono, fare in modo che siano parole sommesse, senza l’urtante presunzione che rende impossibile ragionare con gli altri. E poi, il vero soggetto di questo racconto non sono i cattivi processati a Norimberga, ma la brava gente, la gente come noi, quelli come me e te. Se creo indignazione, offrendo al pubblico solo un bersaglio, forse ho sfuocato l’obiettivo. La vera preoccupazione è che si impazzisce in gruppo e si rinsavisce da soli, ma ci vuole tempo”.

«Il Foglio» del 25 gennaio 2011

Internet e social network non sono né il bene né il male, ma il nuovo campo della battaglia per il potere

La rivolta in Egitto continua. ElBaradei: intifada fino alla caduta del regime
di Christian Rocca
Internet, cellulari e tlc in black out. Così il governo egiziano spegne la democrazia in rete
Nei paesi dove si discute di cose serie si è aperto un gran dibattito sul ruolo dei social network, da Facebook a Twitter, nelle recenti rivolte democratiche nelle società chiuse, nei regimi repressivi, nei paesi totalitari. Le cronache raccontano di manifestazioni in Iran, in Tunisia, in Egitto convocate via Twitter, di gruppi di dissidenza organizzati su Facebook, di un uso libertario di Internet dalla Cina al Medio Oriente. Il dibattito non è frivolo, ma riguarda la formulazione della politica estera dei grandi paesi occidentali.
Il segretario di stato americano Hillary Clinton si è impegnata a promuovere la libertà della rete ovunque nel mondo. La rivista Foreign Affairs, organo ufficiale dell'establishment americano di politica estera, ha aperto il suo ultimo fascicolo con un saggio di Clay Shirky, professore di new media alla New York University, intitolato "Il potere politico dei social media".
La tecnologia e internet in particolare sono diventati i fattori decisivi per la diffusione della libertà, secondo la tesi predominante del Dipartimento di stato e delle cancellerie occidentali. I messaggi sms, le email e i blog hanno agevolato le comunicazioni dei dissidenti, la diffusione della contro-informazione, le attività d'opposizione. Lo sostiene anche il direttore di Google ideas Jared Cohen, forte della sua esperienza di pianificazione politica al Dipartimento di stato prima con Condoleezza Rice e poi Hillary Clinton.
Ma non tutti sono della stessa idea. L'esperto di cose internettiane Evgeny Morozov, giornalista bielorusso di Foreign Policy e analista della New American Foundation, non ne è convinto. Sostiene anzi che questa visione catartica di internet sia un inganno, un'illusione, un'utopia cibernetica che semmai rischia di provocare l'effetto contrario e di consolidare le dittature. Sul tema Morozov ha scritto numerosi articoli, anche per questo giornale, e un libro appena uscito negli Stati Uniti dal titolo The Net Delusion – The dark side of internet freedom (Public Affairs).
La tesi di Morozov è che non c'è alcuna prova che le proteste di piazza a Teheran, a Tunisi e al Cairo non ci sarebbero state senza internet. Non c'è alcun automatismo, scrive, tra l'uso di una particolare tecnologia e la conquista di una maggiore sfera di libertà. Il determinismo tecnologico, secondo Morozov, è pericoloso perché porta i governi occidentali a sottovalutare le vere ragioni del cambiamento sociale e quindi ad adeguarsi all'illusoria equazione secondo cui basta più tecnologia per ottenere più democrazia. In realtà, scrive Morozov, internet e i social network sono usati ancora più efficacemente dai regimi dispotici per reprimere, censurare e sorvegliare.
Il pessimismo hi-tech di Morozov è molto efficace nel distruggere i luoghi comuni su internet, ma non va oltre il gigioneggiare intorno alla nuova e indissolubile fede cibernetica. Morozov non offre alternative. Nel suo ragionamento manca una parte propositiva. Non spiega, per esempio, come mai per fermare l'opposizione la prima mossa dei governi dispotici sia sempre quella di bloccare il sistema dei messaggi sms e di sospendere il servizio internet, come è successo in Egitto.
Il pensiero unico dell'intellettuale collettivo illude la comunità occidentale a credere che sia sufficiente firmare una petizione online, condividere su Facebook una campagna politica o retwittare un appello per provocare un cambiamento sociale dall'altra parte del mondo. Le riflessioni di Morozov sono condivise da Malcom Gladwell, il geniale autore del New Yorker, e sono affrontate nella recentissima raccolta di saggi curata dalla filosofa Martha Nussbaum. The offensive internet, tra le altre cose, indaga sulla fallacia dell'idea romantica di internet come zona di libertà.
Mettere in guardia sugli abusi, sulle perversioni e sulle manipolazioni delle rete è doveroso, così come è giusto segnalare quanto le nuove tecnologie abbiano raffinato le attività di censura, di sorveglianza e di propaganda dei regimi dispotici. Ma è altrettanto vero che la rete ha cambiato il paradigma della battaglia politica fornendo alle opposizioni di tutto il mondo un impareggiabile strumento di comunicazione per organizzarsi, informare e chiedere conto al potere delle sue scelte.
Morozov sostiene che questi siano retaggi da Guerra fredda, strumenti politici di un'altra era, categorie che non funzionano più nell'epoca dell'informazione. Promuovere la democrazia via internet, secondo Morozov, è un'illusione perché la rete non è il samiszdat del XXI secolo, non è la scorciatoia per la liberazione dei popoli. Sull'Herald Tribune, l'editorialista Roger Cohen sostiene invece che la libertà di connessione sia uno strumento liberatorio e nel caso specifico della Tunisia anche un dono divino per tutto il mondo arabo.
Le tesi opposte di Morozov e Cohen non convincono in pieno. Far circolare informazioni non è un'arma specifica contro il comunismo, semmai contro tutte le società totalitarie. Twitter e Facebook non sono strumenti a disposizione dei regimi o dei ribelli. Sono il luogo dove si combatte la nuova battaglia, il terreno dove si coltivano le nuove dinamiche di potere. Internet e i social network sono le fotocopiatrici Xerox inviate trent'anni fa oltre la Cortina di ferro e le frequenze radiofoniche di Radio Free Europe durante la guerra fredda. Allo stesso modo possono essere usati in modo pernicioso dagli oppressori, per reprimere la dissidenza con più efficacia. Da soli, però, non sono né il bene né il male. internet è il mezzo, non il messaggio.
«Il sole 24 Ore» del 29 gennaio 2011

Satana non è più l'America

di Maurizio Molinari
L’America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam. Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».
E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.
In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.
La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.
«La Stampa» del 29 gennaio 2011

Curtius: il latino può salvare l’Occidente

di Davide Rondoni
Nel suo monumentale e prezioso Letteratura europea e medioevo latino, Ernst Robert Curtius cita lo studioso Pirenne, il quale in accordo con il Toynbee e altri importanti voci, fa coincidere con l’età dei Carolingi l’inizio di una nuova strada per l’Europa. E precisa il ruolo della dinastia in una nuova situazione causata dalla «trasformazione degli equilibri che l’Islam aveva causato». Gli effetti economici e politici della conquista araba sono, per questi studiosi, la causa dell’inizio di una nuova era chiamata secondo un «concetto ingiustificato» Medioevo. Altri hanno altre datazioni, ma basta quella considerazione per tracciare una delle possibili linee di valore attuale dello studio di Curtius. Uno dei suoi grandi propugnatori in Italia è stato Ezio Raimondi, conquistato dalla idea di Curtius attento sempre a presentare la «fenomenologia della letteratura» che è cosa ben diversa «dalla storia letteraria, dalle letterature comparate e dalle scienze della letteratura». E proprio anche per impulso della lezione raimondiana una piccola ma valorosissima casa editrice trentina La Finestra, che ora pubblica un epistolario del maestro con un distinto allievo, Karl Eugen Gass.
Ernst Robert Curtius è nato a Thann in Alsazia il 14 aprile 1886, Simmel e Wölfflin a Berlino, Lask e Windelband a Heidelberg lo hanno avviato allo studio della letteratura e della filosofia, ma fu Gustav Gröber a Strasburgo a introdurlo alla filologia romanza. Studioso di antico francese e dei moralisti francesi di epoca illuminista, Curtius fa conoscere in Germania anche la letteratura transalpina del Novecento: è tra i primissimi lettori e critici di Proust, ma le frequentazioni dirette e intellettuali spaziano da Bergson a Ortega Y Gasset, da Charles Du Bos a Valéry Larbaud. Considera da subito dei classici Thomas Stearns Eliot e James Joyce, è amico di Max Scheler, Leo Spitzer, Carl Schmitt.
Gli studi di letteratura antica e medievale, di Dante, della tarda latinità lo porteranno alla costruzione di Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948), frutto di almeno un ventennio di studi, che si intensificheranno all’inizio degli anni Trenta, quando prende corpo il dialogo con Karl Eugen Gass, morto a 32 anni nella seconda guerra mondiale.
Nella prefazione alla seconda edizione del grande studio, Curtius affermava che sua intenzione non è solo raggiungere finalità puramente scientifiche (che pure il suo contributo filologico ottenne in gran copia) ma esprimere la «preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale», mettendo in luce «con nuovi metodi l’unità di questa tradizione nello spazio e nel tempo. Nel caos spirituale contemporaneo è divenuto necessario, ma anche possibile, dimostrare questa unità. Ma ciò può esser fatto – aggiungeva ancora Curtius – solo da un punto di vista universale.
Questo punto di vista è offerto dalla latinità». La lingua latina come lingua della cultura di tredici secoli e come sostrato che rende comprensibili le lingue e le culture successive è per Curtius il grande vettore di una avventura conoscitiva e, come lui dice, spirituale. Tale avventura, come avviene per tutti i grandi maestri, avviene nello sforzo della ricerca e ugualmente, nella disponibilità alla conversazione con gli allievi. E anche in questo si può cogliere un altro elemento di attualità del problema posto da Curtius, rispetto al caos e ai cambiamenti con cui dobbiamo oggi anche noi fare i conti. «Non si può nascondere una certa emozione, dicono gli editori Marco Albertazzi e Stefano Chemelli (curatore del volume insieme a M. Buffa), quando si offre, in anteprima, un carteggio importante, che fa risuonare la voce europea di un dialogo eletto. Siamo di fronte a una testimonianza nuova che interessa il mondo tedesco, in uno strettissimo rapporto con la realtà italiana, nel momento cruciale e magnetico dei Trenta e dei Quaranta del Novecento.
Il testo comprende inoltre altri due inediti: una serie di pensieri e aforismi del Curtius, ritrovati nel fondo Hübinger dell’Università di Bonn, e una preziosa rassegna di brevi saggi che Karl Eugen Gass aveva dedicato rispettivamente a Federigo Tozzi, Emilio Cecchi, Aldo Palazzeschi, Riccardo Bacchelli, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti e Renato Serra, scritti nel tardo 1940 per l’edizione della sera della Kölnische Zeitung ».

Ernst Robert Curtius e Karl Eugen Gass, Carteggio (1933-1944) e altri scritti, La Finestra editrice, pp. 400, € 38 ,00
«Avvenire» del 29 gennaio 2011

Naturalismo, cavallo di Troia dei nuovi atei

di Roberto Timossi
Tra i tanti corsi e ricorsi storici della nostra epoca, assistiamo pure ad un rilancio del naturalismo in ambito evoluzionista ad opera soprattutto di scienziati e filosofi neodarwiniani e ultradarwiniani, i quali hanno lo scopo dichiarato di rendere inutile sul piano scientifico l’ipotesi dell’esistenza di Dio e di un Creatore intelligente. Storicamente, il naturalismo ha avuto fortuna nella prima metà del XX secolo in ambiente statunitense come concezione del mondo che rifiuta pregiudizialmente l’esistenza di entità extranaturali o sovrannaturali e che pertanto non è disposta a prendere in considerazione argomentazioni che non siano empiricamente fondate. Si tratta, in altre parole, di un’impostazione culturale che considera validi soltanto i concetti provenienti dalle scienze naturali e che assegna a quest’ultime un potere conoscitivo superiore a qualunque altro. Nella seconda metà del secolo scorso, tuttavia, il naturalismo filosofico anglosassone ha perso decisamente vigore in favore della filosofia pragmatista; e ciò anche perché è prevalsa la consapevolezza dei limiti del sapere scientifico e dell’impossibilità di attribuire ai soli risultati delle scienze naturali il carattere di vera conoscenza. Ci si è resi infatti conto che il decantato riferimento oggettivo alla natura era in realtà carico di elementi metafisici e, in alcuni casi, addirittura ideologici. In Italia la ripresa del naturalismo su basi evoluzioniste viene oggi apertamente presentata come una grande conquista del mondo laico, precisamente come la grande «possibilità laica del naturalismo», ma sfocia poi nella consueta polemica contro la fede cristiana e la Chiesa cattolica tipica del provincialismo laicista nostrano. Se qualcuno da noi osa infatti mettere in dubbio la validità della visione naturalistica fondata sull’evoluzionismo darwiniano, come ha fatto ad esempio lo stimato antropologo Fiorenzo Facchini, si ritrova tacciato senza mezzi termini di essere «un teologo al servizio dell’integralismo ratzingeriano». E ciò che più impressiona è scoprire che chi usa simili espressioni interpreta poi le critiche al suo naturalismo come un modo per squalificare moralmente l’avversario. Per i sostenitori italiani di quello che viene definito come il moderno naturalismo ontologico, le recenti conquiste delle scienze biologiche avrebbero reso definitivamente improponibile qualsiasi riferimento al soprannaturale e tutte le voci contrarie si autocondanne­rebbero all’oscurantismo. Proprio qui, però, risiede la debolezza tanto filosofica quanto scientifica dell’argomento neonaturalista. Tralasciando gli elementi polemici che c’entrano assai poco col tema del naturalismo, è infatti corretto far rilevare con chiarezza che se è impensabile una scienza della natura che non sia naturalistica, dal momento che per loro statuto le discipline scientifiche come la biologia non possono avere altro riferimento che quello dei fenomeni naturali empiricamente osservabili, non è per contro accettabile che sulla base delle scienze naturali qualcuno si senta legittimato a pronunciare giudizi scientifici su questioni extrascientifiche, come l’esistenza di Dio, la presenza dell’anima e la possibilità della fede religiosa. È evidente che chi coltiva questa pretesa finisce col trasformare il suo neonaturali­smo in ideologia o in cattiva metafisica, ritrovandosi così a perpetuare gli stessi errori che hanno sancito il tramonto del naturalismo filosofico novecentesco.
«Avvenire» del 29 gennaio 2011

Piazza bella e bugiarda

Dal Cairo a Cremona, storie emblematiche e istruttive sui social network
di Giuseppe Romano
Eventi vicini e lontani di queste ore. A Cremona due sedicenni attirate via Facebook a un incontro e poi violentate. In Egitto, nel corso dei disordini, 'oscurati' Facebook e Twitter.
Non per caso si chiamano social network: è lì che noi cittadini d’inizio terzo millennio ci incontriamo, in una piazza senza confini.
Quanto è vicina Cremona? Quanto è lontano il Cairo? Al di là della trepidazione per le persone coinvolte, sono eventi esemplari. In Egitto, come altrove, la mossa strategica dei governanti incalzati è quella di picchettare la piazza-Facebook (esattamente come nella cinese piazza Tienanmen o nell’argentina Plaza de Mayo ai tempi delle madri che invocavano i figli desaparecidos). A Cremona risalta l’opera di mistificazione compiuta da farabutti che, spacciandosi per ciò che non sono, raggirano ragazze disponibili a quella che sembrava un’amicizia e invece era un agguato. In comune alcune constatazioni: che nell’era digitale tutto è vicino e ci tocca, e che nelle nuove piazze elettroniche va in scena un autentico problema sociale. Benedetto XVI nei giorni scorsi ha messo un accento importante sulla questione dell’identità in rete. I quotidiani ne hanno tratto uno slogan sbrigativo e insufficiente: «Non fatevi profili falsi in Internet». In realtà l’invito del Papa è più circostanziato e va approfondito in una direzione non così banale. Perché se quello dell’identità, personale e collettiva, è un nodo centrale nelle società di sempre, oggi diventa cruciale nel momento in cui questa stessa identità può venire agevolmente mistificata e messa in discussione.
Secoli fa, pochi erano i modi per accertare che una persona fosse chi diceva di essere. Il messaggero del re galoppava lontano portando con sé l’anello regale che garantiva la veridicità del messaggio. Oggi siamo pronti a esibire un documento d’identità, ma è divenuto chiaro che questo non basta più: nei passaporti vengono inseriti chip elettronici che, contenendo informazioni fisiologiche sul proprietario (come le impronte digitali, o la scansione dell’iride), dovrebbero garantirne l’identità. Ma l’era in cui possiamo perfino interrogare il Dna per spremerne certezze inoppugnabili è anche la stessa in cui il 'furto d’identità', specie per via telematica, ha conosciuto una diffusione senza precedenti.
Privare qualcuno della propria identità, sostituendosi a lui a sua insaputa, è un atto gravemente offensivo. Toglie a chi lo subisce ciò che ha di più prezioso, la sua stessa consistenza libera e unica. Utilizzare strumenti elettronici per simulare d’essere altro da sé non è soltanto una truffa: uccide la fiducia tra le persone. C’è anche chi frequenta i social network fingendosi un interlocutore qualsiasi, e invece è lì per vendere prodotti.
Dopo essersi conquistato la fiducia con quelle che appaiono chiacchiere sincere tra mamme incerte sui prodotti per il proprio bebè, lascia scivolare un commento sui migliori pannolini da usare. E il gioco – l’inganno – è consumato, proprio in un mondo come quello dei social network dove la fiducia è la materia prima più preziosa.
Chiudere i rubinetti dei social network – come fanno i regimi vacillanti – è la via opposta per raggiungere lo stesso scopo: sopprime la fiducia negando il diritto alla verità. La cronaca ci conferma che, sfruttate o temute, le piazze virtuali si sono ormai aperte un varco destinato soltanto ad ampliarsi.
Imparare a farci i conti, con realismo avveduto, diventa sempre più indispensabile per comprendere l’umanità nostra compagna di strada, che con ogni mezzo comunica se stessa.
«Avvenire» del 29 gennaio 2011

Spot mortali: si lascia fare?

Illefali forzature eutanasiche
di Francesco D'Agostino
I radicali sostengono di amare la dignità dell’uomo. I radicali sostengono di di­fendere i diritti umani. I radicali afferma­no di venerare la nostra Costituzione e si indignano tutte le volte che la vedono u­miliata e calpestata. Ciò non di meno i ra­dicali continuano da settimane e setti­mane a far trasmettere da diverse televi­sioni locali (ma sono anche riusciti a in­trodursi in una rete nazionale) uno spot sull’eutanasia: uno spot che offende la di­gnità dell’uomo e che quindi non può che essere definito indegno. Uno spot che ci indigna, perché va contro un diritto u­mano fondamentale, e di rango costitu­zionale, quale quello alla vita. Uno spot che introduce, in un dibattito delicatissi­mo come quello sulla fine della vita uma­na, una dimensione mediatico-pubblici­taria, assolutamente indebita, pensata e­videntemente per orientare (non però at­traverso l’argomentazione, ma attraverso l’emozione) le decisioni dei parlamenta­ri che saranno presto chiamati a votare in via conclusiva sul disegno di legge sul fi­ne vita. Sono esagerate queste affermazioni? No. Anzi esse dovrebbero essere ancora più aspre, perché l’offesa che lo spot arreca al dignità umana è particolarmente subdo­la. La dignità umana, infatti, è offesa non solo quando viene sadicamente umiliata, ma anche, paradossalmente, quando vie­ne ideologicamente esaltata. Nello spot i fautori dell’eutanasia volontaria costrui­scono un’immagine irreale e quindi ideo­logica dell’ uomo, un’immagine nella qua­le il malato che 'sceglie' la morte e chie­de di essere ascoltato dal 'governo' ap­pare sereno, lucido, consapevole, corag­gioso e quindi esemplarmente ammire­vole: ma in tal modo (chissà se se ne ren­dono conto i radicali) essi sottraggono di­gnità, umiliandoli, a tutti i malati termi­nali che vivono la loro esperienza nella debolezza, nella solitudine, nella paura, nella fragilità e spesso nella disperazione, meritano paradossalmente il biasimo che va riservato ai pavidi, a chi non avendo il coraggio di chiedere l’eutanasia… Intervenire su di un dibattito così tragico e sottile come quello sul fine vita ricor­rendo, anziché ad argomentazioni espli­cite, articolate e sofferte, a uno spot umi­lia la democrazia, prima ancora che l’eti­ca. Sappiamo infatti che esistono visioni del mondo che banalizzano il dono della vita o che non riescono più a percepirne il senso quando la malattia si impadroni­sce ineluttabilmente del corpo. È dovero­so però che queste visioni del mondo, quando entrano nel dibattito etico, poli­tico e sociale rispettino fino in fondo i va­lori non solo formali, ma sostanziali del­la legalità. Legalità significa in primo luo­go rispetto sincero e onesto delle leggi vi­genti (anche di quelle che non si condivi­dono!) e nel nostro Paese è tuttora vigen­te una legislazione (per di più penale) e­splicitamente orientata alla difesa della vita e di quella terminale in particolare. Legalità significa correttezza nell’infor­mazione data al pubblico: i radicali non possono non sapere che le indicazioni sta­tistiche che essi forniscono in chiusura dello spot (e cioè che il 67% degli italiani sarebbe favorevole all’eutanasia) sono i­nattendibili, fino a che il termine non sia rigorosamente precisato nel suo signifi­cato. Legalità significa soprattutto rinun­cia a forme indebite di propaganda me­diatica, soprattutto quando la posta in gioco verte su temi etici fondamentali. U­no spot mediaticamente efficace attiva u­na sorta di corto-circuito mentale, indu­ce cioè a comportamenti fondati non su convinzioni autentiche e su scelte medi­tate, ma su emozioni, su sentimenti o peg­gio ancora su sottili e occulte forme di condizionamento psicologico. Lo spot sull’eutanasia sembra paradossalmente pensato per confermare l’accusa alla te­levisione di essere una 'cattiva maestra'. È davvero stupefacente che nessuna au­torità istituzionale – e ce ne sono diverse che possiedono e dovrebbero riconoscersi e onorare una competenza in questo cam­po – abbia preso posizione in merito, mal­grado le tante esplicite sollecitazioni ri­cevute.
«Avvenire» del 29 gennaio 2011

28 gennaio 2011

Il matrimonio (legale e solido) fa bene: benefici mentali per lei e fisici per lui

Una ricerca dell'Università di Cardiff ha analizzato le vite di un milione di europei, scoprendo che le persone stabilmente sposate hanno un tasso di mortalità inferiore del 10-15%. Più dura l'unione, più crescono i benefici. E l'Oms avverte: "Effetto meno positivo per i conviventi"
di Elena Dusi
"Tutto sommato, vale la pena di fare lo sforzo". Il British Medical Journal prende in esame il matrimonio e i suoi effetti sulla salute. Soppesati pro e contro, i medici promuovono la stabilità della vita di coppia, che favorisce l'equilibrio emotivo nelle donne e obbliga gli uomini a darsi da fare per frenare il declino fisico.
"Le persone sposate - concludono David e John Gallacher (padre e figlio) dell'università di Cardiff - hanno un tasso di mortalità del 10-15 per cento più basso rispetto alla media". Per le donne, la soddisfazione di una relazione stabile ha effetti soprattutto sulla psiche. Per gli uomini, la pressione delle mogli affinché mangino cibo sano e riducano gli stravizi funziona invece sul piano fisico.
Lo studio, condotto su oltre un milione di persone in sette paesi europei, è pubblicato dal British Medical Journal come editoriale in vista di San Valentino. Anche se il suo tono a volte è leggero e scherzoso, lo studio conferma i risultati ottenuti in molte ricerche passate sui benefici di una vita di coppia stabile rispetto alle altalene emotive dei rapporti mordi e fuggi. Equilibrio, vita sana, una vasta rete di amicizie e il supporto della famiglia allargata fanno propendere la bilancia verso il "sì". Ma come ogni medicina, anche il matrimonio può avere effetti collaterali e richiede le sue precauzioni.
"Affinché Cupido possa fare bene alla salute, è richiesto un certo grado di maturità", raccomandano i dottori Gallagher. Secondo i quali, le cotte adolescenziali saranno anche esperienze da sogno capaci di far raggiungere al cervello picchi intensi di dopamina, "ma risultano spesso in un aumento dei sintomi depressivi". E non hanno gli stessi benefici dei rapporti a lungo termine "in cui prevale l'ormone dell'attaccamento, l'ossitocina".
L'età consigliata dai medici per impegnarsi in una relazione seria è 25 anni per gli uomini e 19 per le donne, anche per ragioni di maggiore fertilità. Più a lungo il matrimonio dura, maggiori saranno i benefici per la salute. Ma se proprio l'unione non dovesse funzionare, vale il vecchio adagio "meglio soli che male accompagnati". Non è delle più sorprendenti la conclusione dei dottori Gallacher secondo cui "Non tutte le relazioni fanno bene alla salute, i rapporti tesi e difficili hanno un impatto negativo sull'equilibrio mentale e la loro rottura produce effetti benefici. Molto meglio allora tornare a essere single".
I buoni consigli dei medici inglesi (gli stessi che da sempre hanno dato le mamme) si appoggiano anche a un rapporto pubblicato l'anno scorso dall'Organizzazione mondiale della sanità. Sposarsi (e solo sposarsi: convivere non è la stessa cosa, soprattutto per le donne) riduce depressione, ansietà e sbalzi emotivi. L'università di Chicago ad agosto scorso ha misurato il livello di cortisolo, un ormone legato allo stress, in un gruppo di individui e ha notato che nelle coppie sposate il valore era ridotto. Mentre uno studio della Michigan State University, pubblicato a dicembre, ha trovato che gli uomini sposati si comportano meglio dei single: bevono meno e commettono meno reati.
«La Repubblica» del 28 gennaio 2011

Rapporto democrazia - diritto

Brano tratto dall'enciclica Centesimus annus (1991)
di Giovanni Paolo II
Un'autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l'educazione e la formazione ai veri ideali, sia della «soggettività» della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l'agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia (n. 46).
Postato il 28 gennaio 2011

B. Brecht sull'indifferenza

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare.
postato il 28 gennaio 2011

Potere della retorica

I misteri e la genialità (per alcuni, l'immoralità) dell'arte retorica
di autore anonimo dei Prolegomena in artem rhetoricam (XIV 26, 11)

Il potere mistificatorio e le possibilità di manipolazione della parola sono esemplificati da un notissimo aneddoto, di cui sono protagonisti due antichi oratori, considerati i primi artefici di τέχναι ῥητορικαί, ovvero di «manuali teorico-pratici di arte oratoria».
Si tratta di Corace e Tisia, che secondo la tradizione furono maestro e discepolo.
La scena è a Siracusa, nella prima metà del V secolo a.C.
Corace, maestro prestigioso e affermato, tiene una sorta di “scuola privata” alla quale si dirigono i giovani di belle speranze per imparare i rudimenti della retorica, una “scienza” ancora agli albori. Un giorno gli si presenta Tisia, un giovane intelligente e squattrinato, interessato ad apprendere i segreti del parlare in modo efficace e persuasivo.
Corace si commuove, di fronte all’entusiasmo del suo giovane interlocutore e decide di accettarlo gratuitamente come discepolo, a questo patto: Tisia avrebbe pagato l’onorario al maestro nel momento in cui avesse affrontato e vinto il suo primo processo, dimostrando così di essere diventato oratore abile e in grado di guadagnarsi da vivere.
Passa il tempo, le lezioni si sono ormai concluse, ma Tisia continua a rimandare il giorno del suo primo processo. Corace comincia a seccarsi, perché ritiene l’allievo ormai perfettamente in grado di destreggiarsi con l’arte che gli è stata insegnata.
Ma poiché Tisia pervicacemente rimanda l’attività forense e si rifiuta di pagare il maestro, Corace lo cita in tribunale, ma Tisia risponde alla richiesta di pagamento:

«No, se mi hai insegnato bene la retorica devo essere in grado di convincerti che non ti devo niente, e non ti do niente. Se non mi riesce, se io non sono capace di convincerti che non ti devo niente, vuol dire che non mi hai insegnato bene la retorica, e in tutti e due i casi non ti pago».
L'altro, Corace, a sua volta gli ha risposto: «Se tu riesci a convincermi che non mi devi niente allora vuol dire che ti ho insegnato bene la retorica e quindi mi paghi. Se non riesci a convincermi mi paghi perché non mi hai convinto. In tutti e due i casi mi paghi»".
postato il 28 gennaio 2011

Gabriele D'Annunzio, Forse che sì, forse che no (1910)

« - Forse - rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.»

Così inizia quello che Roncoroni definì emblematicamente — scegliendolo come titolo del suo intervento a un convegno dedicato al Forse — «l’ultimo romanzo» del Vate. Fu infatti lo stesso d’Annunzio a definire il successivo La Leda senza cigno (1916) un semplice “racconto”.
La donna a pronunciare quel “forse” è Isabella Inghirami, probabilmente nella realtà la contessa Giuseppina Mancini, come risulta dal taccuino del 14 agosto 1908: «Il vento agita il velo bianco di Giusi». La stesura del romanzo era iniziata con qualche difficoltà già l’anno prima, ma il lavoro non pareva decollare. Quel “forse” sarà un leitmotiv e già ben descrive i continui ripensamenti di Isabella che, innamorata di Paolo Tarsis, prova continui rimorsi per quel suo sentimento: sarà questa indecisione a renderla ancor più affascinante e desiderabile agli occhi dell’amato. Il suo carattere è mosso dall’alternarsi di momenti di ritrosia ad attimi di lascivia furibonda; sente però sempre su di lei il senso di colpa, così profondo e persecutorio da generare nella sua mente stati allucinatori e paranoie. La sorella Vana, nella sua mente, da nome diventerà fantasma e voce. Vana è una visione ossessiva e continua, perché (è questa la causa dei mali di Isa) anche Vana è innamorata di Paolo, pur non essendo corrisposta. Vana, pagina dopo pagina, occuperà sempre più spazio nella mente della sorella, che sentirà sempre più prepotentemente, nella notte stellata come nella sua anima, i passi agitati della solitaria vergine suicida. Amore e gelosia le agiteranno. Suicidio e follia le separeranno.

In quel maggio del 1907, fra il 24 e il 26, Gabriele d’Annunzio è nella terra dei Gonzaga, dove forse spera di trovare sollievo ai tormenti d’amore. «Domattina potrei partire con la stessa automobile per Mantova» scrive all’amante Giuseppina, contessa nata Giorgi e sposa a Lorenzo Mancini. Quell’autobiografico “forse” (recuperato dai suoi carteggi) simboleggia anche il modus operandi e l’arte di d’Annunzio; egli pesca eventi dai suoi taccuini e dalle sue lettere; trasfigura paesaggi e ambienti visti; condensa immagini appartenenti a esperienze diverse; sovrappone e ricompone innumerevoli situazioni e vicende amorose e personali della sua vita nell’arte. È nota fin dai tempi del suo primo romanzo (Il piacere, 1888-1889) l'abitudine scrittoria che lo spinge a inserire nelle opere, con molti rischi — ricordiamo nel caso del Forse la disputa quasi legale con gli Inghirami —, importanti frammenti della sua vita, come ad esempio quelli allora tratti dalle lettere a Barabara Leoni.
Stupisce in d’Annunzio non tanto questo suo far arte della vita, quanto quel suo far dell’arte vita stessa. Spesso infatti la voce e il pensiero di Paolo Tarsis (o dei suoi personaggi romanzeschi) diventeranno ispiratori di frasi e pensieri che poi il Vate inserirà nelle lettere da spedire alle amanti. Risulta complesso quindi, da questa ambiguità, ricostruire filologicamente la sua arte deducendola dalla sua vita, magari separandole. E se inizialmente nel Forse la già citata Manicini e la Franci (amica e per una notte amante) diventano rispettivamente Isabella e Vana, successivamente a ispirare le gesta delle due protagoniste saranno anche le altre donne che in quei mesi accompagneranno i viaggi d’amore del poeta: Nathalie de Goloubef, Beatrice Alvarez de Toledo e il marito Illan de Toledo (Aldo nel romanzo). Verrà ricordata anche la Duse e il loro viaggio in Egitto. Nel lungo flashback sulle avventure di Paolo e Giulio, alle immagini egiziane si aggiungeranno immagini algerine, prese dai libri del pittore Formentin sui viaggi in Algeria, e visioni di paesaggi remoti, raggiunti in quegli anni dall’esploratore inglese Henry Savane Landor (conosciuto da d’Annunzio a Firenze). Compariranno anche citazioni alle anticipazioni futuriste del Marasso di La nuova arma. La macchina (1905), e richiami alle imprese del volo eroico dei fratelli Wright (settembre 1908): Giulio Cambiaso è Orville Wright, precipitato durante un tentativo di record di volo; Paolo Tarsis è invece Wilbur Wright, che vendicherà la morte del fratello-amico sorvolando e superando traguardi mai raggiunti prima.
Il Forse è ambientato fra le «più moderne vicende» dell’epoca ma questo modernismo non dev’essere frainteso. La macchina viene quasi glorificata: nell’iniziale precipitosa corsa verso Mantova della macchina rossa lanciata in una furibonda gara mortale; nella gara verso il cielo sull’ordigno dedaleo lanciato «a un’altezza non raggiunta mai»; nei voli d’amore sull’Arno e su Pisa; nella folle corsa nei pressi di Covigliaio verso Firenze e verso Isabella e poi ancora nell’attraversamento del mare «d’Ulisse e d’Enea» sull’Ardea verso la morte, poi vinta dalla quasi gridata «volontà di vivere». Ma questo continuo alternarsi di «rapidità che striscia» e «di rapidità che si solleva» non deve però trarre in inganno: non bisogna fraintendere il Modernismo con il Futurismo, che proprio in quegli anni stava nascendo. La celebrazione del meccanismo perfetto è anche demistificazione. Fra rombi guerreschi e settuple consonanze si scopre come a essere glorificato sia l’uomo, nonostante tutto, più che il mezzo. È un uomo silenzioso, assorto e chiuso nei suoi pensieri ermetici. Sopra la pulsazione del motore e il riso della donna c’è «un silenzio senza confine», una «solitudine aerea», il dolore e l’attesa. La volontà è l’unica difesa e arma dell’uomo; una volontà temeraria, perfetta, rude, tesa, cieca, tortuosa, vacillante, disperata, angusta e vittoriosa; la volontà di giungere, di piangere, di martirio, di ripulsa, di vivere e di gioco. Ma l’unica potenza senza limiti capace di disarmarla è l’amore: il turbinio dell’amore. L’amore implacabile vince Isabella, vince Vana, Aldo e Paolo; è l’amore a sfidare «la morte compagna d’ogni gioco che valga la pena d’esser giocato». Perché nulla è certo fuorché la crudeltà e la fame del cuore. L’amore e l’amicizia sono i protagonisti, e nello strazio e nella voluttà sono una sola febbre. Quella voluttà selvaggia, sanguigna, letale, nemica e nuova, piloterà il funzionamento del «congegno esatto» che dipende scioccamente anche dallo «scocco di una scintilla», dal «distacco di un filo», dalla rottura di un’elica o dal «distacco di una tavoletta contrapposta al tubo di scarico». Ciò che sospinge la macchina è insomma l’uomo, e solo nella competizione folle e nella follia di un atroce senso di colpa fraterno, l’impossibilità di voler ridiscendere o di svoltare immediatamente sull’erta ripida e stretta, viene detto “destino”. Senza uomo la macchina è una «carcassa inanime».
A questo modernismo (a tratti anche drammatico) dei temi, tipico dell’euforia meccanica dei primi anni del ‘900 e prima degli eventi bellici, si aggiunge la classicità, la citazione erudita e il recupero dei classici. Esemplare il volo verticale di Cambiaso: «E affascinato dal cielo si portò più in alto. La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera odorosa che teneva unite le penne. Si strusse, la cera» (Ovidio) e «non più col disco di bronzo ma con l’ala di canapa […] forse tal fu la prima penna caduta dall’omero d’Icaro» (d’Annunzio). Così inizia la descrizione dell’aereo di Giulio che inizia a precipitare: con la rievocazione della vicenda di Dedalo e Icaro delle Metamorfosi (tema già peraltro utilizzato per chiudere la serie di Ditirambi). Sono innumerevoli gli altri esempi possibili. Grande è l’eco delle immagini antiche che rimbombano fra le mura del palazzo dei Gonzaga, come anche nei nomi Dauno e Pilumno; rievocazioni e citazioni che si confondono ancora una volta con gli appunti registrati sul taccuino: «In un soffitto del Palazzo a Mantova è rappresentato un labirinto d’oro in campo oltremarino; e vi ricorrono parole dubitose: “Forse che sì” “Forse che no” ».
E fra il giallo del sole su Mantova e Brescia, e il blu del mar d’Enea e Ulisse, si compierà il romanzo dannunziano.
Il libro inizia nelle strade verso la “Mantua” virgiliana e si può dire che finisca col decollo dalla spiaggia della virgiliana Ardea. L’evocatività di Ardea, decadente già ai tempi di Virgilio e dell’Eneide, ma soprattutto le pagine con le descrizioni della ruina della reggia estense e di Volterra — «costruita di quella pietra etrusca che imprigiona il sole, sopra una voragine infernale che sembra scavata dall’irosa fantasia dantesca» (a Emilio Treves, 30 ottobre 1909) — meglio di qualsiasi studio critico e di qualsiasi altro romanzo ci consentono, fra l’altro, di ripercorrere in chiave decadente e romanzesca Le città del silenzio.
Le descrizioni nel Forse del Palazzo di Mantova e quelle del Palazzo di Volterra devono essere considerate il più chiaro manifesto del Decadentismo italiano, colto in tutta la sua cupa forza evocativa e nel momento più profondo: lontano dalle fuorvianti aspirazioni aristocratiche, eroiche (tutte europee) di Effrena o Sperelli e lontano dagli eccessi di A rebours o dall’ostentato gioco aforistico di Wilde. D’Annunzio in queste sue pagine così prossime all’esilio francese e così vicine all’Uomo, alla fragilità della mente e alla follia (a Volterra discuterà a lungo con uno psichiatra per rappresentare la pazzia di Isabella), si proclamerà «leso dalla vita». Il Forse che sì, forse che no è «un romanzo di passione mortale», dirà lui stesso in una lettera a Treves datata 30 agosto 1908. Il Forse dà vita alle figure shakespeariane, disseppellisce i mostri dell’Inferno dantesco facendoli vagare per Volterra (come dimenticare Andrea de’ Mozzi?), ha il coraggio di denunciare il “lordume” che si cela dietro ogni sentimento e dentro ciascuno di noi. C’è il fazzoletto dell’Otello, la prova del tradimento subito e dell’affronto. Ciò che in William era lirica creazione e geniale immaginazione metaforica, qui diventa tragico simbolo e realtà: c’è Iago in Isabella e in Vera. E in Paolo, come in noi stessi, convivono l’amore, la dolcezza, l’invidia, la gelosia e la violenza: incubi e vizi di ogni uomo. «Ma chi può giudicare l’amore? E chi può dire il termine della voluttà e il termine del tormento, e dove il bene cessi d’essere il bene, e per che modo una nuova vergogna crei un amore nuovo, e di che cosa debba vivere l’amore per piacere alla morte? Come fate voi a condannare e ad assolvere?». Forse, proprio in questa consapevolezza del dubbio e dell’incertezza, sta tutta la modernità di quest’opera. Il ripetersi come un'eco di quel nome simbolico (Vana), ricorda il drammatico ripetersi dell’onomatopeico «Nevermore» del Corvo di Poe; Vana compare riflessa nei cristalli della galleria degli Specchi nel palazzo dei Gonzaga (specchio, tema già caro al d’Annunzio della Contemplazione), dove si specchia Isabella con il volto di Tamar [cfr. Samuele, II, XIII.] della quale il fratello Ammon (Aldo nel romanzo) si innamorerà. La presenza e l’ombra di Vana incombono su ogni cosa.
C’è in Tarsis l’incapacità di compiere, fino in fondo, atti eroici: l’incertezza accompagna ogni atto di forza. Nulla, nessuna impresa è possibile senza davvero temere la morte e senza davvero sentirsi ancorati alla preziosità della vita; pur stando fra le nuvole, verso la morte, la vita si fa improvvisamente sentire nel bruciore del piede che vuole essere lenito. Parafrasando il Vate direi che nel Forse di eroico c’è solo il sentimento dell’amicizia, non l’uomo — le ultime righe del romanzo liquidato nel 1910 erano diverse e ben più significative: «… scivolò fino alla riva, e tenne il piede immerso nel mare». Nel 1927 il nuovo finale (l’attuale) diventò: «… parve che gli medicassero la piaga immersa gli spiriti del mare». Questa modifica (l’unica poiché gli altri furono ritocchi di punteggiatura) ha spesso fatto fraintendere il messaggio di tutto il romanzo. Sembrerebbe infatti che quegli attenti spiriti del mare rappresentino l’eroicità dell’uomo. Invece non devono essere sopravvalutati i riemersi caratteri del superuomo, riconoscibili in quel già citato medicamento: tutto il romanzo è basato sull’umana incertezza, presente in ogni azione, in ogni personaggio. Possiamo giustificare e comprendere quella correzione al finale se pensiamo alla mutata situazione politica italiana del ’27 rispetto ai tempi dell’intera stesura del romanzo. Resta tuttavia un dubbio: perché la Mondadori ha scelto di pubblicare la versione del ’27, narrativamente meno coraggiosa? Il finale del 1910, non rappresenta forse un caso stilisticamente eccezionale nella prosa di d’Annunzio e che pertanto andrebbe preferito al rimaneggiamento successivo, che andrebbe messo in nota?
In tutte le immagini del romanzo, come in un certo Naturalismo che evoca Balzac e i suoi personaggi, v’è la corrispondenza fra l’animo e le cose: un viso d’angelo si trasforma in demone, una creatura tremante si trasforma in titanica sibilla michelangiolesca… «Vedi? vedi? […] sono io così, dentro di te? È così la tua arsura?» chiede Isa al compagno disperato mentre guardano una «terra senza dolcezza, una landa malvagia, un deserto di cenere». «Il casale tristo come i tufi […] con un solo cipresso nero in tanta pallidezza, ritto su la sua ombra corta» e le Balze, rispecchiano la desolazione di un paesaggio tutto interiore. Il paesaggio triste simboleggia la tragica storia dei protagonisti, e anche le stelle cadenti nella notte di san Lorenzo, come sgorgate lacrime di fuoco bianche, colano sulla faccia della notte e si precipitano dall’alto come silenziosi e terribili responsi di morte, come un profetico pianto di stelle, sul triste destino dei protagonisti. Tutto è ammantato da un’aura misteriosa che accompagna la sventura. La natura è «chiamata a far da testimone», e le cose misteriosamente paiono contenere un sovrasenso, in un regime di coincidentia oppositorum, così da far apparire in tutte le manifestazioni del visibile la molteplicità e l’incertezza dell’animo umano.
Ed è significativo che proprio quel paradisiaco hortus conclusus di Isabella (il suo amato giardino di gelsomini), confini con la «reggia della Follia»: il manicomio.

Fonte: http://www.italialibri.net/opere/forsechesiforsecheno.html

Postato il 28 del gennaio 2011