28 dicembre 2020

Dante e i Fedeli d'Amore: soltanto fake news

La “setta” cataro-templare di cui avrebbe fatto parte Dante è il fortunato frutto di una mistificazione novecentesca Ma i filologi ignorano le lacune dantesche sul neoplatonismo
di Franco Cardini
Nell’approssimarsi del 2021, “Anno Dantesco” – e nella speranza ch’esso ci porti in dono anche la liberazione dall’epidemia – , è utile auspicare che alcune questioni dantesche vengano definitivamente risolte; e che su alcuni equivoci si faccia finalmente piena luce. In tempi di trasformazione epocale della “cultura diffusa” in seguito alla crisi delle istituzioni tradizionali scolastiche e universitarie e del diffondersi dei social (con la conseguenza allarmante di un intensificarsi della confusione dei linguaggi e della perdita progressiva di ancoraggi culturali autorevoli sui quali fondarsi) stanno pericolosamente riemergendo questioni dalle quali speravamo di essere definitivamente usciti. Una delle più divertenti da un lato e angoscianti dall’altro, e che riguarda appunto Dante e il suo tempo, è quella dei “Fedeli d’Amore”. Una strana storia, un equivoco nato fra Otto e Novecento e in seguito bizzarramente trascinatosi in seguito all’affermarsi nella nostra cultura sia d’élite, sia “diffusa”, dell’interruzione di un dialogo che ha dato luogo a una sorta di schizofrenia, di dialogo tra sordi.
Nel sonetto dantesco A ciascun’alma, il primo accolto nella Vita Nova (III), il giovane poeta c’informa di essere stato còlto nella sua stanza “da un soave sonno” dopo aver incontrato diciottenne (si era quindi verso il 1283) per la secondo volta “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. Durante il sonno, egli narra di essere stato visitato verso l’alba da uno di quelli che Carl Gustav Jung avrebbe definito “sogni significanti”: svegliatosi, aveva composto un sonetto e lo aveva inviato alla ristretta cerchia di coloro che egli chiama “tutti li Fedeli d’Amore”– Guido Cavalcanti e Lapo Gianni principalmente –, pregandoli “che giudicassero la mia visione”. La quale era terribile: Dante aveva sognato il loro “signore”, cioè Amore personificato, in quale teneva fra le braccia “madonna” (cioè Beatrice) addormentata e in mano il cuore di Dante stesso, ardente; e, svegliatola, la costringeva spaventata a mangiarlo. Il “cuore ardente” e il “cuore mangiato” sono immagini archetipiche fondamentali nella nostra cultura, e anche in altre: ne parla anche il Boccaccio, nella nona novella della IV giornata del Decameron. L’ispiratore primario del giovane Dante era il poeta Guido Guinizzelli, il quale a sua volta era divenuto un celebre caposcuola per la sua canzone Al cor gentil, nella quale con efficace e affascinante chiarezza, ma sulla base di un’esile autocoscienza filosofica, aveva diffuso la lezione ripresa in pieno XII secolo dal trattato De amore di Andrea Cappellano, chierico al servizio di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII di Francia e della grande Eleonora d’Aquitania, e pertanto sorella di Riccardo Cuor di Leone.
Ora, Eleonora aveva fatto conoscere in Francia settentrionale, cioè nel “paese della lingua d’oïl”, la poetica di suo padre Guglielmo IX, duca d’Aquitania e celebre trovatore, fondata sul servizio dell’innamorato all’amata: il primo considerato vassallo (fizel, cioè fidelis) della seconda, che gli ha concesso in feudo il suo stesso cuore. Ma la dottrina di Andrea era una metafora del magistero relativo all’amore che risaliva a Platone e che, dopo aver animato tutto il neoplatonismo medievale, era giunto nella cristianità occidentale alla sua piena maturazione con il platonismo della scuola di Chartres, cui ha dedicato un “classico” Tullio Gregory con il suo Anima mundi (nuova edizione, Fondazione CISAM, Spoleto 2020). Il fatto è che l’aristotelismo scolastico di Tommaso d’Aquino, principale referente di Dante, aveva spazzato via un insegnamento senza il quale gli stessi Agostino e Boezio, capifila della filosofia cristiana medievale, risultavano quasi incomprensibili, e durante il secolo XIX Dante e il suo richiamo ai “Fedeli d’Amore” (ormai divenuto un gruppo penitenziale esclusivo e segreto) era stato reinterpretato in modo tanto originale quanto obiettivamente mistificatorio da un professore liceale di filosofia, Luigi Valli (1878-1931), il quale aveva reinterpretato il misticismo politico laicista “ghibellino” di Ugo Foscolo e di Dante Gabriele Rossetti ohimè legittimato dalla sterminata, equivoca erudizione di Giovanni Pascoli. Era così nata la “sètta” medievale dei “Fedeli d’Amore”, oscuramente collegata al catarismo, al templarismo e alla Weltanschauung massonica, alla quale avevano fornito credibilità gli stessi saggi dell’esoterista René Guénon. Il tutto era stato sigillato da un altro geniale pasticcione, Alfonso Ricolfi, anch’egli documentatissimo critico dei “Fedeli d’Amore” e delle “Corti d’Amore” in polemica col Valli. Bisogna dire che i professionisti della ricerca storico-filolgica dantesca, anziché replicare mostrando semplicemente gli equivoci generati dalle scarse cognizioni filologiche del giovane Dante (e anche di quello non più giovane) a proposito del neoplatonismo antico e medievale, si erano dottamente impegnati a sottolineare che i “Fedeli d’Amore” non erano mai esistiti con l’aiuto di ottimi documenti autentici, che per loro natura tutto potevano però provare meno che l’inesistente fosse mai esistito. Risultato di tutto ciò, un’incredibile follia schizofrenica: da una parte storici e filologi occupati a scomunicare – si leggano le pagine del Garin, del Viscardi e del Sapegno – l’inconsistenza e l’irrazionalismo dei seguaci del Rossetti e del Valli, dall’altra coloro che ne approfondiscono incuranti le tematiche.
Il punto però è che entrambe le “scuole” – chiamiamole così – sono partite da Dante e hanno seguito le polemiche nate sui “Fedeli d’Amore” fino ai giorni nostri senza ascoltare mai l’altra campana. Sarebbe stato sufficiente che gli studiosi seri e i dantisti filologicamente attrezzati avessero ricostruito – e avrebbero potuto ben farlo – le lacune di Dante relative ai fondamenti neoplatonici dell’Amor cortese. Il Contini e il Vinay c’erano andati vicini; nel segno aveva colpito la scuola di Maria Teresa Beonio Brocchieri, che però non si era preoccupata di “disincantare” né il Pascoli né il Valli. Oggi, Franco Galletti torna sui “Fedeli d’Amore” con La bella veste della verità (Mimesis, pagine 602, euro 32,00), nel quale ricostruisce l’influenza della dottrina avviata (involontariamente) dal giovane Dante sui secoli successivi senza però nemmeno toccare “l’anello debole”, la sua inconsistente conoscenza del neoplatonismo del XII secolo che gli avrebbe fatto capir tutto; e sì che nel frattempo il capolavoro di Tullio Gregory è stato ristampato (esaminate il silenzio della sua bibliografia su alcuni autori a proposito di catari, di poesia francese medievale e di templari: capirete tutto). Quanto ad Alberto Ventura, che ha fornito al Galletti l’assistenza delle sue solide cognizioni islamologiche, egli parla certamente con ottime ragioni del sufismo musulmano, senza avvertirci (non era suo compito il farlo) che esso – pur essendo l’islam, col commento aristotelico di Averroè, alla base della scolastica tomista – non aveva mai reciso né dissimulato il rapporto con la tradizione neoplatonica. Insomma: un grazie a Rossetti che ha riportato la nostra attenzione sull’equivoco tardoromantico-esotericomassonico della lettura di Dante e un invito a tutti a riprendere in mano le cose dal principio. Cultura, alla fine e nella sostanza, è questo: avere il coraggio e l’energia di rimettersi in discussione.
«Avvenire» del 1° dicembre 2020

Dietro le quinte del libro e delle sue "diavolerie"

Dalla fascetta al risvolto, dalla copertina alla dedica, Valentina Notarberardino in un volume ricco di citazioni, retroscena e curiosità viaggia nel "paratesto" di Genette
di Giuseppe Matarazzo
La fascetta (per le allodole) che promuove il curioso volume strilla su un cartoncino color giallo acceso il seguente “avviso”: «Tutti i segreti dei libri (bestseller e non)». Ma dopo aver letto Fuori di testo. Titoli, copertine, fascette e altre diavolerie di Valentina Notarberardino (Ponte alle Grazie, pagine 336, euro 18,50), ci permettiamo di comporne un’altra. Che potrebbe suonare più o meno così: «Attenzione, può nuocere gravemente alla lettura». Bibliofili e frequentatori delle librerie, fisiche e digitali, non si allarmino. Leggano senza paure questo prezioso volume sui libri e i suoi tanti backstage, ma consapevoli di un fatto, un pericolo “sano”: a furia di scoprire tutti i segreti dei libri finiranno per leggere con occhi diversi e per soffermarsi su tantissimi particolari a cui prima forse non avevano fatto caso. Fascette, appunto. E poi copertine, dediche, epigrafi, introduzioni, ringraziamenti, indici, risvolti, prefazioni, bandelle, note, ritratti ... Tutto quello che il nume tutelare dei margini libreschi Gérard Genette in un testo celebre, del 1987, che si intitola Soglie, ha raccolto nella grande categoria del “paratesto”. Ecco, Valentina Notarberardino, responsabile della comunicazione di Contrasto con una solida formazione editoriale alle spalle, prende tutti gli elementi del paratesto, tutti i margini, tutte le soglie e in maniera colta e brillante li passa in rassegna, spiegandoli e corredandoli di una infinità di citazioni, di aneddoti, di curiosità e retroscena. Il risultato? Un libro sui libri, una bibliografia sterminata e un sacco di sorprese editoriali.
Una narrazione che segue anche guide d’eccezione che hanno accettato di svelare i segreti dei propri libri, come Edoardo Albinati, Diego De Silva, Melania G. Mazzucco, Giancarlo De Cataldo, Nicola Lagioia e tanti altri che l’autrice conosce, incontra e stuzzica. Ogni capitolo, ogni intrusione in un paratesto apre un mondo, genera una carrellata di titoli e di racconti. Margini di libro con cui l’autrice stessa si misura e “gioca”. Per cui la sua dedica è «a qualcuno, di sicuro», la post fazione è una frase («la casa editrice mi fa sapere che abbiamo finito lo spazio»), l’introduzione è un dialogo con il possibile lettore. «Mi sono divertita ad analizzare e ordinare le tendenze paratestuali italiane dei mirabolanti anni Duemila – scrive Notarberardino proprio in quelle pagine iniziali –. Protagonista assoluta è la narrativa: quindi vedrai le copertine di Paolo Giordano, i ringraziamenti di Sandro Veronesi, i ritratti di Andrea De Carlo, le fascette firmate da Andrea Camilleri, ma che un’insolita nota bibliografica di Andrea Mirabella, insieme alle misteriose Elena Ferrante, Valentina F. e altri pseudonimi. Sotto la mia lente d’ingrandimento spesso sono capitati anche gli anni d’oro dell’editoria italiana, con il carico di vari testi scritti da Italo Calvino per le quarte di copertina, uno spiazzante risvolto–stroncatura di Elio Vittorini al suo autore Beppe Fenoglio, una galeotta prefazione di Alberto Moravia per l’esordio di Dacia Maraini, un’inaspettata dedica di Pier Paolo Pasolini a suo padre. Camminando sui margini testuali ho incrociato talvolta grandi classici internazionali. Ecco che tra le pagine incontrerai anche la postfazione di Lolita, lo scarafaggio di Kafka, Il giovane Holden e qualche presa di posizione paratestuale di Louis–Ferdinand Céline».
Un occhio di riguardo – non potrebbe essere diversamente – l’autrice dedica alle copertine («l’abito che fa il monaco ») e ai ritratti («faccia da libro»). Una panoramica di casi, dagli stili ben riconoscibili di Sellerio e Adelphi, alle più estrose e costruite, cercando di capire come nascono, con i protagonisti, come Riccardo Falcinelli che con il suo studio grafico produce trecento copertine l’anno per vari editori e per il suo volume appena uscito per Einaudi, Figure, dopo il bestseller Cromorama, ha preparato la bellezza di 220 bozze: «Stavo impazzendo, mi sembravano tutte sbagliate», ammette fra le righe. A finire in copertina, è spesso, in Italia e nel mondo una foto di Ferdinando Scianna (a cui ricorre peraltro l’autrice per la sua foto del risvolto): «Hanno usato una mia foto – racconta il fotografo di Bagheria, primo italiano ammesso in Magnum Photos – per almeno sette/otto edizioni internazionali della Ferrante. La cosa curiosa è che sono state usate molte mie foto di moda, probabilmente perché la mia fotografia di moda è di tipo narrativo», basti pensare al celebre servizio per Dolce&Gabbana con la modella olandese Marpessa Hennink fotografata in Sicilia, il cui volto appare su diverse edizioni straniere de L’amica geniale, romanzi ambientati però a Napoli. «Gli stranieri identificano il sud Italia come un meridione indefinito», dice Scianna, «fare una copertina con la mia foto siciliana serve a dare al lettore il profumo di quello che troverà dentro al libro».
«Se è vero che la copertina non è il libro, è certo l’elemento su cui gli editori puntano di più - riprende Notarberardino -. Il primo criterio che li guida nella realizzazione, di fatto, è quello estetico. Foto a effetto, illustrazioni coloratissime, grafiche irresistibili ...». Al punto che Giorgio Manganelli invitò a considerare il libro come «un accessorio rispetto alla pagina di presentazione», e lo scrisse nel risvolto della prima edizione di Nuovo commento: «Vorremmo suggerire al lettore di considerare il libro in cui si imbatterà poco oltre in primo luogo come supporto per copertina ». D’altra parte già dalla fascetta, il “supporto” di Manganelli appare assai curioso e «disorientante »: «Il libro è altrove». Perché «il volume – spiega l'autrice – è la composizione di una serie di note a un’opera che non esiste. Le postille di un libro senza libro». Sotto la fascetta del tomo di Notarberardino a supporto della copertina, c’è invece un libro con centinaia di libri dentro. Tutti quelli citati e letti dall’autrice. E forse anche quelli che leggeranno in futuro i suoi lettori. Ma con uno sguardo assolutamente diverso. «Attenzione, può nuocere gravemente alla lettura». Lettore avvisato ...
«Avvenire» del 22 dicembre 2020