Perché nessuna teoria è un dogma
di Emanuele Severino
Le grandi scoperte della biologia, della fisica e della psicoanalisi sono mosse dalla falsa convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal nulla al nulla. Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla scienza
Modernità
Modernità
Le grandi scoperte della biologia, della fisica e della psicoanalisi sono mosse dalla falsa convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal nulla al nulla. Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla scienza.
Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley, 1974). E se il fisico Leonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (Adelphi), scrive di non essere «molto interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofia si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere», «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato. All’interno di quest’anima, a cui la filosofia si rivolge sin dall’inizio, cresce la scienza.
Si ritiene che la teoria generale della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma si contrappongono mantenendosi entrambe all’interno del senso greco dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo » di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli riconduca il concetto di «onde di probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza» (cioè alla possibilità reale che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud scrisse di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla caducità delle cose del mondo. (Ovviamente, anche le recenti polemiche su Freud e la validità delle sue scoperte, sul «Corriere» a firma di Dario Fertilio, Bernard-Henri Lévy e Michel Onfray, pur guardando altrove, quel fondamento lo danno per scontato. Ma chi fa eccezione?).
La filosofia sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. Anche al tema dell’incontrovertibilità la filosofia si rivolge da sempre. Per il matematico David Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E Il più grande spettacolo della terra, di Richard Dawkins (Mondadori), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la "teoria" dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile ». Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano, così come accade per le forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. E l’evoluzione della vita può essere o «naturale» o «cultura le» come nella produzione tecnica, (di cui si parla in queste ore) di una cellula vivente secondo il metodo di Craig Venter.
L’evoluzione è un fatto «oltre ogni ragionevole dubbio», con la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita. Il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà smentita». A meno che Dawkins non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo e per dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico che però, tirate le somme, risulta inoffensivo. (Egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Ma scrive anche: «Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa», allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero» che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste gli possano sembrare considerazioni da «pedanti» e da «sofisti», però è difficile sostenere che non siano «a rigor di logica»).
Ora, che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta la quale è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di esso, al suo essere, appunto, un «fatto». Egli sa che anche «l’inferenza si deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza indiretta come il test del Dna». Sì, posto che sia «più facile», non è però impossibile il contrario. Nemmeno per Dawkins. Ma essere «più facile » non vuol dire essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Ma da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con cui intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto» incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza» e pertanto l’esistenza dell’evoluzione sono soltanto «ipotesi». (Rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco della vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che non può essere direttamente osservabile perché è un processo lentissimo).
Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti ad esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo San Matteo di Bach e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio—a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio—come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser pedanti, che strumenti di misurazione e organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti — ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere.
Queste osservazioni non hanno l’intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la «verità incontrovertibile » dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da quando nasce, la filosofia pensa la verità come in-contro- vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per Hilbert la questione «più importante » è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori ». Ma Gödel dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins, quando afferma che «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità.
Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine delle specie. «Origine», che rinvia al latino orior («provengo da…», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose e l’uomo abbiano bisogno di qualcosa d’Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino e poi, quando la filosofia appare, l’arché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la convinzione che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra, di per sé incapaci di «essere» sono preda del «nulla». Cose morte. La morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per l’arché e l’origine della specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la storia, il linguaggio, il cervello, come origini della mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dei — il nulla da cui i più oggi pensano, più o meno consapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza dell’uomo. Ma, proprio perché la fede nell’origine porta sulle proprie spalle un fardello così gravoso, siamo sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo?
L’AUTORE: il filosofo Emanuele Severino, nato a Brescia nel 1929, ha insegnato all’Università Cattolica, a Venezia e al San Raffaele di Milano. Fra i suoi libri: «Ritornare a Parmenide», «La struttura originaria», «Essenza del nichilismo», «L’anello del ritorno», «Oltre il linguaggio».
Davanti alla filosofia molti scienziati alzano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è loro presente, hanno ragione. Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza sono inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per la profondità delle categorie filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e Newton (M. Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, Wiley, 1974). E se il fisico Leonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (Adelphi), scrive di non essere «molto interessato a quel che dicono i filosofi su come funziona la scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la filosofia si è rivolta sin dagli inizi e che sta al fondamento di tutti gli altri. Per Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Susskind vede in questa tesi la violazione del primo principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la «costanza» dell’energia è il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro ridiventare «non essere», «nulla». Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della termodinamica non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato. All’interno di quest’anima, a cui la filosofia si rivolge sin dall’inizio, cresce la scienza.
Si ritiene che la teoria generale della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma si contrappongono mantenendosi entrambe all’interno del senso greco dell’«essere» e del «nulla»: per il «determinismo » di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile («determinato») e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio nulla. Non è un caso che egli riconduca il concetto di «onde di probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza» (cioè alla possibilità reale che uno stato del mondo sia seguito da un cert’altro stato). Freud scrisse di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: «Capisce di psicologia quanto io capisco di fisica». Eppure si capiscono benissimo sul fondamento ultimo, cioè sulla caducità delle cose del mondo. (Ovviamente, anche le recenti polemiche su Freud e la validità delle sue scoperte, sul «Corriere» a firma di Dario Fertilio, Bernard-Henri Lévy e Michel Onfray, pur guardando altrove, quel fondamento lo danno per scontato. Ma chi fa eccezione?).
La filosofia sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. Anche al tema dell’incontrovertibilità la filosofia si rivolge da sempre. Per il matematico David Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni, condizione oggigiorno d’una importanza proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E Il più grande spettacolo della terra, di Richard Dawkins (Mondadori), eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di giorno in giorno e non sono mai state più solide». Esse «dimostrano come la "teoria" dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile ». Ma quel che rimane oscillante e alla fine oscuro in queste pagine è proprio il concetto di «prova», di «fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del nostro tempo. D’altra parte, l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano, così come accade per le forme incostanti della costante quantità totale dell’energia. E l’evoluzione della vita può essere o «naturale» o «cultura le» come nella produzione tecnica, (di cui si parla in queste ore) di una cellula vivente secondo il metodo di Craig Venter.
L’evoluzione è un fatto «oltre ogni ragionevole dubbio», con la «certezza assoluta che non ci sarà smentita». Come la certezza, intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita. Il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’«inoppugnabilità» e «incontrovertibilità» di tutte le teorie di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove e la loro abbondanza consentano di dire che le teorie così provate godano della «certezza assoluta» che di esse «non ci sarà smentita». A meno che Dawkins non si proponga altro che allineare la teoria dell’evoluzione alle altre teorie dello stesso tipo e per dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico che però, tirate le somme, risulta inoffensivo. (Egli sottoscrive il vecchio principio che «a rigor di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Ma scrive anche: «Nel resto del libro dimostrerò che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa», allora il suo libro non matematico non dimostra «davvero» che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste gli possano sembrare considerazioni da «pedanti» e da «sofisti», però è difficile sostenere che non siano «a rigor di logica»).
Ora, che cosa intende Dawkins affermando che il suo libro «dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti, non può essere oggetto di osservazione diretta la quale è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate dal processo evolutivo risale all’esistenza di esso, al suo essere, appunto, un «fatto». Egli sa che anche «l’inferenza si deve basare, in ultima analisi, sull’osservazione». Sostiene però che l’osservazione diretta di un evento come un omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle «conseguenze» di esso: «È più facile che incorra in un errore di identificazione un testimone oculare piuttosto che un sistema di inferenza indiretta come il test del Dna». Sì, posto che sia «più facile», non è però impossibile il contrario. Nemmeno per Dawkins. Ma essere «più facile » non vuol dire essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole). Ma da questa ipotesi dipende, nel suo libro, la validità dell’«inferenza» con cui intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto» incontrovertibile. Ciò significa che anche questa «inferenza» e pertanto l’esistenza dell’evoluzione sono soltanto «ipotesi». (Rileva inoltre che i cambiamenti evolutivi sono «troppo lenti» per poter essere osservati da un individuo nell’arco della vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre l’esistenza di tale fatto e delle sue caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che non può essere direttamente osservabile perché è un processo lentissimo).
Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a quando non si mostri che nemmeno come ipotesi è accettabile, lascia aperta la possibilità che l’evoluzione, come viene intesa dai biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti ad esistere cinque minuti fa, completi di ricordi preconfezionati, calzini bucati e capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati piuttosto che della Passione secondo San Matteo di Bach e, questo, per far sapere che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio—a parte cioè il senso che all’esistenza viene conferito dall’intero pensiero occidentale, che la ritiene caduca e preda del nulla (dunque degna di esser cominciata cinque minuti fa) anche quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio—come risponde Dawkins a Russell? Risponde scrivendo che sì, «è possibile, a voler esser pedanti, che strumenti di misurazione e organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di un colossale inganno», cosicché, «se l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare credito». Risposta deludente. Innanzitutto perché la verità incontrovertibile dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti — ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa di scientificamente inaccettabile. In secondo luogo perché dal fatto che i teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa esser perpetrato e che quindi l’ipotesi di Russell sia da respingere.
Queste osservazioni non hanno l’intento di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che decide dove stia la «verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l’apparato scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la «verità incontrovertibile » dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. L’esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente incontrovertibile. Da quando nasce, la filosofia pensa la verità come in-contro- vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile «principio di non contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. Per Hilbert la questione «più importante » è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non si potrà mai arrivare a dei risultati contraddittori ». Ma Gödel dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la possibilità di essere un sistema concettuale contraddittorio e quindi controvertibile. Se lo dimentica Dawkins, quando afferma che «solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Infatti, «dimostrare davvero», cioè incontrovertibilmente, significa essere in grado di escludere quella possibilità.
Il primo grande libro di Darwin è intitolato L’origine delle specie. «Origine», che rinvia al latino orior («provengo da…», «sorgo») corrisponde all’antico greco arché, la parola con cui, all’inizio della filosofia, Anassimandro indica il «principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione dell’esistenza del «principio», ma insieme ha reso estrema la fede che è radicata nell’uomo più antico: la fede che le cose e l’uomo abbiano bisogno di qualcosa d’Altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d’Altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino e poi, quando la filosofia appare, l’arché, appunto. L’immenso e tremendo sottinteso di questa fede è la convinzione che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra, di per sé incapaci di «essere» sono preda del «nulla». Cose morte. La morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche la scienza si muove all’interno della fede nell’origine (ormai divenuta fede filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell’origine conservano l’essenziale. Così accade per l’arché e l’origine della specie, per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come origine della coscienza. E ancora: per il lavoro, la storia, il linguaggio, il cervello, come origini della mente e della cultura. In generale, per le «cause» prossime e remote degli eventi. E perfino il nulla è un succedaneo dei vecchi e nuovi dei — il nulla da cui i più oggi pensano, più o meno consapevolmente, che l’esistenza abbia l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente l’intera sapienza dell’uomo. Ma, proprio perché la fede nell’origine porta sulle proprie spalle un fardello così gravoso, siamo sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo?
L’AUTORE: il filosofo Emanuele Severino, nato a Brescia nel 1929, ha insegnato all’Università Cattolica, a Venezia e al San Raffaele di Milano. Fra i suoi libri: «Ritornare a Parmenide», «La struttura originaria», «Essenza del nichilismo», «L’anello del ritorno», «Oltre il linguaggio».
«Corriere della Sera» del 24 maggio 2010