08 marzo 2014

Rinascimento addio? Idea di dignità

È incontestabile la portata della svolta che rivoluzionò la letteratura, le arti, la religione e il sapere scientifico
di Giuseppe Galasso
Le Goff sbaglia

Quella primavera svegliò il mondo rivendicando la dignità dell’uomo

«Tagliare la storia a fette». Lo si dice per indicare la «storia a cassettini»: in uno la politica, in un altro l’economia, e così via; oppure per fare fronte alle implicazioni dello specialismo, che parcellizza scienza e tecnica; oppure per le varie epoche e tempi in cui si suole ripartire la fitta trama della storia. Su quest’ultima questione, in particolare, la discussione non è nuova. Divampò nella storiografia europea già tra Ottocento e Novecento. Da un lato c’era chi definiva un arbitrio le scansioni cronologiche, che, introducendovi fratture o «svolte» che la vita e la storia non conoscono, ne rompono l’ininterrotta corrente. Dall’altro lato c’era chi opponeva a ciò la realtà obbligante dei vari momenti della storia, per cui fare storia è, anzitutto, periodizzare.
Al taglio della storia in fette cronologiche si è applicato Jacques Le Goff con tutta la sua notoria, amplissima dottrina. Se ne occupa, in particolare, riguardo a Medioevo e Rinascimento. Lo fa, è ovvio, con tutta la sua esperienza di studioso, si può dire, di ogni piega e risvolto, innanzitutto, di Medioevo e dintorni; e lo fa anche come studioso che al tempo nella storia ha dedicato pagine fondamentali come quelle sul «tempo della Chiesa» e sul «tempo dei mercanti».
Nel nuovo libro il suo obiettivo è, in effetti, il Rinascimento: periodizzazione inutile e infondata, a suo avviso, in un corso storico ininterrotto dalla fine dell’età antica fino al secolo XVIII, che forma un lunghissimo Medioevo. Fino all’ultimo quest’epoca conserva i suoi caratteri di fondo e cioè, anzitutto, la visione cristiana della vita. Ad essa appartengono anche Cristoforo Colombo e Shakespeare: il primo cercava qualcosa in nome della sua fede cristiana, il secondo riflette e drammatizza il mondo tipicamente medievale di nobili, borghesi, ebrei, in cui viveva. Il cosiddetto Rinascimento non fa che prolungare il Medioevo, così come la Riforma protestante. Ciò sarebbe vero anche sul terreno della storia dell’arte, ossia nel dominio in cui meno ci si aspetterebbe una tale affermazione. Nella musica solo con Mozart si avrà il passaggio dall’artista artigiano all’artista indipendente, che è il segno della modernità. E così via, tra le luci suggestive di una sempre fervida immaginazione storica.
Quanto a rimanerne persuasi, è un’altra cosa. Un lunghissimo Medioevo (di 1500, non di 1000 anni) è stato teorizzato anche da altri e da tempo. Il Rinascimento, poi, è già in disgrazia, essendo caduto nel tritatutto di un revisionismo pregiudiziale e integrale, come tante altre nozioni (Medioevo compreso) della storiografia europea.
Ad esempio, che senso ha continuare a chiamare Medioevo quei presunti 1500 anni? Età di mezzo tra antichità e modernità? Ma tutte le epoche storiche sono età di mezzo tra un passato e un futuro (quando c’è). Nella storiografia europea quel nome aveva un senso. Indicava un periodo oscuro, buio, di povertà artistica e culturale, cui aveva posto fine la grande primavera umanistica del Rinascimento, di cui l’Umanesimo era il contrassegno-principe.
Umanesimo il cui nome non era casuale, poiché presumeva che la rinascita, ossia il ritorno all’eccellenza artistica e culturale avveniva ed era intesa in rapporto a un concetto dell’umano, in cui quell’eccellenza era il contrassegno della dignità dell’uomo e di ciò che dell’uomo è degno. Poi il concetto si allargò. La Riforma si pose come rinascita dell’originario Cristianesimo evangelico. Le scienze riconobbero un loro nuovo inizio, che superava gli antichi in quella che noi definiamo «rivoluzione scientifica». Con l’Illuminismo la modernità teorizzata dai primi umanisti comprese tutti i campi della vita civile e, a sua volta, il Medioevo si fece ancora più buio. E non parliamo delle ripercussioni culturali, religiose, economiche, politiche della scoperta dell’America, già evidenti dalla metà del Cinquecento.
Peraltro, col tempo la storiografia moderna tese anche a riempire quell’oscurità di un alto senso storico, a vedervi sempre più una sua grande anima, nonché il travagliato processo che aveva partorito la società dell’Europa moderna, passando attraverso la rivoluzione culturale umanistico-rinascimentale. E ciò senza contare la scoperta e valorizzazione di tutte le luci, anche artistiche e culturali, e la finale fase di sviluppo demografico ed economico dei «secoli bui», per cui non si contano più le «rinascite» e i fermenti di modernità ravvisati nel vecchio Medioevo, senza rinunziare, peraltro, alla grande idea dell’Umanesimo e del Rinascimento come momento epocale della storia europea. Della storia europea, beninteso, ché fuori dell’Europa le nostre partizioni non hanno senso, così come non hanno senso per noi quelle cinesi, indiane, dell’islam e di altri (ma ora il nuovo verbo della World History ci assicura che anche questa vecchia idea sarà superata). Sta il fatto però che le partizioni europee sono quelle della parte del mondo che del mondo negli ultimi cinque secoli ha guidato il corso, e che, quindi, le sue partizioni hanno un particolare rilievo.
In tali partizioni il Rinascimento ha un luogo inaugurale che, per quanto ci si possa sforzare di disconoscerlo, è destinato a resistere e non è riducibile a una delle tante «rinascite» medievali venute poi di moda. I concetti storiografici che via via sorgono nel caldo stesso delle vicende storiche (come Medioevo e Rinascimento) hanno sempre basi e ragioni che non è lecito ignorare o sottovalutare. All’Oriente musulmano e bizantino l’Europa dei «secoli bui» appariva «barbara». Ci sarà stata qualche ragione. Gli europei dal secolo XV in poi parlavano di rinascita delle arti, delle lettere e delle scienze e se ne sentivano protagonisti. Avranno avuto anch’essi una qualche ragione.
Disconoscendo queste ragioni nate nel vivo del corso storico si ottiene solo di rendere tutto più confuso, indistinto. Rifiutando le ragioni dei contemporanei, si perde, infatti, un elemento storico, che, esso almeno, è un dato di fatto indubbio, e si entra in un gioco di «Lego» storiografico aperto a tutte le soluzioni. Il Medioevo potrebbe essere reso ancora più lungo e considerato alla fine solo con l’inizio dell’era digitale. Oppure, più breve, e finito già (e non sarebbe troppo male) con l’anno Mille, quando l’Europa cominciò a vestirsi di «una bianca veste di chiese» ed ebbero inizio tante altre cose, che anche il Rinascimento ereditò belle e fatte. A che giova?
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Perché Le Goff ha ragione

L’età dei miracoli è un’invenzione. Il parto della Modernità durò secoli
di Franco Cardini
La spinta verso l’innovazione risale almeno al Duecento ma roghi e oscurantismo bigotto furono duri a morire

Nel suo ultimo successo editoriale, Jacques Le Goff torna a presentarci una sua tesi forte che non è ancora stata recepita come dovrebbe, soprattutto da noi: quella di un «lungo Medioevo», che affonda le sue origini nella tarda Antichità e si protende tra XII-XIII e XVIII secolo, segnato da una sostanziale continuità nel mutamento. Lo strumento dialettico di cui egli si serve è il «disincanto» weberiano. Che cosa sono difatti l’«Antichità », il «Medioevo», il «Rinascimento», se non concetti convenzionali che c’illudono di controllare quel vivo flusso di eventi, di istituzioni, di strutture ch’è la storia?
Facciamo qualche esempio. Alla parola «Antichità» fu solo Montaigne, nel 1580, ad attribuire il senso che gli diamo noi: prima di lui, non si era fatto che polemizzare su ciò che fosse meglio, se quel ch’era «antico» o quel ch’era «moderno»; e si continuò anche dopo. Il «Medioevo», poi, se lo inventarono alcuni intellettuali tre-quattrocenteschi, a cominciare dal Petrarca, convinti che dopo la grande e perfetta stagione greco-romana, culminata con l’era augustea, il mondo fosse precipitato in una «età di mezzo» fatta di barbarie e di superstizione, dalla quale si era emersi solo ai loro giorni. Tre-quattro secoli dopo, alcuni illuministi ripresero e aggravarono la mistificazione umanistica: ed ecco il «buio Medioevo» di Voltaire e dell’Encyclopédie.
Ma, dopo la rivalutazione di quello stesso periodo in età romantica, furono gli intellettuali dell’Ottocento come Michelet e Burckhardt a riproporci un’Europa liberata dalle tenebre, inventando il nome stesso di un’età felice, tra Quattro e Cinquecento, nella quale la bellezza, l’armonia e la ragione antiche sarebbero prodigiosamente rinate: appunto la Renaissance, il «Rinascimento». Quel concetto attecchì soprattutto in Italia, sia perché essa ne era indicata come la culla, sia perché gli italiani, che non avevano conosciuto alcun Grand Siècle, alcun Siglo de Oro, dopo il Cinquecento scorgevano solo il trionfo dell’ignoranza, della repressione inquisitoriale, del barocco crocianamente inteso come «brutto», dell’oppressione straniera. Per questo sono soprattutto gli italiani a doversi liberare dal pregiudizio di un Rinascimento come breve e intensa stagione dei miracoli.
Ed ecco l’implacabile rullo compressore del disincanto legoffiano. Il Rinascimento sarebbe stato l’età della scoperta dell’individualismo, della liberazione della vita dalle pastoie dell’ipoteca religiosa, del razionalismo, dell’individuazione del bello nelle arti e nella musica, del razionalismo filosofico, dell’ampliamento del mondo con le scoperte geografiche e del perfezionamento delle risorse umane con le invenzioni? Vediamo.
Nessun dubbio sul prodigioso rinnovamento, specie artistico e intellettuale, verificatosi in Italia e soprattutto in città come Firenze (ma non solo) durante il Quattrocento. Il fatto è che esso era stato già anticipato e preceduto da una lunga serie di fasi innovative (a loro volta definibili come «Rinascimenti») in età carolingia, poi ottoniana, quindi e soprattutto fra XII e XIII secolo: la grande età del ritorno in Occidente della filosofia greca attraverso le traduzioni dall’arabo, insieme con la matematica, la medicina, l’astronomia-astrologia; della riscoperta della natura con la scuola di Chartres e l’arte gotica; dell’affermarsi di un robusto senso estetico, come ha dimostrato Umberto Eco; il momento nel quale si cominciarono anche ad affinare quegli strumenti creditizi che avrebbero preparato l’avvento dell’economia capitalistica; e in cui invenzioni come la bussola, la velatura mobile e il timone assiale, insieme con gli sviluppi cartografici, gli avvii dell’uso delle armi da fuoco e le prime esplorazioni oceaniche, aprirono la strada alla grande stagione di Colombo e di Vasco de Gama, mentre in politica dalle monarchie ancora «feudali» si sviluppavano, a cominciare dalla Francia del Due-Trecento, i precedenti dello Stato assoluto.
Quella dinamica, avviata prima del Rinascimento, si concluse solo molto più tardi. Individualismo e secolarizzazione dovettero combattere a lungo, in pieno Cinquecento, con un duro ritorno dell’autoritarismo religioso in area tanto cattolica quanto protestante: e solo fra Sei e Settecento si affermarono sperimentalismo, sensismo e perfino libertinismo.
Allo stesso modo, è vero che le scoperte geografiche cambiarono il volto dell’Europa: ma per questo ci vollero due secoli di lenta penetrazione delle novità. Ne sono simboli le nuove colture come il pomodoro e la patata, importate ai primi del Cinquecento, che solo dal secolo successivo intervennero a mutare costumi alimentari e convinzioni dietetiche: nello stesso periodo in cui si avviava il declino dei generi di vita tradizionali, con i loro ritmi e costumi. E il tutto avvenne non senza fasi di ristagno e d’inversione di tendenza. La grande tradizione magica sapienziale, che avrebbe condotto a Bruno e a Campanella, è frutto del Medioevo: mentre il «luminoso» Rinascimento fu tale anche perché di continuo rischiarato dai roghi di eretici e streghe. Sarebbe un escamotage troppo comodo attribuire tutto il male al Medioevo e tutto il bene al Rinascimento, presentando come «anticipazioni della Modernità» tutti gli aspetti del primo che ci sembrano positivi e ricacciando nelle nuove «tenebre del Medioevo» tutti i fenomeni regressivi dei quali la Modernità è punteggiata.
La gestazione della Modernità fu lunga e complessa: durò oltre mezzo millennio, dal XII secolo, che avviò il processo della «ragione naturale» abelardiana, fino alla prima rivoluzione industriale e quindi alle due rivoluzioni politiche del Settecento. Il «lungo Medioevo» di Le Goff è, appunto, il tempo di questa dinamica che condusse l’Europa a rendersi padrona del mondo. Tale grande stagione fu tuttavia sigillata da quella che già negli anni Trenta del secolo scorso Paul Hazard denunziava come la «crisi di coscienza» settecentesca; e di recente sembra giunta alla sua eclisse.
«Corriere della Sera» di marzo 2014

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