Eli Pariser ha fondato il sito che ha superato il «New York Times» per numero di interazioni: «Sappiamo soddisfare la curiosità dei lettori». Le mosse di Facebook
di Serena Danna
Vince la rivoluzione del modello Upworthy Poche notizie ben fatte, decisivo è il titolo
Nella sala più affollata dell’Highline Stages, l’edificio ultramoderno di Meatpacking sede della Social Media Week di New York, Eli Pariser, 34 anni, illustra al pubblico risultati e strategie di Upworthy, il sito internet che il mediattivista — noto a molti per l’illuminante libro sugli algoritmi di Google Il filtro (Il Saggiatore) — ha lanciato nella primavera del 2012 insieme all’ex direttore operativo del sito The Onion, Peter Koechley. Se centinaia di giornalisti, operatori del web e strateghi del marketing sono accorsi sotto la neve alle otto del mattino ad ascoltare Pariser c’è un motivo: Upworthy è il sito cresciuto più rapidamente nella storia di internet. In novembre ha realizzato 87 milioni di utenti unici, quasi il triplo del «New York Times», e generato 17 milioni di condivisioni su Facebook, pubblicando solo 225 articoli. Per intenderci, un sito come Yahoo! nello stesso mese ha postato sul social network quasi 115 mila articoli producendo meno di 4 milioni di interazioni.
Agli investitori iniziali, tra cui spicca Chris Hughes, l’ex cofondatore di Facebook oggi editore-direttore di «The New Republic», si sono aggiunti recentemente Bill e Melissa Gates, finanziando con la loro Fondazione una sezione dedicata alla lotta alla povertà. Pariser spiega così l’obiettivo principale di Upworthy: «Aiutare le persone a trovare contenuti seri ma divertenti da condividere, come il video di un idiota che fa surf sul suo terrazzo».
Lo staff (non giornalistico) di Upworthy scova su internet materiale interessante, lo rititola in sedici modi diversi (utilizzando tecniche basate sui Big Data) che sottopone all’esame di un gruppo ristretto di lettori per capire quale funziona meglio, infine lo lancia sui social network. Il primo picco di accessi s’è verificato grazie a un video dell’attuale portavoce del presidente irlandese, che — nel 2010 — aveva criticato un conduttore radiofonico americano contrario alla riforma sanitaria di Obama. A distanza di due anni, Upworthy l’ha ripubblicato con il titolo «Un esponente del Tea Party ha deciso di litigare con il presidente di un Paese straniero. Non gli è andata molto bene» e quel giorno il sito ha raggiunto un milione di visitatori. Pariser parla di curiosity gap: «Dobbiamo soddisfare la sete di curiosità dei lettori. Per riuscirci è meglio confezionare bene pochi contenuti di qualità piuttosto che bombardare il pubblico con migliaia di articoli di basso livello».
I titoli di Upworthy hanno tutti la stessa struttura: due brevi frasi di grande impatto emotivo come «Non ascoltiamo abbastanza le voci dei nativi americani. Ecco un messaggio significativo che arriva proprio da loro». Il modello è talmente riconoscibile che ha già prodotto numerosi cloni (Distractify, ViralNova) e addirittura parodie sul web. «Oggi che l’informazione nuota nella stessa piscina di Kim Kardashian — spiega Pariser, riferendosi a una delle protagoniste del gossip americano — tocca fare la differenza. Che per noi significa portare l’attenzione delle persone su argomenti importanti. Invece che focalizzarci sulle notizie di giornata o sulle tendenze, preferiamo stare sui grandi temi».
Tra gli argomenti ricorrenti di Upworthy si ritrovano, infatti, il riscaldamento globale, la lotta contro le malattie, il lavoro minorile. La storia più letta nel 2013 riguarda Zach Sobiech, un musicista americano morto di cancro a 18 anni. Il titolo in italiano suona così: «Questo meraviglioso ragazzo è morto. Ma quello che lascia è spettacolare». Il giorno dopo la messa online, Sobiech è balzato al primo posto nella classifica degli artisti più scaricati su iTunes e l’associazione per la ricerca sul cancro legata al suo nome ha raccolto centinaia di migliaia di dollari. La cifra del sito potrebbe stare tutta nel neologismo inglese tradotto da noi impropriamente con «spettacolare»: Wondtacular, un incrocio tra wonderful (meraviglioso) e spectacular (spettacolare). Secondo Pariser, presidente della piattaforma di attivismo politico MoveOn.org, nessuna storia che riguarda l’umanità può essere non interessante: «Se non leggono il tuo articolo sull’Afghanistan — afferma — non significa che l’Afghanistan “non fa notizia”, ma che l’articolo è scritto, titolato o proposto male».
In questi giorni sta facendo molto discutere il successo riscosso dalle storie sulla crisi ucraina pubblicate da BuzzFeed e da Huffington Post, che hanno raggiunto un numero di accessi pari ad articoli su popstar e cronaca nera (generalmente tra i più letti in Occidente). Pezzi che rivelano un paradigma simile: foto e titolo a effetto con un testo molto semplice ed efficace sviluppato per punti. In uno sprezzante commento su Politico.com — «Il giorno in cui abbiamo preteso di occuparci dell’Ucraina» — Sarah Kendzior ha parlato di disaster porn (pornografia del disastro), annunciando la nascita di un nuovo «genere giornalistico»: l’apocalittico. Su una linea più morbida Emily Bell, docente della Scuola di giornalismo della Columbia University, si è chiesta se «proporre le tecniche usate per una gallery su cavalli che assomigliano a Miley Cirus per spiegare complesse questioni geopolitiche» sia «troppo triviale», o, al contrario, un modo per adattare il mondo contemporaneo ai modelli di fruizione del pubblico giovane.
Se la questione posta da Bell rimane aperta, ciò che sembra ormai evidente è il ruolo chiave svolto dalla viralità nel campo dell’informazione. Prodotti come Upworthy e BuzzFeed, il sito nato come vetrina di teneri gattini e diventato un controverso modello di giornalismo, stanno colonizzando l’informazione online, al punto che anche le più autorevoli testate tradizionali cedono spesso alla tentazione delle «liste». Accade perché un’informazione basata sulla condivisione dei lettori deve puntare a essere virale. «Prima di internet le storie diventavano popolari se venivano riprese da altri giornali, citate in pubblicazioni autorevoli o ritagliate dai lettori — ha scritto la popolare blogger Annalee Newitz su io9 —. Oggi diventano influenti se le persone le condividono su Facebook, Twitter, Pinterest, Reddit. Nella maggior parte dei casi, nessuno legge una storia se non viene postata online da qualcuno».
Secondo Newitz non sono solo i memi (singole unità di informazione che condividiamo perché ci fanno ridere o stare bene) a diventare virali, ma «tutte le storie che contengono verità certe o utili e non ci chiedono di pensare». Insomma, la foto di un gattino che si stiracchia al sole ha in comune con un video di prova dell’iPhone 5 e con un’inchiesta sulla National Security Agency una caratteristica fondamentale: «Non sono documenti aperti a interpretazioni — aggiunge Newitz — ma chiariscono la confusione tipica dell’essere umano come facevano i sondaggi di Nate Silver (il blogger statistico del “New York Times”, ndr) durante le elezioni americane». Insomma, se si vuole diventare virali bisogna evitare l’ambiguità.
Alla base della condivisione di articoli, foto, video sui social network non c’è l’interesse individuale nell’argomento ma la nostra reputazione: «Le persone si scambiano i contenuti che sono specchio dei loro gusti e preferenze. Ci preoccupiamo della moda — sottolinea Elsperth Rountree, tra i fondatori di Know Your Meme — perché è il nostro biglietto da visita in società, vale anche per quello che condividiamo online».
Jonah Berger, autore di Contagious (Simon & Schuster), fa un passo in avanti individuando sei principi che rendono i contenuti virali: il valore sociale, l’effetto promemoria (ricordarci qualcosa di molto importante), la risonanza emotiva, l’osservabilità (essere un tema evidente agli occhi di tutti), l’utilità e lo stile narrativo. Utilizzare la condivisione come principale parametro per valutare la forza di un prodotto crea tuttavia due problemi. Il primo riguarda il pubblico e gli investimenti pubblicitari: il traffico che si basa su contenuti contagiosi non ha un pubblico di riferimento. Scrive Bryan Goldberg su Pando- Daily: «Un mese un pezzo su adorabili animaletti attirerà sul sito donne di mezza età, quello dopo una gallery su Miley Cirus svestita richiamerà adolescenti maschi: in che modo una testata può costruire una profonda e solida relazione con i brand se il suo pubblico non ha consistenza?».
L’altro nodo riguarda chi davvero detiene il potere: dato che il trampolino virale per eccellenza è rappresentato dai social network, è evidente come i siti dipendano da essi. Quando Facebook — dopo studi elaborati sui memi — ha cambiato l’algoritmo che gestisce il Newsfeed (le notizie che compaiono sulla bacheca e la cui visibilità dipende dalla maggiore o minore condivisione da parte dei propri amici) affermando di voler privilegiare contenuti di qualità a discapito delle foto «contagiose», molti siti hanno avuto un crollo delle condivisioni.
Al di là degli annunci, non sono chiari i nuovi parametri utilizzati da Zuckerberg per stabilire la gerarchia degli articoli sulle bacheche: di certo c’è solo la sua volontà di ribadire il ruolo di deus ex machina nel gioco della condivisione online.
Agli investitori iniziali, tra cui spicca Chris Hughes, l’ex cofondatore di Facebook oggi editore-direttore di «The New Republic», si sono aggiunti recentemente Bill e Melissa Gates, finanziando con la loro Fondazione una sezione dedicata alla lotta alla povertà. Pariser spiega così l’obiettivo principale di Upworthy: «Aiutare le persone a trovare contenuti seri ma divertenti da condividere, come il video di un idiota che fa surf sul suo terrazzo».
Lo staff (non giornalistico) di Upworthy scova su internet materiale interessante, lo rititola in sedici modi diversi (utilizzando tecniche basate sui Big Data) che sottopone all’esame di un gruppo ristretto di lettori per capire quale funziona meglio, infine lo lancia sui social network. Il primo picco di accessi s’è verificato grazie a un video dell’attuale portavoce del presidente irlandese, che — nel 2010 — aveva criticato un conduttore radiofonico americano contrario alla riforma sanitaria di Obama. A distanza di due anni, Upworthy l’ha ripubblicato con il titolo «Un esponente del Tea Party ha deciso di litigare con il presidente di un Paese straniero. Non gli è andata molto bene» e quel giorno il sito ha raggiunto un milione di visitatori. Pariser parla di curiosity gap: «Dobbiamo soddisfare la sete di curiosità dei lettori. Per riuscirci è meglio confezionare bene pochi contenuti di qualità piuttosto che bombardare il pubblico con migliaia di articoli di basso livello».
I titoli di Upworthy hanno tutti la stessa struttura: due brevi frasi di grande impatto emotivo come «Non ascoltiamo abbastanza le voci dei nativi americani. Ecco un messaggio significativo che arriva proprio da loro». Il modello è talmente riconoscibile che ha già prodotto numerosi cloni (Distractify, ViralNova) e addirittura parodie sul web. «Oggi che l’informazione nuota nella stessa piscina di Kim Kardashian — spiega Pariser, riferendosi a una delle protagoniste del gossip americano — tocca fare la differenza. Che per noi significa portare l’attenzione delle persone su argomenti importanti. Invece che focalizzarci sulle notizie di giornata o sulle tendenze, preferiamo stare sui grandi temi».
Tra gli argomenti ricorrenti di Upworthy si ritrovano, infatti, il riscaldamento globale, la lotta contro le malattie, il lavoro minorile. La storia più letta nel 2013 riguarda Zach Sobiech, un musicista americano morto di cancro a 18 anni. Il titolo in italiano suona così: «Questo meraviglioso ragazzo è morto. Ma quello che lascia è spettacolare». Il giorno dopo la messa online, Sobiech è balzato al primo posto nella classifica degli artisti più scaricati su iTunes e l’associazione per la ricerca sul cancro legata al suo nome ha raccolto centinaia di migliaia di dollari. La cifra del sito potrebbe stare tutta nel neologismo inglese tradotto da noi impropriamente con «spettacolare»: Wondtacular, un incrocio tra wonderful (meraviglioso) e spectacular (spettacolare). Secondo Pariser, presidente della piattaforma di attivismo politico MoveOn.org, nessuna storia che riguarda l’umanità può essere non interessante: «Se non leggono il tuo articolo sull’Afghanistan — afferma — non significa che l’Afghanistan “non fa notizia”, ma che l’articolo è scritto, titolato o proposto male».
In questi giorni sta facendo molto discutere il successo riscosso dalle storie sulla crisi ucraina pubblicate da BuzzFeed e da Huffington Post, che hanno raggiunto un numero di accessi pari ad articoli su popstar e cronaca nera (generalmente tra i più letti in Occidente). Pezzi che rivelano un paradigma simile: foto e titolo a effetto con un testo molto semplice ed efficace sviluppato per punti. In uno sprezzante commento su Politico.com — «Il giorno in cui abbiamo preteso di occuparci dell’Ucraina» — Sarah Kendzior ha parlato di disaster porn (pornografia del disastro), annunciando la nascita di un nuovo «genere giornalistico»: l’apocalittico. Su una linea più morbida Emily Bell, docente della Scuola di giornalismo della Columbia University, si è chiesta se «proporre le tecniche usate per una gallery su cavalli che assomigliano a Miley Cirus per spiegare complesse questioni geopolitiche» sia «troppo triviale», o, al contrario, un modo per adattare il mondo contemporaneo ai modelli di fruizione del pubblico giovane.
Se la questione posta da Bell rimane aperta, ciò che sembra ormai evidente è il ruolo chiave svolto dalla viralità nel campo dell’informazione. Prodotti come Upworthy e BuzzFeed, il sito nato come vetrina di teneri gattini e diventato un controverso modello di giornalismo, stanno colonizzando l’informazione online, al punto che anche le più autorevoli testate tradizionali cedono spesso alla tentazione delle «liste». Accade perché un’informazione basata sulla condivisione dei lettori deve puntare a essere virale. «Prima di internet le storie diventavano popolari se venivano riprese da altri giornali, citate in pubblicazioni autorevoli o ritagliate dai lettori — ha scritto la popolare blogger Annalee Newitz su io9 —. Oggi diventano influenti se le persone le condividono su Facebook, Twitter, Pinterest, Reddit. Nella maggior parte dei casi, nessuno legge una storia se non viene postata online da qualcuno».
Secondo Newitz non sono solo i memi (singole unità di informazione che condividiamo perché ci fanno ridere o stare bene) a diventare virali, ma «tutte le storie che contengono verità certe o utili e non ci chiedono di pensare». Insomma, la foto di un gattino che si stiracchia al sole ha in comune con un video di prova dell’iPhone 5 e con un’inchiesta sulla National Security Agency una caratteristica fondamentale: «Non sono documenti aperti a interpretazioni — aggiunge Newitz — ma chiariscono la confusione tipica dell’essere umano come facevano i sondaggi di Nate Silver (il blogger statistico del “New York Times”, ndr) durante le elezioni americane». Insomma, se si vuole diventare virali bisogna evitare l’ambiguità.
Alla base della condivisione di articoli, foto, video sui social network non c’è l’interesse individuale nell’argomento ma la nostra reputazione: «Le persone si scambiano i contenuti che sono specchio dei loro gusti e preferenze. Ci preoccupiamo della moda — sottolinea Elsperth Rountree, tra i fondatori di Know Your Meme — perché è il nostro biglietto da visita in società, vale anche per quello che condividiamo online».
Jonah Berger, autore di Contagious (Simon & Schuster), fa un passo in avanti individuando sei principi che rendono i contenuti virali: il valore sociale, l’effetto promemoria (ricordarci qualcosa di molto importante), la risonanza emotiva, l’osservabilità (essere un tema evidente agli occhi di tutti), l’utilità e lo stile narrativo. Utilizzare la condivisione come principale parametro per valutare la forza di un prodotto crea tuttavia due problemi. Il primo riguarda il pubblico e gli investimenti pubblicitari: il traffico che si basa su contenuti contagiosi non ha un pubblico di riferimento. Scrive Bryan Goldberg su Pando- Daily: «Un mese un pezzo su adorabili animaletti attirerà sul sito donne di mezza età, quello dopo una gallery su Miley Cirus svestita richiamerà adolescenti maschi: in che modo una testata può costruire una profonda e solida relazione con i brand se il suo pubblico non ha consistenza?».
L’altro nodo riguarda chi davvero detiene il potere: dato che il trampolino virale per eccellenza è rappresentato dai social network, è evidente come i siti dipendano da essi. Quando Facebook — dopo studi elaborati sui memi — ha cambiato l’algoritmo che gestisce il Newsfeed (le notizie che compaiono sulla bacheca e la cui visibilità dipende dalla maggiore o minore condivisione da parte dei propri amici) affermando di voler privilegiare contenuti di qualità a discapito delle foto «contagiose», molti siti hanno avuto un crollo delle condivisioni.
Al di là degli annunci, non sono chiari i nuovi parametri utilizzati da Zuckerberg per stabilire la gerarchia degli articoli sulle bacheche: di certo c’è solo la sua volontà di ribadire il ruolo di deus ex machina nel gioco della condivisione online.
«Il Corriere della Sera - suppl. La lettura» del 2 marzo 2014
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