È reazionario e sterile disconnettersi per ricaricare le pile o fare meditazione in stile mindfulness. Meglio disintossicarsi consapevolmente, sabotando gli strumenti di distrazione di massa digitale
di Evgeny Morozov
Il linguaggio New Age degli anni 60 è ancora in circolazione, e uno dei suoi lasciti è la parola mindfulness, che è subentrata a «sostenibilità»: nessuno sa esattamente cosa sia, ma tutti la cercano. Recentemente campeggiava sulla copertina della rivista «Time», e un lungo elenco di celebrità — Arianna Huffington, Deepak Chopra, Paulo Coelho — ne predicano instancabilmente le virtù, spesso in conferenze con titoli come «Wisdom 2.0». L’ultimo World Economic Forum di Davos ha anche organizzato un gruppo di lavoro sul tema. La rinascita della mindfulness è in gran parte sospinta dai progressi della tecnologia, con applicazioni e activity tracker per smartphone che offrono nuove opportunità per praticare meditazione, training mentale e controllo dello stress. Il caso di Huffington, una delle maggiori promotrici della (il quotidiano online che porta il suo nome ha anche lanciato una app per rilevare lo stress, dal poetico nome di «Gps for the soul», Gps per l’anima), è particolarmente curioso, perché la minaccia alla viene proprio dai social media, dai gadget elettronici e dalle app, che sono il mondo in cui Arianna Huffington è di casa.
Anche il presidente di Google Eric Schmidt ha aderito a questo club, sostenendo che dobbiamo stabilire degli orari in cui siamo «on» e altri in cui siamo «off», e annunciando la sua scelta di lasciar da parte i gadget tecnologici durante i pasti. Ci sono anche applicazioni e aziende che, a pagamento, ci aiutano a rispettare la pausa del «sabato digitale», o a intraprendere una «disintossicazione digitale», o ancora a unirci a gli «obiettori digitali» che si incontrano in luoghi privi di dispositivi elettronici. Mai prima d’ora la connettività ci ha offerto tanti modi per disconnetterci. Ci viene chiesto di disconnetterci per poter riprendere le nostre consuete attività con rinnovata energia quando torniamo nel «paese della distrazione». La ricerca della svolge in questo caso lo stesso ruolo del buddhismo — più esattamente una versione Davos del buddhismo, quella abbracciata dal mondo imprenditoriale.
Nel nostro mondo follemente complesso, dove tutto è in continuo cambiamento e spesso poco comprensibile, l’unico atteggiamento ragionevole sarebbe rinunciare a ogni tentativo di controllo e adottare un comportamento Zen: accettare il mondo così com’è e cercare la propria pace al suo interno. È facile capire come questo modo di pensare sia reazionario. Come ha detto una volta scherzosamente il filosofo sloveno Slavoj Zizek, «se Max Weber fosse vivo oggi, sicuramente scriverebbe un secondo trattato, complementare alla sua Etica protestante e lo spirito del capitalismo, intitolato “L’etica taoista e lo spirito del capitalismo globale”». I manager abbracciano la come accolgono le altre forme del «nuovo spirito del capitalismo», che si tratti di yoga sul posto di lavoro o di infradito alle riunioni: è un modo di ri-confezionare l’alienazione come emancipazione, e intanto incentivare la produttività.
Non sorprende che Arianna Huffington speri che la ricerca della mindfulness da parte della gente di Davos riesca a riconciliare finalmente la spiritualità e il capitalismo: «Una quantità crescente di prove scientifiche dimostra che questi due mondi sono alleati — o almeno che possono e dovrebbero esserlo», ha scritto in un recente articolo. «Quindi sì, voglio parlare di massimizzazione dei profitti e di risultati oltre le aspettative, e sottolineare l’idea che quel che va bene per noi come individui funziona anche per i conti delle aziende americane».
Quel che rende politicamente interessante questa ricerca della mindfulness amica del capitalismo è che incoraggia — forse inconsapevolmente — gli atti di volontaria disconnessione dal mondo di Facebook e Twitter. È vero che i predicatori della mindfulness li presentano come una pausa necessaria, di cui tutti abbiamo bisogno, per poi riconnetterci e mantenere lo status quo. In questo modo attribuiscono lo stress causato dalla distrazione e dall’essere in rete a una qualche forza autonoma e inesorabile — modernità, progresso, tecnologia — o danno la colpa alla nostra incapacità di reagire o, peggio ancora, al fatto che non abbiamo app contro lo stress sui nostri iPad.
Ma i «disconnessionisti» — come un critico ha recentemente chiamato questo fenomeno sociale emergente — non potrebbero avere uno scopo un tantino più radicale della «disintossicazione digitale»? Intanto, il termine «disintossicazione» ci fa pensare che il desiderio di essere perennemente collegati sia una patologia. I promotori della disconnessione sembrano poi avere una visione piuttosto confusa della politica. «Scollegarsi individualmente, in realtà, non è una risposta ai maggiori problemi tecnologici del nostro tempo, proprio come mangiare cibi locali e organici non risolve i problemi dell’agricoltura globale», ha scritto Alexis Madrigal su «The Atlantic». Si noti che è l’atto del disconnettersi — staccare la spina — a essere il bersaglio delle critiche, come se non ci fossero buone ragioni per vedere con sospetto la pressione a essere sempre connessi che arriva da Silicon Valley. Nel tentativo di rivelare le ansie d’élite di chi propone la «disintossicazione digitale» — sostenendo, ad esempio, che scollegarsi equivale a indossare abiti vintage e mangiare formaggio artigianale — i critici come Madrigal rischiano tuttavia di approvare le strategie di sfruttamento di Twitter e Facebook.
Si parla tanto di economia dell’attenzione, ma dobbiamo anche pensare all’economia dell’attenzione in termini politici — ed è qui che scollegarsi potrebbe essere di qualche utilità. Dopo tutto, che cosa c’è di così naturale nel modo in cui Twitter ci spinge a controllare quante persone hanno interagito con i nostri tweet? Che a Twitter interessi è ovvio: quanti più dati mettiamo in circolazione — cliccando all’infinito — tanto più gli inserzionisti saranno interessati a Twitter. Ma gli interessi di Twitter non sono necessariamente i nostri. Perché dovremmo aderire al credo del «tempo reale» — all’idea che dobbiamo sapere, non appena i dati sono disponibili, quel che il mondo pensa di ogni nostro tweet? Dobbiamo sapere che le piattaforme dei social media sono state progettate per assecondare i loro interessi commerciali, ed è per questo che ogni nostro click viene registrato. La fastidiosa tentazione di seguire il destino di ogni nostro tweet, all’infinito e nel modo più accurato possibile, è tutt’altro che scontata.
Dobbiamo sottoporre i social media a quell’esame critico che è stato applicato alla progettazione delle slot machine dei casinò di Las Vegas. Come ha mostrato Natasha Dow Schüll nel suo eccellente libro Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas, mentre gli operatori dei casinò vogliono farci credere che la dipendenza dal gioco sia il risultato di una nostra debolezza morale o di qualche squilibrio biologico, sono loro ad aver progettato le macchine in modo da creare dipendenza. Nei social media — come nel caso delle slot machine o del fast food — la dipendenza è indotta, non è naturale.
Non dobbiamo confondere la strategia della disconnessione nella sua forma radicale e proiettata verso l’esterno, con quella reazionaria, ripiegata su se stessa. Il perché ci scolleghiamo è importante: possiamo continuare a pensare — secondo la tendenza attuale — che sia un modo per ricaricarsi e recuperare la produttività, o che sia invece un modo per sabotare le tattiche di induzione alla dipendenza messe in atto da quel motore dell’accelerazione - distrazione che è Silicon Valley. Il primo atteggiamento è reazionario, ma il secondo può portare all’emancipazione, soprattutto se questi atti di rifiuto danno luogo a veri e propri movimenti costruiti attorno ai temi della temporalità e dell’attenzione, lontani dai programmi di business delle brigate spirituali di Davos. Speriamo che questi movimenti producano pratiche alternative, istituzioni e progetti che ci permettano di abbandonare i dictat del «tempo reale» e di abbracciare un modo di comunicare migliore. Se per arrivarci dobbiamo staccare la spina, facciamolo. Ma non per poi poterci ricollegare come prima. Non bisogna farsi oscurare la mente dalla mindfulness.
(traduzione di Maria Sepa)
Anche il presidente di Google Eric Schmidt ha aderito a questo club, sostenendo che dobbiamo stabilire degli orari in cui siamo «on» e altri in cui siamo «off», e annunciando la sua scelta di lasciar da parte i gadget tecnologici durante i pasti. Ci sono anche applicazioni e aziende che, a pagamento, ci aiutano a rispettare la pausa del «sabato digitale», o a intraprendere una «disintossicazione digitale», o ancora a unirci a gli «obiettori digitali» che si incontrano in luoghi privi di dispositivi elettronici. Mai prima d’ora la connettività ci ha offerto tanti modi per disconnetterci. Ci viene chiesto di disconnetterci per poter riprendere le nostre consuete attività con rinnovata energia quando torniamo nel «paese della distrazione». La ricerca della svolge in questo caso lo stesso ruolo del buddhismo — più esattamente una versione Davos del buddhismo, quella abbracciata dal mondo imprenditoriale.
Nel nostro mondo follemente complesso, dove tutto è in continuo cambiamento e spesso poco comprensibile, l’unico atteggiamento ragionevole sarebbe rinunciare a ogni tentativo di controllo e adottare un comportamento Zen: accettare il mondo così com’è e cercare la propria pace al suo interno. È facile capire come questo modo di pensare sia reazionario. Come ha detto una volta scherzosamente il filosofo sloveno Slavoj Zizek, «se Max Weber fosse vivo oggi, sicuramente scriverebbe un secondo trattato, complementare alla sua Etica protestante e lo spirito del capitalismo, intitolato “L’etica taoista e lo spirito del capitalismo globale”». I manager abbracciano la come accolgono le altre forme del «nuovo spirito del capitalismo», che si tratti di yoga sul posto di lavoro o di infradito alle riunioni: è un modo di ri-confezionare l’alienazione come emancipazione, e intanto incentivare la produttività.
Non sorprende che Arianna Huffington speri che la ricerca della mindfulness da parte della gente di Davos riesca a riconciliare finalmente la spiritualità e il capitalismo: «Una quantità crescente di prove scientifiche dimostra che questi due mondi sono alleati — o almeno che possono e dovrebbero esserlo», ha scritto in un recente articolo. «Quindi sì, voglio parlare di massimizzazione dei profitti e di risultati oltre le aspettative, e sottolineare l’idea che quel che va bene per noi come individui funziona anche per i conti delle aziende americane».
Quel che rende politicamente interessante questa ricerca della mindfulness amica del capitalismo è che incoraggia — forse inconsapevolmente — gli atti di volontaria disconnessione dal mondo di Facebook e Twitter. È vero che i predicatori della mindfulness li presentano come una pausa necessaria, di cui tutti abbiamo bisogno, per poi riconnetterci e mantenere lo status quo. In questo modo attribuiscono lo stress causato dalla distrazione e dall’essere in rete a una qualche forza autonoma e inesorabile — modernità, progresso, tecnologia — o danno la colpa alla nostra incapacità di reagire o, peggio ancora, al fatto che non abbiamo app contro lo stress sui nostri iPad.
Ma i «disconnessionisti» — come un critico ha recentemente chiamato questo fenomeno sociale emergente — non potrebbero avere uno scopo un tantino più radicale della «disintossicazione digitale»? Intanto, il termine «disintossicazione» ci fa pensare che il desiderio di essere perennemente collegati sia una patologia. I promotori della disconnessione sembrano poi avere una visione piuttosto confusa della politica. «Scollegarsi individualmente, in realtà, non è una risposta ai maggiori problemi tecnologici del nostro tempo, proprio come mangiare cibi locali e organici non risolve i problemi dell’agricoltura globale», ha scritto Alexis Madrigal su «The Atlantic». Si noti che è l’atto del disconnettersi — staccare la spina — a essere il bersaglio delle critiche, come se non ci fossero buone ragioni per vedere con sospetto la pressione a essere sempre connessi che arriva da Silicon Valley. Nel tentativo di rivelare le ansie d’élite di chi propone la «disintossicazione digitale» — sostenendo, ad esempio, che scollegarsi equivale a indossare abiti vintage e mangiare formaggio artigianale — i critici come Madrigal rischiano tuttavia di approvare le strategie di sfruttamento di Twitter e Facebook.
Si parla tanto di economia dell’attenzione, ma dobbiamo anche pensare all’economia dell’attenzione in termini politici — ed è qui che scollegarsi potrebbe essere di qualche utilità. Dopo tutto, che cosa c’è di così naturale nel modo in cui Twitter ci spinge a controllare quante persone hanno interagito con i nostri tweet? Che a Twitter interessi è ovvio: quanti più dati mettiamo in circolazione — cliccando all’infinito — tanto più gli inserzionisti saranno interessati a Twitter. Ma gli interessi di Twitter non sono necessariamente i nostri. Perché dovremmo aderire al credo del «tempo reale» — all’idea che dobbiamo sapere, non appena i dati sono disponibili, quel che il mondo pensa di ogni nostro tweet? Dobbiamo sapere che le piattaforme dei social media sono state progettate per assecondare i loro interessi commerciali, ed è per questo che ogni nostro click viene registrato. La fastidiosa tentazione di seguire il destino di ogni nostro tweet, all’infinito e nel modo più accurato possibile, è tutt’altro che scontata.
Dobbiamo sottoporre i social media a quell’esame critico che è stato applicato alla progettazione delle slot machine dei casinò di Las Vegas. Come ha mostrato Natasha Dow Schüll nel suo eccellente libro Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas, mentre gli operatori dei casinò vogliono farci credere che la dipendenza dal gioco sia il risultato di una nostra debolezza morale o di qualche squilibrio biologico, sono loro ad aver progettato le macchine in modo da creare dipendenza. Nei social media — come nel caso delle slot machine o del fast food — la dipendenza è indotta, non è naturale.
Non dobbiamo confondere la strategia della disconnessione nella sua forma radicale e proiettata verso l’esterno, con quella reazionaria, ripiegata su se stessa. Il perché ci scolleghiamo è importante: possiamo continuare a pensare — secondo la tendenza attuale — che sia un modo per ricaricarsi e recuperare la produttività, o che sia invece un modo per sabotare le tattiche di induzione alla dipendenza messe in atto da quel motore dell’accelerazione - distrazione che è Silicon Valley. Il primo atteggiamento è reazionario, ma il secondo può portare all’emancipazione, soprattutto se questi atti di rifiuto danno luogo a veri e propri movimenti costruiti attorno ai temi della temporalità e dell’attenzione, lontani dai programmi di business delle brigate spirituali di Davos. Speriamo che questi movimenti producano pratiche alternative, istituzioni e progetti che ci permettano di abbandonare i dictat del «tempo reale» e di abbracciare un modo di comunicare migliore. Se per arrivarci dobbiamo staccare la spina, facciamolo. Ma non per poi poterci ricollegare come prima. Non bisogna farsi oscurare la mente dalla mindfulness.
(traduzione di Maria Sepa)
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del febbraio 2014
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