L’eccesso di parole e di suoni ha trasformato il nostro paesaggio percettivo e culturale. Siamo diventati il mondo del non ascolto
di Alcide Pierantozzi
Sul valore del silenzio i pareri divergono ampiamente; si è però d’accordo sulla sua quasi totale scomparsa. Nelle più diverse regioni culturali — quella televisiva per prima — noi uomini parliamo, cicaliamo talora per semplice vanità, ancor più spesso terrorizzati all’idea che l’altro abbia davvero solidi argomenti a suo carico. Qualcosa di analogo avviene quando uno scrittore è invitato a presentare il proprio libro da qualche parte, o un artista a partecipare al vernissage predisposto in suo onore. Del resto, le librerie e le gallerie d’arte delle nostre città, più che offrire all’autore in questione l’opportunità di parlare della sua opera, fanno essenzialmente regali a una categoria sempre più diffusa: quella dei presentatori in sostituzione dei relatori di una volta. Si passa così da un gaudente giallista come Andrea G. Pinketts a un blasonato professore universitario come Gianni Canova. I quali, menando vanto per esempio a un libro di cucina, o al solito successo pornosoft, a scadenza più o meno regolare citano Proust, o Dostoevskij, o de Sade. Chi quel libro lo ha scritto, o quantomeno consegnato all’editore sotto forma di canovaccio prima che qualcun altro provvedesse a scriverlo, insolitamente tace, tra il divertito e l’imbarazzato. L’impressione di chi assiste è che ambedue, scrittore e presentatore, si muovano secondo una dislessica comunione di intenti.
A volte un silenzio può risultare troppo pesante da sostenere, ragion per cui si applaude. Si applaude anche nel corso di un funerale, principalmente per un conflitto interiore provocato dalla voglia di dire qualcosa, malgrado la sacralità del momento richieda un silenzio misericordioso. Così, anche uno scienziato di provato ateismo come Piergiorgio Odifreddi, quando crede di ricevere la telefonata di Sua Santità (in realtà era uno scherzo ordito dalla trasmissione La zanzara) parla senza soluzione di continuità nientemeno che addosso al pur finto Papa, in preda a un’urgenza di difesa non dissimile da quella dell’applauso.
Il regista cinematografico Ingmar Bergman era un uomo ben più attento alla «silenziosità» che alle parole dei suoi personaggi. Nei suoi film c’è sempre di mezzo un lascito di insegnamento da parte di qualcuno, spesso il padre, le cui stentate parole rinvigoriscono chi le ascolta e se stesse, di conseguenza sono trasmesse. «Mio padre mi ha parlato» è la frase detta da Lars Passgård nel finale di Come in uno specchio. Per contro, la sopravvivenza delle parole non ascoltate, o sentite alla leggera, è labile, e il loro contenuto è destinato a una morte prematura.
Oggi lo sa benissimo l’ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg, artefice consapevole del più grande archivio del commento che esista al mondo. Ogni sponsor di social network che si rispetti sa quanto vasta è la mole di parole, frasi, allusioni rivolte a un imprecisato pubblico, o a un imprecisato nemico, che restano sepolte sotto l’affastellarsi febbrile dei nuovi status. Tanto perché non si rischi quella quiete digitale derivata dalla mancanza di commenti, le star del web fanno il possibile affinché il silenzio di una piattaforma sia riempito dalle voci mute degli utenti, magari accompagnate solo dal suono monocorde dei messaggi in arrivo. E infatti è per richiamare l’attenzione che ci si cimenta nell’esercizio dell’aforisma pungente, un’arte che tutto vorrebbe incoraggiare fuorché lo sperpero di ulteriori parole.
Requisito sostanziale dell’aforisma è il suo aprirsi al silenzio della riflessione, dell’ascolto. In questo caso, non c’è bisogno di citare un genio della sintesi come Karl Kraus per riscontrare quella che in tutta chiarezza è un’incoerenza. Tanto più breve ed efficace è un parere espresso online, quanto più fitti e disordinati saranno i commenti di risposta. Probabilmente Samanthifera è la miglior frequentatrice di twitter in circolazione. Il che dovrebbe far riflettere, specie quando è in grado di riassumere con queste parole una qualsiasi conversazione: «Le cose che si dicono prima di iniziare a parlare».
Ma anche l’ascolto della musica è sempre più recalcitrante agli spazi vuoti, se è vero che già nel dicembre del 1977 il musicista John Cage tenne un concerto a Milano il cui obiettivo era quello di spogliare di gran parte delle sue parole il Diario di Thoreau, rarefacendolo fino al silenzio. La performance di Cage valse a ispirare un moto di stizza nel pubblico, che in capo a pochi minuti tramutò lo spettacolo in un feroce happening di protesta.
Per quanto agonizzanti siano le sorti del silenzio, è tuttavia interessante constatare che, fatta eccezione per la rete, gli spazi a disposizione per parlare sono sempre meno. Non fosse che il fenomeno regressivo per eccellenza pertiene al tempo: ce n’è sempre meno. Bisogna dire le cose alla svelta, e senza troppe sottigliezze. Chi azzardi un ragionamento lievemente impervio, nove volte su dieci è tacciato di presunzione e viene invitato ad abbassare il tono del discorso. La preoccupazione dello speaker radiofonico, dell’inviato televisivo, dell’anchorman è il quindi, seguito da un assiduo punto interrogativo. Altri preferiscono invece fare appello alla comprensibilità, magari invocando lo spettro degli ascoltatori a casa. Esempio: «Me lo dica in due parole. Perché lei è favorevole alla pena capitale?» ha impunemente chiesto all’ospite di turno, in una qualsiasi puntata di Quarto Grado, la neoconduttrice di Forum Barbara Palombelli. Di regola l’intervistato sfodera un’espressione frastornata. Questo se è impossibilitato a ridurre ai minimi termini un discorso complesso, magari perché è un filosofo, e la storia della filosofia — sempre attuale — insegna che un’affermazione non argomentata si riduce alla chiacchiera.
Non è un caso che il disinteresse per la filosofia sia aumentato di pari passo con l’interesse per il web. «Chi mai ha chiesto alla tesi e all’antitesi se vogliono diventare sintesi?», scriveva cent’anni or sono l’aforista polacco Stanislaw Jerzy Lec, sintetizzando a sua volta, e con molto anticipo sui tempi, l’allure dei giorni nostri. Del resto, anche dinanzi ai temi più prossimi alla religione e alla scienza si insinua un’alterazione genetica del discorso. Occorre ripetere che dal beneamato discorso tutti pretendiamo una soluzione, una sintesi?
Caratteristica precipua di chi fa cultura è il silenzio. Da sant’Ambrogio in avanti è perlopiù così che leggiamo un libro. Un atteggiamento religioso, quello verso il silenzio d’ascolto, magnificamente spiegato da padre Giovanni Pozzi, critico letterario e studioso di mistica barocca morto nel 2002, e di cui Adelphi ha pubblicato qualche settimana fa uno degli ultimi scritti, il Tacet. Dove si augura un silenzio interiore che allontani ogni irrequietezza del cuore, e che volga all’abbandono verso la parola altrui. Il rischio più alto dell’incapacità di ascolto è in fondo l’approssimazione. Approssimare significa erodere i contenuti, pena l’ottundimento.
A volte un silenzio può risultare troppo pesante da sostenere, ragion per cui si applaude. Si applaude anche nel corso di un funerale, principalmente per un conflitto interiore provocato dalla voglia di dire qualcosa, malgrado la sacralità del momento richieda un silenzio misericordioso. Così, anche uno scienziato di provato ateismo come Piergiorgio Odifreddi, quando crede di ricevere la telefonata di Sua Santità (in realtà era uno scherzo ordito dalla trasmissione La zanzara) parla senza soluzione di continuità nientemeno che addosso al pur finto Papa, in preda a un’urgenza di difesa non dissimile da quella dell’applauso.
Il regista cinematografico Ingmar Bergman era un uomo ben più attento alla «silenziosità» che alle parole dei suoi personaggi. Nei suoi film c’è sempre di mezzo un lascito di insegnamento da parte di qualcuno, spesso il padre, le cui stentate parole rinvigoriscono chi le ascolta e se stesse, di conseguenza sono trasmesse. «Mio padre mi ha parlato» è la frase detta da Lars Passgård nel finale di Come in uno specchio. Per contro, la sopravvivenza delle parole non ascoltate, o sentite alla leggera, è labile, e il loro contenuto è destinato a una morte prematura.
Oggi lo sa benissimo l’ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg, artefice consapevole del più grande archivio del commento che esista al mondo. Ogni sponsor di social network che si rispetti sa quanto vasta è la mole di parole, frasi, allusioni rivolte a un imprecisato pubblico, o a un imprecisato nemico, che restano sepolte sotto l’affastellarsi febbrile dei nuovi status. Tanto perché non si rischi quella quiete digitale derivata dalla mancanza di commenti, le star del web fanno il possibile affinché il silenzio di una piattaforma sia riempito dalle voci mute degli utenti, magari accompagnate solo dal suono monocorde dei messaggi in arrivo. E infatti è per richiamare l’attenzione che ci si cimenta nell’esercizio dell’aforisma pungente, un’arte che tutto vorrebbe incoraggiare fuorché lo sperpero di ulteriori parole.
Requisito sostanziale dell’aforisma è il suo aprirsi al silenzio della riflessione, dell’ascolto. In questo caso, non c’è bisogno di citare un genio della sintesi come Karl Kraus per riscontrare quella che in tutta chiarezza è un’incoerenza. Tanto più breve ed efficace è un parere espresso online, quanto più fitti e disordinati saranno i commenti di risposta. Probabilmente Samanthifera è la miglior frequentatrice di twitter in circolazione. Il che dovrebbe far riflettere, specie quando è in grado di riassumere con queste parole una qualsiasi conversazione: «Le cose che si dicono prima di iniziare a parlare».
Ma anche l’ascolto della musica è sempre più recalcitrante agli spazi vuoti, se è vero che già nel dicembre del 1977 il musicista John Cage tenne un concerto a Milano il cui obiettivo era quello di spogliare di gran parte delle sue parole il Diario di Thoreau, rarefacendolo fino al silenzio. La performance di Cage valse a ispirare un moto di stizza nel pubblico, che in capo a pochi minuti tramutò lo spettacolo in un feroce happening di protesta.
Per quanto agonizzanti siano le sorti del silenzio, è tuttavia interessante constatare che, fatta eccezione per la rete, gli spazi a disposizione per parlare sono sempre meno. Non fosse che il fenomeno regressivo per eccellenza pertiene al tempo: ce n’è sempre meno. Bisogna dire le cose alla svelta, e senza troppe sottigliezze. Chi azzardi un ragionamento lievemente impervio, nove volte su dieci è tacciato di presunzione e viene invitato ad abbassare il tono del discorso. La preoccupazione dello speaker radiofonico, dell’inviato televisivo, dell’anchorman è il quindi, seguito da un assiduo punto interrogativo. Altri preferiscono invece fare appello alla comprensibilità, magari invocando lo spettro degli ascoltatori a casa. Esempio: «Me lo dica in due parole. Perché lei è favorevole alla pena capitale?» ha impunemente chiesto all’ospite di turno, in una qualsiasi puntata di Quarto Grado, la neoconduttrice di Forum Barbara Palombelli. Di regola l’intervistato sfodera un’espressione frastornata. Questo se è impossibilitato a ridurre ai minimi termini un discorso complesso, magari perché è un filosofo, e la storia della filosofia — sempre attuale — insegna che un’affermazione non argomentata si riduce alla chiacchiera.
Non è un caso che il disinteresse per la filosofia sia aumentato di pari passo con l’interesse per il web. «Chi mai ha chiesto alla tesi e all’antitesi se vogliono diventare sintesi?», scriveva cent’anni or sono l’aforista polacco Stanislaw Jerzy Lec, sintetizzando a sua volta, e con molto anticipo sui tempi, l’allure dei giorni nostri. Del resto, anche dinanzi ai temi più prossimi alla religione e alla scienza si insinua un’alterazione genetica del discorso. Occorre ripetere che dal beneamato discorso tutti pretendiamo una soluzione, una sintesi?
Caratteristica precipua di chi fa cultura è il silenzio. Da sant’Ambrogio in avanti è perlopiù così che leggiamo un libro. Un atteggiamento religioso, quello verso il silenzio d’ascolto, magnificamente spiegato da padre Giovanni Pozzi, critico letterario e studioso di mistica barocca morto nel 2002, e di cui Adelphi ha pubblicato qualche settimana fa uno degli ultimi scritti, il Tacet. Dove si augura un silenzio interiore che allontani ogni irrequietezza del cuore, e che volga all’abbandono verso la parola altrui. Il rischio più alto dell’incapacità di ascolto è in fondo l’approssimazione. Approssimare significa erodere i contenuti, pena l’ottundimento.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» del dicembre 2013
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