«Bertolt Brecht si sbagliava, oggi sono più utili di ieri»
di Guido Ceronetti
Una frase iniqua, falsissima, di una gridante inattualità, - e spesso citata con reverenza - di Bertolt Brecht, drammaturgo passato di moda, mi ha indignato sempre: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi».
Ma abbiamo in verità più bisogno di eroi e di eroismo che di pane e di maccheroni malcotti. Fortunatamente non ci hanno abbandonati, e ci sono eroi dovunque, esemplari o tragici, e che smentiscono e contrastano quotidianamente, in ogni circostanza che lo richieda, l'ignavia, la vigliaccheria, la fuga dal pericolo, dalla necessaria protezione del debole, il battere in ritirata, il rinnegamento del coraggio, la nefanda ripugnante negazione-rimozione, esplicita o mascherata, della morte. Senza l'eroe una vergogna infinita coprirebbe l'umanità planetaria, più nera, più mortale, più carcinomatogena dello smog di anidride carbonica che calza ormai la Terra come un guanto d'irrespirabilità.
Per la legge naturale, l'eroe non è una anomalia, è la regola. I popoli primitivi furono eroici tutti. Nei popoli evolutissimi, tecnicizzatissimi, l'eroe è una forzatura, un fenomeno relativamente raro; il resto è una massa di passivi e di vili. L'aveva ben capito Mishima! Ci obbligano perfino a morire in monumentali policlinici, e chi riesca volontariamente a morire in casa diventa eroe.
Silenziosamente, tutta la medicina è diventata implacabilmente antieroica. Quando, ragazzini, ci estraevano i dentini senza anestesia era impartirci un insegnamento; ma il risultato di infiniti interventi anestetizzanti è, a lungo termine, la propensione in tutti i popoli, dove sempre più il dolore fisico è vinto dalla conoscenza, ad accettare illimitatamente forme di schiavizzazione mentale senza misura.
Quella dell'ordinatore (mi è duro scrivere compiuter) è una dittatura totalitaria universale, che a poco a poco va strangolando tutto, proprio tutto, quel che ci resta di libero, di autonomia mentale, in una parola: la vita.
L'eroe essendo iscritto nella legge naturale, formidabile rottura dalla passività animale, perciò dono degli Dei, la perdita di eroi sempre più ci avvicina alla condizione di esseri non pensanti, dunque di bestie vestite bene; sfruttandone colpevolmente innumerevoli altre.
Confesso una lunga angoscia, alla quale si è avvinghiata la vecchiaia come i draghi del Laocoonte vaticano: quella di uno che, educato ad aver paura da madre apprensiva e da congiura d'astri, vissuto pauroso eccetto in un punto (non insignificante) riguardo alle idee, ha bramosia di una fine eroica, di un atto di vita buttata con noncuranza per soccorrere qualcuno. E qui è infilabile il mio speciale rapporto, non storiografico, non letterario, con la guerra civile spagnola, che è per me una paradossale anamnesi, il ricordare di un combattente dei due campi, con qualche benevolenza in più, e permanenza più lunga, fino all'esilio in Francia o Messico, in quello repubblicano. In verità, quando cominciò quell'evento degno di essere meditato, avevo otto anni e giocavo con altri gorbetti in vacanza in un paesino canavesano.
Visto e comprato, da un piccolo antiquario, un volume della collana «Presa Diretta» Mondadori (L'assedio dell'Alcázar, 1962, di Cecil Eby, storico americano, con prefazione di Carlo Fruttero): lettura recentissima e appassionante. In copertina, la scritta Settanta giorni inimmaginabili non mente a chi entra e ci resta aggrovigliato.
Nel 1940 un film ovviamente fascista fu fatto da Augusto Genina, per vincere senza contrasti la Coppa Mussolini di quell'anno a Venezia. Aveva un bel cast: Fosco Giachetti, Rafael Calvo, Maria Denis, Andrea Checchi. Lo rivedrei volentieri, con tutta la sua data addosso, e va ricordato che piaceva ad Antonioni. L'allora amatissimo Giachetti interpretava il capitano Vela, uno degli animatori della resistenza, Rafael Calvo il comandante della guarnigione nazionalista, l'ultracattolico colonnello Moscardò. Quell'assedio, due muraglioni di odio contrapposti, resta come epopea e delirio dell'eroismo umano.
Il racconto dello storico è ben più grandioso e straordinario, fornito di mappe e fotografie; non credo difficile procurarselo, da chi non voglia leggere del superfluo.
Io non voglio, qui, difendere le stragi cui era predestinato, in quella definitiva guerra tra due Spagne, il formidabile complesso architettonico dell'Alcázar di Toledo: mi preme rilevare soltanto di quale impressionante capacità di disprezzo della morte (terrorizzati, uomini e donne, più dal disonore di morire de cobarde , o di vivere de rodillas - in ginocchio - come proclamava la Pasionaria) assediati e assedianti diedero prova. L'ultima lettera di Cesare Battisti alla moglie Ernesta, nel 1916, nel suo laconismo estremo di testimone mite in vista della forca trentina, vale a definire altrettanto bene quel che il termine EROE accoglie di umani significati.
Per non doverci sputare, guardandoci allo specchio, in faccia, abbiamo, sempre più avremo, bisogno di eroi.
Ma abbiamo in verità più bisogno di eroi e di eroismo che di pane e di maccheroni malcotti. Fortunatamente non ci hanno abbandonati, e ci sono eroi dovunque, esemplari o tragici, e che smentiscono e contrastano quotidianamente, in ogni circostanza che lo richieda, l'ignavia, la vigliaccheria, la fuga dal pericolo, dalla necessaria protezione del debole, il battere in ritirata, il rinnegamento del coraggio, la nefanda ripugnante negazione-rimozione, esplicita o mascherata, della morte. Senza l'eroe una vergogna infinita coprirebbe l'umanità planetaria, più nera, più mortale, più carcinomatogena dello smog di anidride carbonica che calza ormai la Terra come un guanto d'irrespirabilità.
Per la legge naturale, l'eroe non è una anomalia, è la regola. I popoli primitivi furono eroici tutti. Nei popoli evolutissimi, tecnicizzatissimi, l'eroe è una forzatura, un fenomeno relativamente raro; il resto è una massa di passivi e di vili. L'aveva ben capito Mishima! Ci obbligano perfino a morire in monumentali policlinici, e chi riesca volontariamente a morire in casa diventa eroe.
Silenziosamente, tutta la medicina è diventata implacabilmente antieroica. Quando, ragazzini, ci estraevano i dentini senza anestesia era impartirci un insegnamento; ma il risultato di infiniti interventi anestetizzanti è, a lungo termine, la propensione in tutti i popoli, dove sempre più il dolore fisico è vinto dalla conoscenza, ad accettare illimitatamente forme di schiavizzazione mentale senza misura.
Quella dell'ordinatore (mi è duro scrivere compiuter) è una dittatura totalitaria universale, che a poco a poco va strangolando tutto, proprio tutto, quel che ci resta di libero, di autonomia mentale, in una parola: la vita.
L'eroe essendo iscritto nella legge naturale, formidabile rottura dalla passività animale, perciò dono degli Dei, la perdita di eroi sempre più ci avvicina alla condizione di esseri non pensanti, dunque di bestie vestite bene; sfruttandone colpevolmente innumerevoli altre.
Confesso una lunga angoscia, alla quale si è avvinghiata la vecchiaia come i draghi del Laocoonte vaticano: quella di uno che, educato ad aver paura da madre apprensiva e da congiura d'astri, vissuto pauroso eccetto in un punto (non insignificante) riguardo alle idee, ha bramosia di una fine eroica, di un atto di vita buttata con noncuranza per soccorrere qualcuno. E qui è infilabile il mio speciale rapporto, non storiografico, non letterario, con la guerra civile spagnola, che è per me una paradossale anamnesi, il ricordare di un combattente dei due campi, con qualche benevolenza in più, e permanenza più lunga, fino all'esilio in Francia o Messico, in quello repubblicano. In verità, quando cominciò quell'evento degno di essere meditato, avevo otto anni e giocavo con altri gorbetti in vacanza in un paesino canavesano.
Visto e comprato, da un piccolo antiquario, un volume della collana «Presa Diretta» Mondadori (L'assedio dell'Alcázar, 1962, di Cecil Eby, storico americano, con prefazione di Carlo Fruttero): lettura recentissima e appassionante. In copertina, la scritta Settanta giorni inimmaginabili non mente a chi entra e ci resta aggrovigliato.
Nel 1940 un film ovviamente fascista fu fatto da Augusto Genina, per vincere senza contrasti la Coppa Mussolini di quell'anno a Venezia. Aveva un bel cast: Fosco Giachetti, Rafael Calvo, Maria Denis, Andrea Checchi. Lo rivedrei volentieri, con tutta la sua data addosso, e va ricordato che piaceva ad Antonioni. L'allora amatissimo Giachetti interpretava il capitano Vela, uno degli animatori della resistenza, Rafael Calvo il comandante della guarnigione nazionalista, l'ultracattolico colonnello Moscardò. Quell'assedio, due muraglioni di odio contrapposti, resta come epopea e delirio dell'eroismo umano.
Il racconto dello storico è ben più grandioso e straordinario, fornito di mappe e fotografie; non credo difficile procurarselo, da chi non voglia leggere del superfluo.
Io non voglio, qui, difendere le stragi cui era predestinato, in quella definitiva guerra tra due Spagne, il formidabile complesso architettonico dell'Alcázar di Toledo: mi preme rilevare soltanto di quale impressionante capacità di disprezzo della morte (terrorizzati, uomini e donne, più dal disonore di morire de cobarde , o di vivere de rodillas - in ginocchio - come proclamava la Pasionaria) assediati e assedianti diedero prova. L'ultima lettera di Cesare Battisti alla moglie Ernesta, nel 1916, nel suo laconismo estremo di testimone mite in vista della forca trentina, vale a definire altrettanto bene quel che il termine EROE accoglie di umani significati.
Per non doverci sputare, guardandoci allo specchio, in faccia, abbiamo, sempre più avremo, bisogno di eroi.
«Corriere della Sera» del 3o novembre 2012
Nessun commento:
Posta un commento