È riduttivo ritrarre l'astronomo come un eroe della rivoluzione scientifica. Un’immagine fuori dagli stereotipi nella ricerca dello storico americano Heilbron
di Paolo Mieli
Brillante cortigiano dei Medici, amava filosofia e poesia. Considerava «magnifico, ricco e mirabile» l’«Orlando furioso» di Ludovico Ariosto, mentre si faceva beffe di Torquato Tasso e della sua «Gerusalemme liberata». Nelle dispute pubbliche la sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutoreper poi confutarlo e umiliarlo all’improvviso
È assai riduttivo dipingerlo come un eroe o l’eroe della rivoluzione scientifica. Galileo Galilei, scrive John L. Heilbron in Galileo. Scienziato e umanista, che Einaudi pubblica in un’edizione magnificamente curata da Stefano Gattei, non fu semplicemente un matematico. O meglio non lo fu «più (o meno!) di quanto non fosse un musicista (come suo padre e suo fratello, Michelangelo, ndr), un artista, uno scrittore, un filosofo o una persona che si dilettava a costruire arnesi». Alla filosofia, volle precisare lui stesso, dedicò più anni dei mesi in cui si era impegnato con la matematica. Nel suo studio della Luna, del Sole e dei pianeti negli anni 1609-10, «quando era l’unico uomo sulla Terra a scrutare minuziosamente il volto della Luna e i satelliti di Giove», si giovò del poter fare ricorso «alle proprie capacità di osservatore e di disegnatore, alla propria abilità manuale di artigiano e alla propria conoscenza della prospettiva e dell’ombreggiatura, assai più che alle proprie capacità come matematico». I suoi libri devono tutto ad «anni passati a leggere i poeti e a sperimentare varie forme letterarie che gli permisero di scrivere in modo chiaro e plausibile delle cose più implausibili». Avrebbe potuto essere «un uomo di lettere, il segretario confidenziale di un duca o di un cardinale, e perfino di un granduca o di un Papa». Suo padre lo aveva avviato alla medicina, disciplina alla quale non si sentiva portato; scelse la matematica unicamente per sottrarsi ai progetti paterni. Spesso «metteva da parte le buone maniere», in particolare quando entrava in una disputa con qualcuno che non era d’accordo con lui. Questa «debolezza», insieme «ad un originale senso dell’umorismo e al piacere adolescenziale, che non perse mai, di battere le persone, gli procurò nemici potenti persino tra quanti rispettavano le sue doti». Questo per dire, sostiene Heilbron, che «Galileo non somigliava molto al tormentato inventore della scienza moderna descritto dalle storie abituali». I suoi conoscenti mai «si sarebbero aspettati che divenisse il nemico giurato di Aristotele, il paladino di Copernico, l’alfiere della matematica, la bestia nera dei gesuiti, o il più famoso di tutti i martiri della libertà accademica»: Galileo «non sarebbe diventato alcuna di queste cose se non avesse dovuto lavorare per vivere». I biografi di Galileo sono accusati da Heilbron di avere ceduto alla tentazione «di spingere troppo presto il loro gladiatore in un’arena immaginaria piena di filosofi testardi e di preti che sputano fuoco». È sì vero che egli «ha passato del tempo a discutere con persone del genere, soffrendone le conseguenze», ma «il Galileo gladiatore e martire della scienza iniziò come Galileo l’umanista patrizio». Ed è a descrivere questo secondo personaggio che si impegna Heilbron. A colui che, «armatosi del telescopio, disse apertamente tutto quello che conosceva e anche di più»; all’uomo che, sorprendendo i suoi colleghi e senza tener conto dei loro consigli, attaccò filosofi, teologi e matematici, derise i gesuiti e duellò con chiunque contestasse la sua supremazia o le sue opinioni. Divenendo «un cavaliere errante, donchisciottesco e senza paura», come uno dei paladini del suo poema preferito, l’Orlando furioso di Ariosto. Questo suo comportamento, «che gli conquistò una sempre più numerosa schiera di nemici, rese comprensibile e perfino inevitabile il suo disastroso scontro con un Papa (Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini) che per moltissimi anni era stato suo amico e ammiratore».
Il nostro scienziato, ricostruisce Heilbron, nacque lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, della morte di Michelangelo, il 9 febbraio 1564 (ma la madre ne ritardò la dichiarazione di nascita al 16 dello stesso mese); poi visse 78 anni, «molti dei quali nell’occhio di un ciclone». Gli ultimi, dal 1610 in poi, in preda a «una forma avanzata di malinconia». Da giovane il suo libro preferito fu, come s’è detto, l’Orlando furioso ; si fece beffe, invece, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581) che, data alle stampe dieci anni dopo la battaglia di Lepanto (1571), era divenuta uno dei componimenti preferiti dai gesuiti e il «poema ufficiale» della Controriforma. Per Galileo, Tasso era «gretto, povero e miserabile» tanto quanto Ariosto era «magnifico, ricco e mirabile». Ironizzava sul verso della Gerusalemme in cui, riferendosi al viso di Rinaldo, Tasso scriveva «fan biancheggiando i bei sudor più vivo»: «Non ho mai visto biancheggiare i sudori, se non intorno a i testicoli dei cavalli», fu la sferzante chiosa galileiana. Heilbron, grande estimatore per parte sua della Gerusalemme liberata , prende le distanze da questi giudizi di Galileo, imputandoli a «conservatorismo» e a «insensibilità alla profondità psicologica del Tasso».
Maestro di Galileo a Pisa fu Girolamo Borro, autore di Del flusso e reflusso del mare, elogiato da Michel de Montaigne, un testo molto irriverente nei confronti del potere ecclesiastico. Quando la Chiesa gli ordinò di inserire un paradiso cristiano nel suo firmamento, Borro rispose: «Ho sostenuto e dimostrato che non esiste nulla al di là della sfera (le stelle); mi è stato detto di ritrattare; vi assicuro che se c’è qualcosa, può essere solo un piatto di tagliatelle per l’inquisitore». Dopodiché fu immediatamente mandato in prigione.
Altro maestro pisano di Galileo fu il professore di filosofia Francesco Buonamici. Anche lui anticlericale, introdusse i «frati» nella classificazione aristotelica della vita senziente, come anello di congiunzione tra l’uomo e le bestie. In nessuno di questi esseri Buonamici ammetteva la presenza di un’anima immortale. Una volta gli chiesero se conosceva l’opera di san Tommaso e lui rispose che non leggeva «libri di frati». Era però protetto dal granduca di Firenze Cosimo I e questo valse ad evitargli guai seri. Nemico della Chiesa era anche Gianfrancesco Sagredo, il più caro amico di Galileo nel periodo successivo alla formazione, quello in cui soggiornò a Venezia. Quel Sagredo di cui è rimasta una lunga corrispondenza con un gesuita, nel corso della quale, a stuzzicare l’interlocutore, aveva finto di essere una vedova colta da dubbi teologici e con una gran quantità di denaro a disposizione.
Galileo stesso era un buontempone: «Si sbellicava dalle risate davanti all’umorismo di bassa lega di Ruzzante nonché al rude ed espressivo dialetto dei suoi personaggi». Teneva allegri i propri amici fiorentini con le sue letture in «lingua padovana». Uno dei modi con cui Galileo si guadagnava da vivere (probabilmente il più redditizio) era quello di fare oroscopi. Li faceva anche Keplero, che previde la morte del comandante boemo Albrecht von Wallenstein (1634), al servizio dell’imperatore Ferdinando II nella guerra dei Trent’anni. Ma quest’«arte» per Galileo era anche (se non soprattutto) un diletto: «Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo», scrive l’autore, «suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore».
Fu Cristina, granduchessa di Toscana, che invitò Galileo alla villa Medici sulle colline di Pratolino, dove, qualche tempo dopo, sarebbe divenuto maestro privato di Cosimo. E fu sotto la protezione di quella famiglia che, lasciata la Repubblica di Venezia, nel 1609 alzò il telescopio verso il cielo dove scoprì i segreti della Luna e intuì che la Via Lattea non era «il prodotto di una complessa esalazione terrestre» (come si riteneva fino ad allora), bensì un complesso di stelle fino al momento non identificate come tali. A Firenze Galileo intraprese la sua nuova carriera da «cortigiano». Da professore di basso livello «era arrivato a diventare un giullare di alta classe, da cui ci si aspettava che mitigasse la monotona e formale routine di corte sfornando di tanto in tanto qualche meraviglia». Ad esempio con alcune «gare» che andavano di gran moda.
Cosimo spinse un professore di filosofia pisano, Flaminio Papazzoni, a rappresentare la posizione opposta a quella di Galileo in un dibattito che si sarebbe tenuto alla presenza della famiglia del granduca. Di norma questo tipo di spettacoli andava in scena dopo pranzo («un surrogato della televisione») e Galileo, quando gli veniva chiesto di farlo, era obbligato da contratto a parteciparvi. Fece dunque «la propria parte di giullare» (ma «molto potente»), rispondendo alle domande che gli venivano rivolte e difendendosi nel modo più arguto possibile. E anche se, in quanto momenti ricreativi, «le dispute postprandiali non richiedevano una dichiarazione di vittoria o un’ammissione di sconfitta», nel caso in questione, Galileo vinse con facilità. Non perché Papazzoni fosse incompetente, ma perché, dovendo la propria cattedra a una raccomandazione di Galileo stesso, non aveva alcun interesse a impegnarsi più di tanto.
A volte Galileo doveva confrontarsi con più sapienti in una stessa serata. Il metodo di Galileo era quello di parlare e parlare, in continuazione e in modo brillante, affrontando contemporaneamente tutti coloro che si presentavano a lui, come un campione di scacchi che gioca simultaneamente contro una dozzina di avversari. La sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutore, per poi umiliarlo all’improvviso. Giocava con «le sue vittime raffinando le loro argomentazioni fino a dare l’impressione di renderle invincibili, per poi annichilirle». Lo spettacolo era garantito da questo colpo di scena finale. La corte, in cambio di queste prestazioni, gli avrebbe coperto le spalle per ogni sua attività speculativa. Tant’è che a Firenze Galileo, forte di questa protezione, provò (e riuscì) ad avere un rapporto proficuo con matematici e filosofi della Compagnia di Gesù. E quando diede alle stampe il Sidereus Nuncius, i Medici sollecitarono poemi di encomio da premettere alla successiva edizione in italiano (che non vide mai la luce). Ne rimane ancora una raccolta: quaranta esametri, dieci odi saffiche, due epigrammi e quattro distici, tutti scritti da gesuiti. I quali, secondo Heilbron, «avrebbero dovuto fare a Galileo il medesimo servizio che fanno oggi i giornali nei confronti degli scienziati, cioè promuovere e celebrare le scoperte prima che gli esperti si pronuncino su di esse».
La vicenda galileiana ebbe una svolta il 24 febbraio del 1616, quando undici teologi, selezionati dal Sant’Uffizio per valutare la teoria di Copernico sul «Sole centro del mondo e del tutto privo di moto locale», la giudicarono «formalmente eretica», perché in contrasto con le Sacre Scritture. Cosa che creò grande imbarazzo dal momento che il De revolutionibus di Copernico era stato pubblicato settant’anni prima, non era mai stato censurato e molti scienziati si erano rifatti a quel testo per dare basi alle loro teorie. Compreso Galileo. Il Papa ordinò al cardinal Bellarmino di ammonire Galileo ad abbandonare le opinioni «copernicane». E Galileo, che all’epoca aveva già pubblicato il Sidereus Nuncius, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, obbedì come se si trattasse di una formalità.
I guai più seri per lui sarebbero venuti da due nuovi libri: Il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il nuovo Papa, Urbano VIII, salito al soglio nel 1623, amava dissipare ricchezze ma soprattutto comporre versi. E in questo campo non voleva rivali. Fece addirittura mettere all’Indice l’Adone di Giambattista Marino, per disfarsi di un poeta che avrebbe potuto dargli ombra. Di Galileo apprezzava poco che fosse stato amico dell’autore della Istoria del Concilio Tridentino, di forte impronta antiromana, Paolo Sarpi (scomparso nel gennaio di quello stesso 1623). Ma apprezzò le frecciate ai gesuiti contenute nel Saggiatore, che si era affrettato a leggere. Il Papa trattò Galileo alla stregua di un pari grado. Gli concesse sei udienze private, due medaglie, la promessa di una pensione per il figlio e l’imprimatur per il Dialogo, a patto che presentasse le teorie copernicane come ipotesi. E perché tutti capissero che aria tirava sulla «questione Copernico», alla fine del 1624 il Papa fece dare alle fiamme, in Campo de’ Fiori, l’arcivescovo Antonio De Dominis (o meglio il suo corpo: era morto da tre mesi, dopo essere stato imprigionato a Castel Sant’Angelo) assieme ai suoi libri.
E venne l’epoca dei supposti complotti. Urbano VIII vedeva nemici ovunque e si era fatto di giorno in giorno più sospettoso. Per dare un’idea del clima dell’epoca, Giovanni Ciampoli, che era stato suo segretario, quando nel 1632 fu costretto a lasciare l’incarico, diede questi «consigli» al suo successore: «Cerca la protezione tra funzionari e ciambellani perché sono loro e non i cardinali ad avere il potere; ma non mirare troppo in alto». «Non fidarti di nessuno, non credere a nessuno; non incontrarti con altri uomini della corte nelle tue stanze, se non vuoi che qualcuno sparga la notizia di un complotto». «Evita l’ostentazione; non parlare del principe o di uno scandalo a corte; non parlare in modo saggio; cerca anzi di non parlare affatto». «Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico; non mostrare alcuna preferenza per un qualsiasi particolare ordine; dai l’impressione di essere religioso, devoto e zelante, perché gli ipocriti hanno sempre successo». «Vieni spiato? Onora la spia; la simulazione è l’anima della corte». «Vuoi distruggere un rivale? Rendi pubblico il suo amore per le donne e per il denaro». «Evita di sembrare intelligente, e ricorda che la pazienza, per un uomo di corte, è ciò che la castità, la povertà e l’obbedienza sono per un monaco». «Se fai tutto questo potresti avere successo? prima di cadere». Suggerimenti che ben descrivono il contesto in cui Galileo si trovò a giocare la sua ultima partita.
Contesto che, però, poteva anche offrire delle opportunità. Il pontefice nel 1626 fece liberare Tommaso Campanella (imprigionato per eresia nel 1599) dopo che questi aveva lodato i suoi versi. E lo promosse consigliere astrologico nel momento in cui Campanella smentì la profezia secondo cui Papa Barberini sarebbe morto nel 1628 o nel 1630. Nel contempo Urbano VIII fece arrestare un grande amico di Galileo, Orazio Morandi, direttore del convento vallombrosano di Santa Prassede, perché si era prestato a calcolare quale probabilità, secondo gli astri, aveva questo o quel cardinale di succedergli. Morandi morì in prigione.
Nel 1631 il capo della Chiesa promulgò una bolla, Inscrutabilis, contro la divinazione, in particolare contro la previsione della morte dei papi o dei membri delle loro famiglie. E Urbano VIII che non solo non era morto nelle date previste dagli astrologi, ma aveva visto, nel 1632, cadere sul campo di battaglia il campione dei protestanti Gustavo Adolfo (era in corso la guerra dei Trent’anni) ed era stato ringraziato pubblicamente dalla sua cittadinanza per aver tenuto la peste lontano da Roma (1633), colse quel momento di forza per disfarsi di persone che avevano alzato troppo la testa. Fino ad infastidirlo. Il primo, come si è detto, fu Ciampoli. Il secondo, Galileo.
Questi fu convocato a Roma dall’Inquisizione. Recalcitrò. Ma poi fu costretto al viaggio dell’umiliazione. A Roma fu ospite dell’ambasciatore di Firenze, Francesco Niccolini. A questo punto il libro di Heilbron dedica alcune pagine molto interessanti a smontare l’accusa tradizionale secondo cui le disgrazie di Galileo sono da ricondurre all’ordine dei gesuiti. Galileo accettò la ritrattazione chiesta da Bellarmino: «Ho ceduto a quella natural compiacenza», disse, «che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». In ginocchio davanti all’Inquisizione, Galileo giurò di non dire o scrivere nulla sulla Terra in movimento o sul Sole fisso, a pena di essere nuovamente sospettato di eresia. Anche se non pronunciò mai, riferendosi alla Terra, la frase che, per riscattarlo, gli è stata attribuita per secoli: «Eppur si muove!».
Da quel momento Galileo invecchiò rapidamente tra amarezze e malanni. Il poeta inglese John Milton, che gli fece visita nel 1638, lo trovò piegato dalle sofferenze. L’inquisitore Giovanni Muzzarelli, che doveva accertare se davvero fosse malato, scoprì che dal 1637, a causa di un glaucoma, era diventato totalmente cieco. In seguito furono un lancinante dolore artritico, una strana febbre, il delirio. Morì l’8 gennaio del 1642. Urbano VIII scoraggiò il granduca Ferdinando dal proposito di erigergli un monumento, anzi gli negò il diritto di sepoltura a Firenze, così come aveva fatto per Paolo Sarpi a Venezia. Poi fu il silenzio. O quasi.
La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture». Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca - e la circostanza colpisce - di piena Restaurazione.
A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede». Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa».
«Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato che la Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo». Ma la novità era che di fatto si autorizzavano - pur con le cautele di cui si è detto - la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù - fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi - l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso. La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa. Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII. Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi , la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo per la Chiesa!».
Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui. Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia».
Una formulazione che tendeva a dar ragione sia a Galileo sia a coloro che lo avevano condannato e che Heilbron definisce, in alcuni passaggi, «perfino comica». Ma il recupero di Galileo era ormai in prossimità del traguardo fissato da Giovanni Paolo II: quello della definitiva riammissione dello scienziato nel recinto della comunità cristiana. In seguito è perfino accaduto che «reliquie» di Galileo siano state esposte in chiese, a suo tempo da lui frequentate, di Venezia, Padova, Firenze e Roma. Si potrebbe pensare che sia iniziato un processo di beatificazione. Qualcuno potrebbe obiettare che Galileo non fece miracoli. Ma - ribatte Heilbron - neanche Tommaso d’Aquino ne aveva fatti.
In sostanza, scrive Heilbron, «Galileo fece un miracolo stupendo: distrusse l’antica distinzione tra regni terrestre e celeste, sollevò la Terra in cielo, rese i pianeti tante Terre e rivelò che la nostra Luna non è unica nell’universo. Secondo la meccanica di Galileo, la più piccola forza può muovere il più grande peso, in un tempo sufficiente; la direzione del moto è chiara: chi può dubitare che entro i prossimi quattrocento anni la Chiesa riconoscerà i doni divini di Galileo, riparerà alle sue sofferenze, ignorerà la sua arroganza e lo farà santo?». Conclusione paradossale. Ma fino a un certo punto.
Il nostro scienziato, ricostruisce Heilbron, nacque lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, della morte di Michelangelo, il 9 febbraio 1564 (ma la madre ne ritardò la dichiarazione di nascita al 16 dello stesso mese); poi visse 78 anni, «molti dei quali nell’occhio di un ciclone». Gli ultimi, dal 1610 in poi, in preda a «una forma avanzata di malinconia». Da giovane il suo libro preferito fu, come s’è detto, l’Orlando furioso ; si fece beffe, invece, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581) che, data alle stampe dieci anni dopo la battaglia di Lepanto (1571), era divenuta uno dei componimenti preferiti dai gesuiti e il «poema ufficiale» della Controriforma. Per Galileo, Tasso era «gretto, povero e miserabile» tanto quanto Ariosto era «magnifico, ricco e mirabile». Ironizzava sul verso della Gerusalemme in cui, riferendosi al viso di Rinaldo, Tasso scriveva «fan biancheggiando i bei sudor più vivo»: «Non ho mai visto biancheggiare i sudori, se non intorno a i testicoli dei cavalli», fu la sferzante chiosa galileiana. Heilbron, grande estimatore per parte sua della Gerusalemme liberata , prende le distanze da questi giudizi di Galileo, imputandoli a «conservatorismo» e a «insensibilità alla profondità psicologica del Tasso».
Maestro di Galileo a Pisa fu Girolamo Borro, autore di Del flusso e reflusso del mare, elogiato da Michel de Montaigne, un testo molto irriverente nei confronti del potere ecclesiastico. Quando la Chiesa gli ordinò di inserire un paradiso cristiano nel suo firmamento, Borro rispose: «Ho sostenuto e dimostrato che non esiste nulla al di là della sfera (le stelle); mi è stato detto di ritrattare; vi assicuro che se c’è qualcosa, può essere solo un piatto di tagliatelle per l’inquisitore». Dopodiché fu immediatamente mandato in prigione.
Altro maestro pisano di Galileo fu il professore di filosofia Francesco Buonamici. Anche lui anticlericale, introdusse i «frati» nella classificazione aristotelica della vita senziente, come anello di congiunzione tra l’uomo e le bestie. In nessuno di questi esseri Buonamici ammetteva la presenza di un’anima immortale. Una volta gli chiesero se conosceva l’opera di san Tommaso e lui rispose che non leggeva «libri di frati». Era però protetto dal granduca di Firenze Cosimo I e questo valse ad evitargli guai seri. Nemico della Chiesa era anche Gianfrancesco Sagredo, il più caro amico di Galileo nel periodo successivo alla formazione, quello in cui soggiornò a Venezia. Quel Sagredo di cui è rimasta una lunga corrispondenza con un gesuita, nel corso della quale, a stuzzicare l’interlocutore, aveva finto di essere una vedova colta da dubbi teologici e con una gran quantità di denaro a disposizione.
Galileo stesso era un buontempone: «Si sbellicava dalle risate davanti all’umorismo di bassa lega di Ruzzante nonché al rude ed espressivo dialetto dei suoi personaggi». Teneva allegri i propri amici fiorentini con le sue letture in «lingua padovana». Uno dei modi con cui Galileo si guadagnava da vivere (probabilmente il più redditizio) era quello di fare oroscopi. Li faceva anche Keplero, che previde la morte del comandante boemo Albrecht von Wallenstein (1634), al servizio dell’imperatore Ferdinando II nella guerra dei Trent’anni. Ma quest’«arte» per Galileo era anche (se non soprattutto) un diletto: «Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo», scrive l’autore, «suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore».
Fu Cristina, granduchessa di Toscana, che invitò Galileo alla villa Medici sulle colline di Pratolino, dove, qualche tempo dopo, sarebbe divenuto maestro privato di Cosimo. E fu sotto la protezione di quella famiglia che, lasciata la Repubblica di Venezia, nel 1609 alzò il telescopio verso il cielo dove scoprì i segreti della Luna e intuì che la Via Lattea non era «il prodotto di una complessa esalazione terrestre» (come si riteneva fino ad allora), bensì un complesso di stelle fino al momento non identificate come tali. A Firenze Galileo intraprese la sua nuova carriera da «cortigiano». Da professore di basso livello «era arrivato a diventare un giullare di alta classe, da cui ci si aspettava che mitigasse la monotona e formale routine di corte sfornando di tanto in tanto qualche meraviglia». Ad esempio con alcune «gare» che andavano di gran moda.
Cosimo spinse un professore di filosofia pisano, Flaminio Papazzoni, a rappresentare la posizione opposta a quella di Galileo in un dibattito che si sarebbe tenuto alla presenza della famiglia del granduca. Di norma questo tipo di spettacoli andava in scena dopo pranzo («un surrogato della televisione») e Galileo, quando gli veniva chiesto di farlo, era obbligato da contratto a parteciparvi. Fece dunque «la propria parte di giullare» (ma «molto potente»), rispondendo alle domande che gli venivano rivolte e difendendosi nel modo più arguto possibile. E anche se, in quanto momenti ricreativi, «le dispute postprandiali non richiedevano una dichiarazione di vittoria o un’ammissione di sconfitta», nel caso in questione, Galileo vinse con facilità. Non perché Papazzoni fosse incompetente, ma perché, dovendo la propria cattedra a una raccomandazione di Galileo stesso, non aveva alcun interesse a impegnarsi più di tanto.
A volte Galileo doveva confrontarsi con più sapienti in una stessa serata. Il metodo di Galileo era quello di parlare e parlare, in continuazione e in modo brillante, affrontando contemporaneamente tutti coloro che si presentavano a lui, come un campione di scacchi che gioca simultaneamente contro una dozzina di avversari. La sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutore, per poi umiliarlo all’improvviso. Giocava con «le sue vittime raffinando le loro argomentazioni fino a dare l’impressione di renderle invincibili, per poi annichilirle». Lo spettacolo era garantito da questo colpo di scena finale. La corte, in cambio di queste prestazioni, gli avrebbe coperto le spalle per ogni sua attività speculativa. Tant’è che a Firenze Galileo, forte di questa protezione, provò (e riuscì) ad avere un rapporto proficuo con matematici e filosofi della Compagnia di Gesù. E quando diede alle stampe il Sidereus Nuncius, i Medici sollecitarono poemi di encomio da premettere alla successiva edizione in italiano (che non vide mai la luce). Ne rimane ancora una raccolta: quaranta esametri, dieci odi saffiche, due epigrammi e quattro distici, tutti scritti da gesuiti. I quali, secondo Heilbron, «avrebbero dovuto fare a Galileo il medesimo servizio che fanno oggi i giornali nei confronti degli scienziati, cioè promuovere e celebrare le scoperte prima che gli esperti si pronuncino su di esse».
La vicenda galileiana ebbe una svolta il 24 febbraio del 1616, quando undici teologi, selezionati dal Sant’Uffizio per valutare la teoria di Copernico sul «Sole centro del mondo e del tutto privo di moto locale», la giudicarono «formalmente eretica», perché in contrasto con le Sacre Scritture. Cosa che creò grande imbarazzo dal momento che il De revolutionibus di Copernico era stato pubblicato settant’anni prima, non era mai stato censurato e molti scienziati si erano rifatti a quel testo per dare basi alle loro teorie. Compreso Galileo. Il Papa ordinò al cardinal Bellarmino di ammonire Galileo ad abbandonare le opinioni «copernicane». E Galileo, che all’epoca aveva già pubblicato il Sidereus Nuncius, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, obbedì come se si trattasse di una formalità.
I guai più seri per lui sarebbero venuti da due nuovi libri: Il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il nuovo Papa, Urbano VIII, salito al soglio nel 1623, amava dissipare ricchezze ma soprattutto comporre versi. E in questo campo non voleva rivali. Fece addirittura mettere all’Indice l’Adone di Giambattista Marino, per disfarsi di un poeta che avrebbe potuto dargli ombra. Di Galileo apprezzava poco che fosse stato amico dell’autore della Istoria del Concilio Tridentino, di forte impronta antiromana, Paolo Sarpi (scomparso nel gennaio di quello stesso 1623). Ma apprezzò le frecciate ai gesuiti contenute nel Saggiatore, che si era affrettato a leggere. Il Papa trattò Galileo alla stregua di un pari grado. Gli concesse sei udienze private, due medaglie, la promessa di una pensione per il figlio e l’imprimatur per il Dialogo, a patto che presentasse le teorie copernicane come ipotesi. E perché tutti capissero che aria tirava sulla «questione Copernico», alla fine del 1624 il Papa fece dare alle fiamme, in Campo de’ Fiori, l’arcivescovo Antonio De Dominis (o meglio il suo corpo: era morto da tre mesi, dopo essere stato imprigionato a Castel Sant’Angelo) assieme ai suoi libri.
E venne l’epoca dei supposti complotti. Urbano VIII vedeva nemici ovunque e si era fatto di giorno in giorno più sospettoso. Per dare un’idea del clima dell’epoca, Giovanni Ciampoli, che era stato suo segretario, quando nel 1632 fu costretto a lasciare l’incarico, diede questi «consigli» al suo successore: «Cerca la protezione tra funzionari e ciambellani perché sono loro e non i cardinali ad avere il potere; ma non mirare troppo in alto». «Non fidarti di nessuno, non credere a nessuno; non incontrarti con altri uomini della corte nelle tue stanze, se non vuoi che qualcuno sparga la notizia di un complotto». «Evita l’ostentazione; non parlare del principe o di uno scandalo a corte; non parlare in modo saggio; cerca anzi di non parlare affatto». «Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico; non mostrare alcuna preferenza per un qualsiasi particolare ordine; dai l’impressione di essere religioso, devoto e zelante, perché gli ipocriti hanno sempre successo». «Vieni spiato? Onora la spia; la simulazione è l’anima della corte». «Vuoi distruggere un rivale? Rendi pubblico il suo amore per le donne e per il denaro». «Evita di sembrare intelligente, e ricorda che la pazienza, per un uomo di corte, è ciò che la castità, la povertà e l’obbedienza sono per un monaco». «Se fai tutto questo potresti avere successo? prima di cadere». Suggerimenti che ben descrivono il contesto in cui Galileo si trovò a giocare la sua ultima partita.
Contesto che, però, poteva anche offrire delle opportunità. Il pontefice nel 1626 fece liberare Tommaso Campanella (imprigionato per eresia nel 1599) dopo che questi aveva lodato i suoi versi. E lo promosse consigliere astrologico nel momento in cui Campanella smentì la profezia secondo cui Papa Barberini sarebbe morto nel 1628 o nel 1630. Nel contempo Urbano VIII fece arrestare un grande amico di Galileo, Orazio Morandi, direttore del convento vallombrosano di Santa Prassede, perché si era prestato a calcolare quale probabilità, secondo gli astri, aveva questo o quel cardinale di succedergli. Morandi morì in prigione.
Nel 1631 il capo della Chiesa promulgò una bolla, Inscrutabilis, contro la divinazione, in particolare contro la previsione della morte dei papi o dei membri delle loro famiglie. E Urbano VIII che non solo non era morto nelle date previste dagli astrologi, ma aveva visto, nel 1632, cadere sul campo di battaglia il campione dei protestanti Gustavo Adolfo (era in corso la guerra dei Trent’anni) ed era stato ringraziato pubblicamente dalla sua cittadinanza per aver tenuto la peste lontano da Roma (1633), colse quel momento di forza per disfarsi di persone che avevano alzato troppo la testa. Fino ad infastidirlo. Il primo, come si è detto, fu Ciampoli. Il secondo, Galileo.
Questi fu convocato a Roma dall’Inquisizione. Recalcitrò. Ma poi fu costretto al viaggio dell’umiliazione. A Roma fu ospite dell’ambasciatore di Firenze, Francesco Niccolini. A questo punto il libro di Heilbron dedica alcune pagine molto interessanti a smontare l’accusa tradizionale secondo cui le disgrazie di Galileo sono da ricondurre all’ordine dei gesuiti. Galileo accettò la ritrattazione chiesta da Bellarmino: «Ho ceduto a quella natural compiacenza», disse, «che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». In ginocchio davanti all’Inquisizione, Galileo giurò di non dire o scrivere nulla sulla Terra in movimento o sul Sole fisso, a pena di essere nuovamente sospettato di eresia. Anche se non pronunciò mai, riferendosi alla Terra, la frase che, per riscattarlo, gli è stata attribuita per secoli: «Eppur si muove!».
Da quel momento Galileo invecchiò rapidamente tra amarezze e malanni. Il poeta inglese John Milton, che gli fece visita nel 1638, lo trovò piegato dalle sofferenze. L’inquisitore Giovanni Muzzarelli, che doveva accertare se davvero fosse malato, scoprì che dal 1637, a causa di un glaucoma, era diventato totalmente cieco. In seguito furono un lancinante dolore artritico, una strana febbre, il delirio. Morì l’8 gennaio del 1642. Urbano VIII scoraggiò il granduca Ferdinando dal proposito di erigergli un monumento, anzi gli negò il diritto di sepoltura a Firenze, così come aveva fatto per Paolo Sarpi a Venezia. Poi fu il silenzio. O quasi.
La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture». Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca - e la circostanza colpisce - di piena Restaurazione.
A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede». Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa».
«Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato che la Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo». Ma la novità era che di fatto si autorizzavano - pur con le cautele di cui si è detto - la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù - fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi - l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso. La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa. Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII. Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi , la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo per la Chiesa!».
Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui. Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia».
Una formulazione che tendeva a dar ragione sia a Galileo sia a coloro che lo avevano condannato e che Heilbron definisce, in alcuni passaggi, «perfino comica». Ma il recupero di Galileo era ormai in prossimità del traguardo fissato da Giovanni Paolo II: quello della definitiva riammissione dello scienziato nel recinto della comunità cristiana. In seguito è perfino accaduto che «reliquie» di Galileo siano state esposte in chiese, a suo tempo da lui frequentate, di Venezia, Padova, Firenze e Roma. Si potrebbe pensare che sia iniziato un processo di beatificazione. Qualcuno potrebbe obiettare che Galileo non fece miracoli. Ma - ribatte Heilbron - neanche Tommaso d’Aquino ne aveva fatti.
In sostanza, scrive Heilbron, «Galileo fece un miracolo stupendo: distrusse l’antica distinzione tra regni terrestre e celeste, sollevò la Terra in cielo, rese i pianeti tante Terre e rivelò che la nostra Luna non è unica nell’universo. Secondo la meccanica di Galileo, la più piccola forza può muovere il più grande peso, in un tempo sufficiente; la direzione del moto è chiara: chi può dubitare che entro i prossimi quattrocento anni la Chiesa riconoscerà i doni divini di Galileo, riparerà alle sue sofferenze, ignorerà la sua arroganza e lo farà santo?». Conclusione paradossale. Ma fino a un certo punto.
«Corriere della Sera» del 10 dicembre 2013
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