Il declino della scuola italiana è colpa del disarmo degli educatori di fronte alle responsabilità
di Goffredo Fofi
La domanda che dovrebbero porsi gli educatori è sul peso che in questa crisi così vasta e profonda può avere l’educazione, o meglio una co-educazione comunitaria e collettiva, e che tipo di scuola potrebbe ancora avere utilità e senso. La crisi del sistema scolastico ha preceduto quella più geneerale dell’economia ed è andata di pari passo con la presunta sconfitta della miseria, con il coinvolgimento di tutti nella provvisoria salute del mercato, facendosi in tal modo corresponsabile del declino della società. A questo declino la scuola non ha saputo (e, anzitutto, non ha voluto) opporre nessun freno, né coloro che al suo interno teorizzavano impossessandosi del ruolo di «educatori degli educatori» si sono preoccupati di ragionare su cosa sarebbe potuto accadere, individuando i germi del male che andava minandola alle radici. Eppure i modi per poterlo fare c’erano, e c’erano tutte le avvisaglie per insospettirsi sull’esito dei modelli dominanti, quelli che i pedagogisti più ufficiali accettavano in blocco, mentre i più onesti e i meno sciocchi continuavano a ragionare sugli aspetti secondari dell’intervento pedagogico – molto rilevanti nel lavoro quotidiano! – non riuscendo però a vedere, come si dice, oltre il proprio naso, sopra la propria testa. Sotto le proprie scarpe. L’«educazione» è una cosa più vasta della «pedagogia». È un campo molto più grande, e riguarda una responsabilità che dovrebbe essere molto più comune e diffusa. È una cosa troppo importante e decisiva per lasciarne i destini nelle mani di una manciata di pedagogisti di mestiere (oggi una categoria di molto secondaria anche per sua stessa colpa), che deformano più che formare le intelligenze degli studenti di Scienze della formazione, che minano e disarmano, invece di renderle più forti, le convinzioni e le difese di coloro che si sentono portati al nobile e importante compito di insegnare agli altri - ai bambini, agli adolescenti, ai giovani.
Sono diplomato maestro e mi sono occupato a lungo di bambini, di adolescenti, d’intervento sociale e culturale fuori o ai margini delle istituzioni. A Palermo e a Napoli, in anni lontani, ho fatto parte di piccole ma significative esperienze di «lavoro con i bambini» in cui la pedagogia aveva un peso importante, non assoluto ma pur sempre centrale. Ho conosciuto e frequentato, ne sono stato allievo, amico e a volte in qualche modo collaboratore di Aldo Capitini e Lamberto Borghi, Ada Gobetti a Margherita Zoebeli, Aldo Pettini e Grazia Fresco, Lucio Lombardo Radice e Dina Bertoni Jovine e tanti altri, e ho conosciuto e frequentato gruppi che praticavano l’educazione degli adulti e il «lavoro di comunità», da Danilo Dolci ad Angela Zucconi, o di formazione o "recupero" dei giovani, dal Movimento di collaborazione civica ai Focolari di semilibertà per i ragazzi disadattati, o di formazione degli educatori, dal Movimento di cooperazione educativa ai Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva. Ho seguito a volte da molto vicino, nel corso del tempo, le iniziative di alcuni preti d’eccezione, da don Zeno a monsignor Di Liegro, dalla comunità di Capodarco al Progetto Sud calabrese.
Ma non per questo mi ritengo un pedagogista, né ho mai studiato seriamente il funzionamento della scuola italiana, le leggi che la riguardano. Dunque, sia chiaro: non sono un pedagogista, sono molto ignorante in fatto di scuola e le mie poche idee sulla pedagogia nascono soltanto dal rapporto amicale stabilito negli anni con insegnanti e studenti, e con i bambini. Non sempre i migliori educatori del passato si definivano pedagogisti, né i pedagogisti migliori erano laureati in pedagogia. Oggi i pedagogisti di professione sono stati aggrediti dalla crisi non meno di tante altre categorie e forse di più, poiché dall’alto delle loro cattedre non hanno trovato nulla da opporre alla mutazione che giungeva, che essi non hanno fatto alcuno sforzo per capire e ancora di meno per contrastare nella sua violenza, affrettandosi invece ad accettarne le conseguenze, cercando goffamente d’inserirsi nel flusso delle scelte decretate dal potere economico e facendosene nella stragrande maggioranza dei casi gli alfieri, con l'elaborazione di astruse e servili formule di ripiego, in primis dalle parti del fu Partito comunista nelle sue molte e vieppiù insipide trasformazioni. Al loro seguito si sono posti, con adesione superficiale e insensata, decine di migliaia di insegnanti. Preoccupati quasi soltanto delle proprie condizioni economiche e dei blandi privilegi di cui in passato godevano, gli «educatori autorizzati hanno faticosamente realizzato di contare sempre di meno e di risultare sempre più superflui, e si sono arroccati, dapprima, nell’accanita (e vana, per via dei meccanismi stessi che andavano accettando) difesa del proprio status economico e solo più tardi, cominciando a sospettare di non essere più utili al nuovo ordine, del proprio status sociale. Ne è conseguita una vastissima pubblicistica, fiorita presso i grandi come presso i piccoli editori, caratterizzata dal lamento ma mai o quasi mai dalla proposta.
Ma più che altro, a renderci insoddisfatti delle reazioni del "ceto pedagogico" alla crisi che attraversiamo – che è ben più che una crisi di un sistema pedagogico che ha retto per più di un secolo, che è una crisi di civiltà e un passaggio epocale paragonabili soltanto a quello che ci introdusse nella cosiddetta "età moderna" – è la scarsa assunzione di responsabilità verso i problemi che riguardano né più né meno che i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e la loro difesa, e perciò stesso il futuro. Per chi si dà ancora pena per il futuro dell’uomo, in un contesto di mutazione e manipolazione che nega o nasconde proprio il futuro, l’educazione dovrebbe tornare a prevalere sulla politica, e deve semmai essere il perno di una nuova politica, la sua prima preoccupazione, la sua ragion d’essere.
Ciò di cui si ha bisogno è una nuova o una riaffermata assunzione di responsabilità, profonda e radicale, da parte degli adulti chiamati istituzionalmente, o per privata vocazione e persuasione, a lavorare con e per i bambini, gli adolescenti, i giovani. Anche da parte dei genitori, come è ovvio. Anche da parte degli adulti tutti.
Sono diplomato maestro e mi sono occupato a lungo di bambini, di adolescenti, d’intervento sociale e culturale fuori o ai margini delle istituzioni. A Palermo e a Napoli, in anni lontani, ho fatto parte di piccole ma significative esperienze di «lavoro con i bambini» in cui la pedagogia aveva un peso importante, non assoluto ma pur sempre centrale. Ho conosciuto e frequentato, ne sono stato allievo, amico e a volte in qualche modo collaboratore di Aldo Capitini e Lamberto Borghi, Ada Gobetti a Margherita Zoebeli, Aldo Pettini e Grazia Fresco, Lucio Lombardo Radice e Dina Bertoni Jovine e tanti altri, e ho conosciuto e frequentato gruppi che praticavano l’educazione degli adulti e il «lavoro di comunità», da Danilo Dolci ad Angela Zucconi, o di formazione o "recupero" dei giovani, dal Movimento di collaborazione civica ai Focolari di semilibertà per i ragazzi disadattati, o di formazione degli educatori, dal Movimento di cooperazione educativa ai Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva. Ho seguito a volte da molto vicino, nel corso del tempo, le iniziative di alcuni preti d’eccezione, da don Zeno a monsignor Di Liegro, dalla comunità di Capodarco al Progetto Sud calabrese.
Ma non per questo mi ritengo un pedagogista, né ho mai studiato seriamente il funzionamento della scuola italiana, le leggi che la riguardano. Dunque, sia chiaro: non sono un pedagogista, sono molto ignorante in fatto di scuola e le mie poche idee sulla pedagogia nascono soltanto dal rapporto amicale stabilito negli anni con insegnanti e studenti, e con i bambini. Non sempre i migliori educatori del passato si definivano pedagogisti, né i pedagogisti migliori erano laureati in pedagogia. Oggi i pedagogisti di professione sono stati aggrediti dalla crisi non meno di tante altre categorie e forse di più, poiché dall’alto delle loro cattedre non hanno trovato nulla da opporre alla mutazione che giungeva, che essi non hanno fatto alcuno sforzo per capire e ancora di meno per contrastare nella sua violenza, affrettandosi invece ad accettarne le conseguenze, cercando goffamente d’inserirsi nel flusso delle scelte decretate dal potere economico e facendosene nella stragrande maggioranza dei casi gli alfieri, con l'elaborazione di astruse e servili formule di ripiego, in primis dalle parti del fu Partito comunista nelle sue molte e vieppiù insipide trasformazioni. Al loro seguito si sono posti, con adesione superficiale e insensata, decine di migliaia di insegnanti. Preoccupati quasi soltanto delle proprie condizioni economiche e dei blandi privilegi di cui in passato godevano, gli «educatori autorizzati hanno faticosamente realizzato di contare sempre di meno e di risultare sempre più superflui, e si sono arroccati, dapprima, nell’accanita (e vana, per via dei meccanismi stessi che andavano accettando) difesa del proprio status economico e solo più tardi, cominciando a sospettare di non essere più utili al nuovo ordine, del proprio status sociale. Ne è conseguita una vastissima pubblicistica, fiorita presso i grandi come presso i piccoli editori, caratterizzata dal lamento ma mai o quasi mai dalla proposta.
Ma più che altro, a renderci insoddisfatti delle reazioni del "ceto pedagogico" alla crisi che attraversiamo – che è ben più che una crisi di un sistema pedagogico che ha retto per più di un secolo, che è una crisi di civiltà e un passaggio epocale paragonabili soltanto a quello che ci introdusse nella cosiddetta "età moderna" – è la scarsa assunzione di responsabilità verso i problemi che riguardano né più né meno che i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e la loro difesa, e perciò stesso il futuro. Per chi si dà ancora pena per il futuro dell’uomo, in un contesto di mutazione e manipolazione che nega o nasconde proprio il futuro, l’educazione dovrebbe tornare a prevalere sulla politica, e deve semmai essere il perno di una nuova politica, la sua prima preoccupazione, la sua ragion d’essere.
Ciò di cui si ha bisogno è una nuova o una riaffermata assunzione di responsabilità, profonda e radicale, da parte degli adulti chiamati istituzionalmente, o per privata vocazione e persuasione, a lavorare con e per i bambini, gli adolescenti, i giovani. Anche da parte dei genitori, come è ovvio. Anche da parte degli adulti tutti.
«Avvenire» del 4 luglio giugno 2012
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