di Giuseppe Bonura
Siamo usciti tutti dal Cappotto di Gogol. Furono queste, pressappoco, le parole che Dostoevskij pronunciò per sottolineare il suo debito e quello degli altri grandi narratori russi del secolo scorso verso l’autore delle Anime morte. Che si sappia, nessun romanziere italiano ha ancora avuto l’umiltà di confessare: «Sono uscito dalla tonaca di don Abbondio». Eppure il romanzo italiano è nato con Alessandro Manzoni, e se non ha conosciuto gli sviluppi e gli splendori della narrativa degli altri Paesi europei ed extraeuropei, non è stato certo per colpa del «lombardo dell’Arno» bensì di altri fattori politici, sociali e culturali, che hanno impedito alla nostra nazione di produrre una letteratura competitiva. Tanto vero che ancora oggi all’estero il Manzoni è quasi un carneade, almeno presso il grosso pubblico.
Le ragioni sono parecchie, e non è qui il caso di enumerarle, anche per non suscitare i fantasmi di un passato che non ci fa certo onore. Però una cosa bisogna dirla, ed è che la borghesia di ieri e di oggi si è sempre distinta per il suo pervicace miopismo guicciardiniano, alimentato per giunta dalla cecità di quella parte clericale che vedeva e vede in ogni «apertura» un germe di regresso anziché di progresso. Né deve stupire se per costoro I promessi sposi non sono affatto in odore di santità giacché contengono «una delle più corrosive e irridenti critiche alle prevaricazioni ideologiche, materiali e morali della classe dei potenti che amano sadicamente, e pour cause, la cosiddetta umiltà e la cosiddetta ignoranza del popolo, quasi che queste due «virtù» siano un prodotto della natura e non il risultato di ben individuabili politiche di vertice.
Questo aveva capito il Manzoni frequentando fortunatamente gli ambienti culturali di Parigi. Se fosse rimasto in Italia, in lui non si sarebbe verificata quella straordinaria saldatura tra illuminismo e cristianesimo sulla quale si fonda il valore. È più autentico dei Promessi sposi. Infatti, l’umiltà che predica il Manzoni non è una virtù ricevuta dal potente e messa supinamente in pratica secondo i suoi intendimenti, ma una conquista morale strappata nel vivo delle lotte sociali. E l’ignoranza e la stolidità dei poveri sono sempre viste dal Manzoni come il risultato di una pedagogia, diciamo così, alla rovescia, che mira a trasformare subdolamente l’ignoranza in saggezza. Sia chiaro, non stiamo cercando di dare l’immagine di un Manzoni rivoluzionario, che sarebbe ridicola, oltre che storicamente falsa. Ma non accettiamo nemmeno l’immagine di un Manzoni tutto latte e miele, che la scuola italiana ha contrabbandato e contrabbanda ancora gli studenti, con l’effetto di iniettare in essi una massiccia ripulsa per l’opera del grande lombardo.
La strumentalizzazione in chiave conservatrice, quando non addirittura reazionaria, del Manzoni è uno dei più tristi capitoli della nostra scuola, che ne ha scritti anche di peggio. vero che l’epilogo dei Promessi sposi è improntato a un ottimismo quasi da «happy end» hollywoodiano. Ma è anche vero che il personaggio che domina la scena del romanzo è la peste che delle volte assume le sembianze degli uomini e dei regni, a volte quelle di una indifferente e atroce calamità naturale. Nonostante i suoi schietti sentimenti cattolici, albergava nell’inconscio del Manzoni il Dio biblico, e la visione che egli aveva dei popoli e della natura era profondamente tragica. Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che la nevrosi di cui soffriva il Manzoni era provocata dal contrasto tra il Dio biblico e il messaggio evangelico.
Né crediamo di diminuire la sua grandezza se affermiamo che per non soccombere alla malattia, egli si aggrappò ai vangeli e su di essi, con uno sforzo titanico, fondò 1a sua filosofia e la sua arte. E tuttavia il Dio biblico, un Dio dispensatore di una terrificante giustizia senza·appello e senza carità, non fu mai esorcizzato del tutto. Nei Promessi sposi agiscono efficacemente la provvidenza e la grazia, ma si direbbe che vengano evocate o invocate per giustificare la peste, della quale il Manzoni subiva il fascino sinistro. Non a caso le pagine sulla peste sono le più poetiche, e intrise di alta religiosità, dell’intero romanzo. Quando il Manzoni non «sente» la peste, il suo stile si fa opaco, diventa esornativo e agiografico. Del resto fu l’angosciosa consapevolezza della peste umana e naturale che lo spinse, tra il 1821 e il 1823, a scrivere Fermo e Lucia dal cui nucleo germineranno i primi Promessi sposi del 1827 e quelli definitivi del 1840. I filologi sanno quanto sia fruttuoso e istruttivo frugare tra le carte inedite di uno scrittore. È lì infatti, in quei quaderni o fogli chiusi in un cassetto e ripudiati ma non distrutti, che si cela il segreto della sua personalità e del suo travaglio per raggiungere la espressione compiuta. Gli abbozzi sono sempre una confessione senza inibizioni né freni di sorta.
Rappresentano lo specchio della nuda realtà del contenuto di contro alla levigata verità della forma. Ad esempio, la malvagità di don Rodrigo, dell’Innominato e della monaca di Monza, che nei Promessi sposi risulta piuttosto schematica tanto da sembrare puramente arbitraria, in Fermo e Lucia è spiegata con effusione ed è resa plausibile. Lucia narra che «don Rodrigo veniva spesso alla filanda per vederci trarre 1a seta. Andava da un fornello all’altro facendo a questa o a quella mille vezzi l’uno peggio dell’altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva; chi gridava; e purtroppo v’era chi lasciava fare! PSe ci lamentavamo al padrone, egli diceva: 'badate al fatto vostro...'». Non c’è chi non veda, in questo brano espulso dai Promessi sposi la stupefacente attualità della passione di don Rodrigo, il quale si direbbe il figlio di un cinico industrialotto dei nostri giorni che si è invaghito della verginità di una sua operaia. oi è stato giustamente notato che l’Innominato, che in Fermo e Lucia è chiamato i1 conte del sagrato, è un boss ante-litteram, avido e sanguinario, protetto da un’omertà di un’intera società mafiosa, e che quindi la sua decisione di aiutare don Rodrigo nella sua triste impresa è più che naturale, trattandosi di dare una mano a un uomo della sua stessa pasta e del suo stesso milieu. Un altro famoso episodio eliminato è quello delle due monache che massacrano a colpi di sgabello la monaca che sapeva troppe cose sul convento di Monza. Citiamo infine una considerazione, anche questa assente dai Promessi Sposi, che il Manzoni fa su don Abbondio o meglio su tipi alla don Abbondio: «L’uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente, mostra di avere almeno una gran forza d’animo, e di sentire le alte passioni».
È una considerazione terribile che imparenta il Manzoni con i più spregiudicati ideologi della grandezza degli scellerati consapevoli. Era la suggestione del bonapartismo che lo induceva a scrivere queste parole, forse unita all’eco della fosca e grandiosa età elisabettiana che gli giungeva attraverso la lettura dei romanzi di Walter Scott. Era comunque e sempre l’attrazione della peste che non gli dava requie. Era il tragico pessimismo cantato nell’Adelchi con accenti immortali: «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritti: la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / coltivata col sangue; e ormai la terra / altra messe non dà...». I promessi sposi sono dunque un’operazione di esorcismo che il Manzoni esercitò in primo luogo contro la sua stessa natura soggiogata dalle forze di un male irrimediabile. In secondo luogo sono un monumento innalzato alla sua conversione, avvenuta in circostanze tuttora oscure, che lo salvò dal baratro di una vita senza senso. In terzo luogo sono la testimonianza artistica e morale della sua concezione del cristianesimo. Ma questi tre momenti, che sembrano, staccati l’uno dall’altro, sono in realtà inestricabilmente fusi. Nei Promessi sposi la peste invoca la grazia, e la provvidenza conferisce una ragione al mistero della peste e della grazia. C’è dunque prima di tutto il male, poi l’esorcismo del male e infine la paradossale positività del male, che ci rende più umano e sopportabile il volto irridente dell’ingiustizia e del dolore sociale e naturale. Ecco dove il cristianesimo del Manzoni si salda con l’illuminismo. Il lombardo compie il miracoloso exploit di rendere credibile quello, e più fecondo questo. Possiamo anche dire che ha infuso nell’illuminismo la trascendenza e nel cristianesimo l’immanenza, anticipando, ma in modo del tutto originale, sia Dostoevskij che Tolstoi, per tacere di molti altri romanzieri cattolici e non cattolici. Ma in che modo il Manzoni ha reso più fecondo il cristianesimo? Basterebbe questa frase per farcelo capire: «Non c’è superiorità giusta d’uomo sopra gli uomini se non in loro servigio».
Per questo motivo la critica ai potenti e ai sopraffattori non tocca la figura del cardinale Borromeo, in quanto il personaggio aderisce a quel «servigio» e da quella frase, che sembra buttata giù a caso, discende tutta la dottrina cristiana, estetica e politica del Manzoni. Il metaforico risciacquamento in Arno della lingua è anche la simbolica purificazione di un cattolicesimo troppo spesso dimentico della genuinità del messaggio evangelico. MNon solo. La ricerca lunga e travagliata di un linguaggio popolare non è la mania di uno scrittore perfezionista ma il versante artistico, se così ci è concesso dire, del cristianesimo che leva sopra i soprusi di pochi potenti la voce dei diritti delle masse. Tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio, quindi anche la lingua dev’essere uguale. La polemica anticlassica del Manzoni contro i cicisbeismi settecenteschi colpisce la stupidità di una estetica illanguidita e leziosa non meno che l’ingiustizia delle gerarchie sociali rappresentate dalle corti di ogni genere e tipo. Per il Manzoni la gerarchia è ammissibile soltanto se è al servizio del popolo, e non viceversa. Questo è un altro motivo dell’attualità del lombardo. a non la finiremmo più se ci venisse l’assurda pretesa di elencare tutti gli spunti attuali e attualizzabili della sua opera. Del resto il Manzoni è un labirinto dal quale non si esce mai. Purtroppo la sua poliedricità, che costituisce anche la sua immortalità, si presta a essere strumentalizzata facilmente. L’unica è di presentare tutte le sue facce possibili, senza pretendere di imbalsamare nessuna. O meglio, tutte le facce del Manzoni e della sua opera sono vere, tranne quelle che lo raffigurano come un pio conservatore, un osservante passivo e obbediente, un uomo in pace con se stesso e con il mondo. Il sorriso manzoniano è invece fatto di una realtà cupa e torbida, e la sua ironia è un invito discreto ma perentorio a demolire con la lama acuminata dell’intelligenza analitica le false mitologie e le false autorità che ottundono lo spirito critico delle masse, in special modo i ceti umiliati, che invece sono il vero sale della storia.
Le ragioni sono parecchie, e non è qui il caso di enumerarle, anche per non suscitare i fantasmi di un passato che non ci fa certo onore. Però una cosa bisogna dirla, ed è che la borghesia di ieri e di oggi si è sempre distinta per il suo pervicace miopismo guicciardiniano, alimentato per giunta dalla cecità di quella parte clericale che vedeva e vede in ogni «apertura» un germe di regresso anziché di progresso. Né deve stupire se per costoro I promessi sposi non sono affatto in odore di santità giacché contengono «una delle più corrosive e irridenti critiche alle prevaricazioni ideologiche, materiali e morali della classe dei potenti che amano sadicamente, e pour cause, la cosiddetta umiltà e la cosiddetta ignoranza del popolo, quasi che queste due «virtù» siano un prodotto della natura e non il risultato di ben individuabili politiche di vertice.
Questo aveva capito il Manzoni frequentando fortunatamente gli ambienti culturali di Parigi. Se fosse rimasto in Italia, in lui non si sarebbe verificata quella straordinaria saldatura tra illuminismo e cristianesimo sulla quale si fonda il valore. È più autentico dei Promessi sposi. Infatti, l’umiltà che predica il Manzoni non è una virtù ricevuta dal potente e messa supinamente in pratica secondo i suoi intendimenti, ma una conquista morale strappata nel vivo delle lotte sociali. E l’ignoranza e la stolidità dei poveri sono sempre viste dal Manzoni come il risultato di una pedagogia, diciamo così, alla rovescia, che mira a trasformare subdolamente l’ignoranza in saggezza. Sia chiaro, non stiamo cercando di dare l’immagine di un Manzoni rivoluzionario, che sarebbe ridicola, oltre che storicamente falsa. Ma non accettiamo nemmeno l’immagine di un Manzoni tutto latte e miele, che la scuola italiana ha contrabbandato e contrabbanda ancora gli studenti, con l’effetto di iniettare in essi una massiccia ripulsa per l’opera del grande lombardo.
La strumentalizzazione in chiave conservatrice, quando non addirittura reazionaria, del Manzoni è uno dei più tristi capitoli della nostra scuola, che ne ha scritti anche di peggio. vero che l’epilogo dei Promessi sposi è improntato a un ottimismo quasi da «happy end» hollywoodiano. Ma è anche vero che il personaggio che domina la scena del romanzo è la peste che delle volte assume le sembianze degli uomini e dei regni, a volte quelle di una indifferente e atroce calamità naturale. Nonostante i suoi schietti sentimenti cattolici, albergava nell’inconscio del Manzoni il Dio biblico, e la visione che egli aveva dei popoli e della natura era profondamente tragica. Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che la nevrosi di cui soffriva il Manzoni era provocata dal contrasto tra il Dio biblico e il messaggio evangelico.
Né crediamo di diminuire la sua grandezza se affermiamo che per non soccombere alla malattia, egli si aggrappò ai vangeli e su di essi, con uno sforzo titanico, fondò 1a sua filosofia e la sua arte. E tuttavia il Dio biblico, un Dio dispensatore di una terrificante giustizia senza·appello e senza carità, non fu mai esorcizzato del tutto. Nei Promessi sposi agiscono efficacemente la provvidenza e la grazia, ma si direbbe che vengano evocate o invocate per giustificare la peste, della quale il Manzoni subiva il fascino sinistro. Non a caso le pagine sulla peste sono le più poetiche, e intrise di alta religiosità, dell’intero romanzo. Quando il Manzoni non «sente» la peste, il suo stile si fa opaco, diventa esornativo e agiografico. Del resto fu l’angosciosa consapevolezza della peste umana e naturale che lo spinse, tra il 1821 e il 1823, a scrivere Fermo e Lucia dal cui nucleo germineranno i primi Promessi sposi del 1827 e quelli definitivi del 1840. I filologi sanno quanto sia fruttuoso e istruttivo frugare tra le carte inedite di uno scrittore. È lì infatti, in quei quaderni o fogli chiusi in un cassetto e ripudiati ma non distrutti, che si cela il segreto della sua personalità e del suo travaglio per raggiungere la espressione compiuta. Gli abbozzi sono sempre una confessione senza inibizioni né freni di sorta.
Rappresentano lo specchio della nuda realtà del contenuto di contro alla levigata verità della forma. Ad esempio, la malvagità di don Rodrigo, dell’Innominato e della monaca di Monza, che nei Promessi sposi risulta piuttosto schematica tanto da sembrare puramente arbitraria, in Fermo e Lucia è spiegata con effusione ed è resa plausibile. Lucia narra che «don Rodrigo veniva spesso alla filanda per vederci trarre 1a seta. Andava da un fornello all’altro facendo a questa o a quella mille vezzi l’uno peggio dell’altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà: chi fuggiva; chi gridava; e purtroppo v’era chi lasciava fare! PSe ci lamentavamo al padrone, egli diceva: 'badate al fatto vostro...'». Non c’è chi non veda, in questo brano espulso dai Promessi sposi la stupefacente attualità della passione di don Rodrigo, il quale si direbbe il figlio di un cinico industrialotto dei nostri giorni che si è invaghito della verginità di una sua operaia. oi è stato giustamente notato che l’Innominato, che in Fermo e Lucia è chiamato i1 conte del sagrato, è un boss ante-litteram, avido e sanguinario, protetto da un’omertà di un’intera società mafiosa, e che quindi la sua decisione di aiutare don Rodrigo nella sua triste impresa è più che naturale, trattandosi di dare una mano a un uomo della sua stessa pasta e del suo stesso milieu. Un altro famoso episodio eliminato è quello delle due monache che massacrano a colpi di sgabello la monaca che sapeva troppe cose sul convento di Monza. Citiamo infine una considerazione, anche questa assente dai Promessi Sposi, che il Manzoni fa su don Abbondio o meglio su tipi alla don Abbondio: «L’uomo timido il quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il quale cercando il male, e facendolo spontaneamente, mostra di avere almeno una gran forza d’animo, e di sentire le alte passioni».
È una considerazione terribile che imparenta il Manzoni con i più spregiudicati ideologi della grandezza degli scellerati consapevoli. Era la suggestione del bonapartismo che lo induceva a scrivere queste parole, forse unita all’eco della fosca e grandiosa età elisabettiana che gli giungeva attraverso la lettura dei romanzi di Walter Scott. Era comunque e sempre l’attrazione della peste che non gli dava requie. Era il tragico pessimismo cantato nell’Adelchi con accenti immortali: «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritti: la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / coltivata col sangue; e ormai la terra / altra messe non dà...». I promessi sposi sono dunque un’operazione di esorcismo che il Manzoni esercitò in primo luogo contro la sua stessa natura soggiogata dalle forze di un male irrimediabile. In secondo luogo sono un monumento innalzato alla sua conversione, avvenuta in circostanze tuttora oscure, che lo salvò dal baratro di una vita senza senso. In terzo luogo sono la testimonianza artistica e morale della sua concezione del cristianesimo. Ma questi tre momenti, che sembrano, staccati l’uno dall’altro, sono in realtà inestricabilmente fusi. Nei Promessi sposi la peste invoca la grazia, e la provvidenza conferisce una ragione al mistero della peste e della grazia. C’è dunque prima di tutto il male, poi l’esorcismo del male e infine la paradossale positività del male, che ci rende più umano e sopportabile il volto irridente dell’ingiustizia e del dolore sociale e naturale. Ecco dove il cristianesimo del Manzoni si salda con l’illuminismo. Il lombardo compie il miracoloso exploit di rendere credibile quello, e più fecondo questo. Possiamo anche dire che ha infuso nell’illuminismo la trascendenza e nel cristianesimo l’immanenza, anticipando, ma in modo del tutto originale, sia Dostoevskij che Tolstoi, per tacere di molti altri romanzieri cattolici e non cattolici. Ma in che modo il Manzoni ha reso più fecondo il cristianesimo? Basterebbe questa frase per farcelo capire: «Non c’è superiorità giusta d’uomo sopra gli uomini se non in loro servigio».
Per questo motivo la critica ai potenti e ai sopraffattori non tocca la figura del cardinale Borromeo, in quanto il personaggio aderisce a quel «servigio» e da quella frase, che sembra buttata giù a caso, discende tutta la dottrina cristiana, estetica e politica del Manzoni. Il metaforico risciacquamento in Arno della lingua è anche la simbolica purificazione di un cattolicesimo troppo spesso dimentico della genuinità del messaggio evangelico. MNon solo. La ricerca lunga e travagliata di un linguaggio popolare non è la mania di uno scrittore perfezionista ma il versante artistico, se così ci è concesso dire, del cristianesimo che leva sopra i soprusi di pochi potenti la voce dei diritti delle masse. Tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio, quindi anche la lingua dev’essere uguale. La polemica anticlassica del Manzoni contro i cicisbeismi settecenteschi colpisce la stupidità di una estetica illanguidita e leziosa non meno che l’ingiustizia delle gerarchie sociali rappresentate dalle corti di ogni genere e tipo. Per il Manzoni la gerarchia è ammissibile soltanto se è al servizio del popolo, e non viceversa. Questo è un altro motivo dell’attualità del lombardo. a non la finiremmo più se ci venisse l’assurda pretesa di elencare tutti gli spunti attuali e attualizzabili della sua opera. Del resto il Manzoni è un labirinto dal quale non si esce mai. Purtroppo la sua poliedricità, che costituisce anche la sua immortalità, si presta a essere strumentalizzata facilmente. L’unica è di presentare tutte le sue facce possibili, senza pretendere di imbalsamare nessuna. O meglio, tutte le facce del Manzoni e della sua opera sono vere, tranne quelle che lo raffigurano come un pio conservatore, un osservante passivo e obbediente, un uomo in pace con se stesso e con il mondo. Il sorriso manzoniano è invece fatto di una realtà cupa e torbida, e la sua ironia è un invito discreto ma perentorio a demolire con la lama acuminata dell’intelligenza analitica le false mitologie e le false autorità che ottundono lo spirito critico delle masse, in special modo i ceti umiliati, che invece sono il vero sale della storia.
«Avvenire» dell'8 luglio 2012
Nessun commento:
Posta un commento